domenica 13 agosto 2017

Triste come lei – Juan Carlos Onetti




“Per me, ormai lo sapete, i fati nudi e crudi non significano niente. L’importante è quello che contengono o quello che comportano; e poi constatare cosa c’è dietro una cosa e dietro ancora fino al fondo definitivo che non raggiungeremo mai.”


Partiamo da qui. Da una dichiarazione d’intenti che racchiude l’intera poetica onettiana, ma che a pensarci bene potrebbe adattarsi anche a uno scrittore stilisticamente lontanissimo dal maestro latinoamericano come R. Carver, a testimonianza che spesso i grandi artisti partono da idee condivise che poi sanno sviluppare in maniera originale.

Partiamo da qui e diciamolo subito: “Triste come lei” è un capolavoro, una serie di racconti che vanno dal 1933 al 1974 e che costituiscono la summa del pensiero di J.C. Onetti.

Qui dentro ci sono più o meno tutti i temi che lo scrittore uruguaiano ha approfondito nei romanzi: c’è la necessità di appoggiarsi al sogno e di credere nelle menzogne per riuscire a sopravvivere nel mondo reale,  e c’è la consapevolezza dell'ineluttabilità del destino, con la conseguente compassione per gli uomini che si illudono di essere gli artefici delle loro fortune mentre in realtà sono solo i figuranti di una commedia scritta da altri. C’è il ricordo, che il tempo trasforma in qualcosa di diverso, modificando quello che è stato in quello che avrebbe potuto essere, e ci sono  il rimpianto e la sconfitta, la solitudine e quel bisogno di espiare al quale non riusciamo mai a sottrarci, condannati a una pena chiamata vita.


E poi c’è la scrittura di Onetti: la capacità di dare profondità ai personaggi attraverso la descrizione di aspetti contradditori del loro carattere e la bellezza di frasi a volte pesanti come sentenze e altre leggere come pennellate, frasi apparentemente semplici ma che contengono all’interno una polverina magica in grado di suscitare immagini e accendere la fantasie del lettore.

Sembra di vederlo, il protagonista del “Il volto della disgrazia”, quando racconta che  “la luce spingeva l’ombra della mia testa fino al bordo del sentiero di sabbia fra gli arbusti”. E anche la ragazza dello stesso racconto che arrivando in bicicletta “muoveva con facile lentezza le gambe, con tranquilla arroganza le gambe riparate da calze grigie” (facile/lentezza e tranquilla/arroganza…). E ancora: il protagonista che dopo aver visto la ragazza calcola “che ci separavano venti metri e meno di trent’anni” e poi rimane a guardare la morte del sole era gli alberi e che scivola “in un lento sonno, in un mondo oliato e senz’aria, dov’ero stato condannato ad avanzare, con enorme sforzo e senza voglia, a bocca aperta, verso l’uscita dove dormiva l’intensa luce indifferente del mattino, irraggiungibile”.


Inutile proseguire, per quanto mi riguarda con “Triste come lei” si chiude la mia caccia al più grande narratore di sempre. 
Juan Carlos Onetti è il più grande di tutti.

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