sabato 1 ottobre 2016

Antoine Volodine – Angeli minori




Il mondo ai confini del mondo

Dopo Gospodinov e Cărtărescu ecco Volodine. Un altro messaggero degli dei mandato a dirci che il romanzo non è morto, ma gode di splendida salute.
Un romanzo diverso da quello che abbiamo conosciuto finora, meno chiuso in se stesso e più aperto in tutte le direzioni, un romanzo che mescola reale e visionario, che racconta senza sentire il bisogno di spiegare, che utilizza tutti i registri e le tecniche narrative che ritiene necessarie e magari inserisce nella narrazione note di biologia, scienza, religione e quant’altro possa risultare funzionale alla storia.
Una novità che parte da lontano, visto che già Kundera, nella prefazione de “I sonnambuli” di Broch scrive:

“Con un’euforica fiducia in se stesso Broch, durante la stesura dei Sonnambuli, afferma (in alcune lettere) che il suo romanzo rappresenta una nuova tappa della storia del romanzo. Dopo la lunga era del romanzo «psicologico», scrive, è giunto il tempo del romanzo «gnoseologico». Infatti, nell’epoca in cui le scienze si specializzano sempre di più, addentrandosi in un tunnel senza uscita, solo il romanzo può ancora cogliere l’esistenza umana in tutta la sua estensione, in tutta la sua totalità. Nel nostro tempo, afferma, «la conoscenza è la sola morale del romanzo».
Un tale ampliamento dell’orizzonte noetico esigeva un ampliamento formale altrettanto radicale. Broch ha saputo incorporare nel suo romanzo diversi generi letterari. Ciò è particolarmente evidente nella terza parte della trilogia: c’è una story che narra la vita di Huguenau (narrazione interrotta da una breve parte scritta come fosse un dialogo teatrale e da un’altra dall’andamento aforistico); c’è una novella che racconta la vita intima di una donna perduta; poi un reportage su un ospedale militare; poi uno strano racconto sull’Esercito della Salvezza (scritto per lo più in versi). E infine un saggio filosofico sulla «disgregazione dei valori» (che non disdegna il linguaggio scientifico). Tutte queste parti sono articolate in molti capitoli i quali, correlati e combinati, danno vita a un sorprendente insieme polifonico (il termine è di Broch) che l’arte del romanzo non aveva mai conosciuto.

Quando Sartre, nel dopoguerra, parla della necessità di cogliere non i caratteri e la loro psicologia, ma le situazioni fondamentali nelle quali si rivela l’esistenza umana, definisce così, nei termini che gli sono propri, la grande svolta compiuta vent’anni prima da Broch. Ma è soprattutto il grande romanzo latinoamericano che dagli anni cinquanta e sessanta continua sulla strada aperta da Broch. Penso a Ernesto Sabato che, nel 1974, afferma, in modo assolutamente brochiano, che «nel mondo moderno abbandonato dalla filosofia, frazionato in centinaia di specializzazioni scientifiche, il romanzo resta l'ultimo osservatorio da dove si può abbracciare la vita umana come un tutto»”

Novità formali e di contenuti, che Volodine interpreta con una scrittura non semplice, ma che pretende attenzione costante da parte del lettore che assiste ad una narrazione frammentaria, affidata alle voci di quarantanove personaggi (gli “Angeli minori” a cui allude il titolo) impegnati a raccontare brandelli delle loro vite che cucite insieme vanno a costituire la trama del romanzo. Questi frammenti, “narrat” li chiama l’autore, sono istantanee, fotografie di un momento, tasselli che Volodine getta sul pavimento lasciando al lettore il compito e il piacere di ricomporre il puzzle.
Compito non semplice, visto che siamo in un territorio di confine, a cavallo tra apocalittico e distopico, una zona dove reale e immaginario si mescolano e i punti di riferimento diventano pochissimi. Qui il tempo e lo spazio che siamo abituati a conoscere non hanno cittadinanza, le coordinate temporali sono confuse (sembra di essere in un eterno presente o meglio in un continuum atemporale) e le distanze si misurano in ettametri o in migliaia di chilometri che i personaggi sembrano percorrere in pochi attimi.
Quello di “Angeli minori” è un mondo ai confini del mondo, un’umanità post-umana, fatta di vecchie immortali impegnate a soffiare la vita su un fantoccio di stracci per far rinascere quegli ideali egualitari che sembrano scomparsi. Le vecchie riusciranno nell’impresa di creare dal nulla un essere in grado di incarnare queste idee, una creatura che non è più umana ma non si sa bene che cosa sia, che però finirà per tradire il suo mandato riportando in vita il capitalismo e le sue degenerazioni.
Detto questo, è bene aggiungere che questo libro è molto più di una trama più o meno lineare, i “narrat” attraverso i quali si snoda pescano nel fondo della coscienza dei personaggi e quello che viene alla superficie è un misto di memoria, sogni, fantasie, illusioni, ambizioni, incubi, associazioni di idee e pensieri frammentari. Il risultato è un materiale difficile da maneggiare e impossibile da scomporre, un magma indistinto che probabilmente è anche l’unico modo di dar voce all’inconscio di ognuno, perché cercando di tradurlo con l’alfabeto della ragione finiremmo per tradirlo. I “narrat” sono dunque quello che rimane dell’inconscio quando viene portato alla luce, quel misto di vero e falso che ci portiamo dietro, che ci confonde ma che ci aiuta a vivere.
Di nuovo torniamo a Broch, al romanzo come unico strumento in grado di cogliere l’esistenza umana in tutta la sua estensione, in tutta la sua totalità.

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