domenica 27 maggio 2012

Dimissioni dalla lotta




Sono piovuto su un mare d’argento
un giorno di brezza leggera.
Intorno a me persone in maschera
nuotavano da millenni
rincorrendo bolle di sapone
che un vento capriccioso
spingeva un po’ più in là.
Il cielo era vestito dalle voci
di gente che chiedeva,
ma il suono del mare
copriva le risposte.
La riva era un miraggio
che si dissolveva
quando credevi
di averlo raggiunto.

Ho provato a seguirli,
ho rincorso oggetti e idee
cambiando più volte direzione.
Ho cercato rifugio
nelle profondità marine
per nascondermi dagli altri.
Ma ogni volta che il fondo
sembrava a portata di mano
mi spingeva via
ed io tornavo a galla
deluso e senza fiato.

Per soddisfare la sete dei miei sogni
non ho trovato nient'altro
che un contagocce consumato.
Stanco di girare in tondo
e di vagare senza meta
ho ammainato le vele
e mi sono arreso.
Sdraiato sul dorso
ho smesso di nuotare.

Dimesso dalla lotta
mi sono lasciato portare.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

sabato 26 maggio 2012

1 OTTOBRE 1970



1 Ottobre 1970, primo giorno di scuola. Ed io sbagliavo classe.
Un caso? Sicuramente. Ma forse anche un segno per dire: io sono così.
Così come? Così. Diverso. Che sia vero o no non ha alcuna importanza. Quello che importa è che mi sento diverso, e tanto basta. 
Sono quello che sento, non quello che gli altri cercano di convincermi che io sia, questo è il punto.
E non è bello sentirsi diversi. Ci si sente a disagio.
La diversità è un fardello pesante da portare, è merce che va trattata con delicatezza, perché diversità fa rima con fragilità. 
La diversità non puoi comunicarla a parole, e del resto sarebbe fatica inutile: solo un altro animo simile può riconoscerla.
La diversità è solitudine. Non ha senso esibirla, anzi. La si coltiva nel proprio cuore e la si nasconde a chi non capirebbe.
E così ho fatto. Ho cercato di stare nel gruppo, di confondermi, di annullarmi nella massa, di rendermi invisibile. Ho cercato di essere quello in fondo nelle foto, quello dietro a tutti. Ho giocato a mascherarmi, a fingere di essere come gli altri. Fino a quando? Per sempre, credo.
Mi sento irredimibile, condannato da me stesso ad una doppia vita: anonima quando sono tra la gente ed immaginifica quando sono nel mio mondo. E’ un modo di vivere un po’ complicato, ma che per ora funziona.
Ad una sola cosa devo stare attento, a non mescolare mai i due mondi. Temo che potrebbero saltare tutti gli equilibri che mi sono faticosamente costruito.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

domenica 20 maggio 2012

La scuola degli sciocchi - Sokolov



Consiglio: scegliete una bella giornata. Facciamo un sabato, un sabato mattina. Prendete la vostra copia de “la scuola degli sciocchi”, lasciate il cellulare in casa ed uscite. Potete andare al mare, al fiume, in campagna, al lago, al parco... andate dove volete, ma uscite. Trovatevi un posticino tranquillo e poi partite con la lettura.
Vi aspetta un viaggio stralunato, che dallo stagno della stazione vi porterà a spasso per le dacie della campagna russa ed oltre, attraverso uno spazio ed un tempo che si dilatano e restringono a piacimento. Accompagnerete lo scolaro tal del tali, della scuola differenziale, attraverso le varie tappe della sua vita, seguirete la sua via, “che non è né breve né lunga, ma simile al tragitto di un pallido ago da cucito che ricuce una nuvola stracciata dal vento”.
Probabilmente vi ci vorrà un po' per entrare nel ritmo e nello stile di Sokolov, ma insistete. Salire su questa giostra sulle prime potrà farvi girare la testa, ma ne varrà la pena. Fidatevi.
Farete la conoscenza di Micheev (o Medvedev), il postino, ma soprattutto il Suscitatore del Vento. Incontrerete il maestro Norvegov, uomo libero e sognante. Vi ritroverete nel fossato del castello di Milano a dialogare con Leonardo e poche pagine più in là vi imbatterete in Rosa Ventosa, la bambina di gesso, e poi nella direttrice didattica Trachtemberg (o Tinbergen) e nel suo giradischi. Scoprirete chi sono Veta Akatova (o Arkad'evna), l'insegnante della scuola e il naturalista Akatov, suo padre, studioso delle “galle” delle piante.
Ancora un'avvertenza: come avrete capito, per apprezzare la poesia di questo libro sarà necessario lasciarsi portare dalla corrente, senza cercare di trovare una spiegazione per ad ogni cosa.
Solo così sarà possibile accettare che il protagonista si trasformi in ninfea, ma solo in parte. Solo così si potrà accompagnare “Quelli che Sono Venuti” fino a casa dell'ispettore tal dei tali, per sapere se il pigiama che indossa è stato comprato o fatto in casa. Solo così si potrà viaggiare per la Terra del Caprimurgo Solitario, uccello della bella estate.
Proprio quando avrete cominciato a prendere confidenza con la narrazione, vi troverete davanti ad un inaspettato salto di ritmo ed alla bellezza struggente dei racconti del capitolo secondo (le storie scritte sulla veranda). Leggerete di “nuvole flaccide come muscoli di uomini vecchi”, di un “autunno che si estendeva di là dai vetri della finestra” e di “passanti che si affrettavano verso casa sognando di trasformarsi in uccelli”. Scoprirete cos'è il Criterio delle Pantofole, introdotto dal preside della scuola e cos'è la memoria selettiva, “che ci permette di vivere come vogliamo, perché ricordiamo solo ciò che ci serve”. Giocherete a scacchi con l'elefancavallo, ascolterete l'odore dell'inverno ed urlerete dentro le botti per riempire il vuoto. Scoprirete che “nessuno è in grado di imparare a memoria il rumore della pioggia e il profumo della violaciocca”. Vedrete un ponte spalancarsi in tutta la sua struttura “come la spina dorsale di un gatto spaventato”, e sentirete Rosa Ventosa cantare “con voce simile al planare di un uccello ferito, al colore di un bagliore di neve.”
Se vi lascerete portare dalla corrente sarete ripagati con la moneta della bellezza, la bellezza un libro sull'infanzia “che passa come un tram arancione che sferraglia sopra il ponte”.
E pazienza se poi, alla fine del libro, sarà finita anche la magia. Tornare alla quotidianità sarà inevitabile, ma nella Terra del Caprimurgo Solitario voi ci sarete stati, ed ora saprete che passare dall'altra parte dello specchio è possibile.

domenica 13 maggio 2012

In altre faccende affacendato (2012)

Sì, certo, la poesia. Va benissimo, ci mancherebbe. 
E la narrativa, poi. E' il pane quotidiano, nemmeno a parlarne. 
E ancora: nutrire la fantasia, sciogliere le briglia all'immaginazione, costruire e smontare mondi, sognare. 
E soddisfare la voglia di infinito, di guardare cosa c'è dietro l'orizzonte, di scoprire, di sapere. 
Ci sono bisogni, passioni, capricci, voglie e curiosità da soddisfare.
E così tanto da conoscere, da approfondire.
E' bello provare a volare alto.
C'è da spaccare il capello in quattro sul problema del comunicare, su etica ed estetica, sintesi ed analisi.
E che dire dell'anima, dell'escatologia, del senso delle cose e compagnia cantante...
Tutto importante, niente da dire. 

E' che forse si rischia di perdere un po' il contatto. 
E' che quando si prova a volare così in alto, le cose della terra finiscono per risultare troppo lontane.

Per questo a volte sento il bisogno di sporcami un po' le mani.



domenica 6 maggio 2012

I detective selvaggi

Questo libro è un sacco di cose. 
E' la fotografia di una generazione, è una dichiarazione d'amore per la poesia, è un film di Wenders, è On the road di Kerouac declinato in sudamericano, è un fiume.
Un fiume lunghissimo, con una serie infinita di affluenti, ognuno dei quali avrebbe la forza di reggere da solo un romanzo e che invece sono utilizzati per portare acqua alla storia di Arturo Belano ed Ulises Lima, per arricchirla di particolari e sfumature, per chiarirla e complicarla raccontandola.
Una storia che non è la storia dei realvisceralisti, come ad un certo punto Norman dice a Daniel, ma "la storia della vita, di quel che perdiamo senza rendercene conto e di quel che possiamo ritrovare", ..."perché niente è finito".
La storia della vita, quindi, quella vita dove tutti nuotiamo e quella vita, come dice Ulises Lima, "dove tutti abbiamo paura di naufragare".

sabato 5 maggio 2012

Isole sul fiume


Un giorno gli chiesi dove fosse stato. Mi disse che aveva disceso un fiume che unisce il Messico con l'America Centrale. Che io sappia, quel fiume non esiste. Mi disse, però, che aveva disceso quel fiume e che ora poteva dire di conoscerne tutti i meandri e gli affluenti. Un fiume d'alberi o un fiume di sabbia o un fiume d'alberi che a tratti si tramutava in un fiume di sabbia. Un flusso costante di gente senza lavoro, di poveri e di morti di fame, di droga e di dolore. Un fiume di nubi su cui aveva navigato per dodici mesi e lungo il quale aveva trovato innumerevoli isole e paesi, anche se non tutte le isole erano abitate, e dove a volte aveva creduto di rimanere a vivere per sempre o di morire.
Di tutte le isole visitate, due erano portentose. L'isola del passato, disse, dove esisteva solo il tempo passato e nella quale gli abitanti si annoiavano ed erano ragionevolmente felici, ma dove il peso dell'illusione era tale che l'isola affondava nel fiume ogni giorno un poco di più. E l'isola del futuro, dove l'unico tempo che esisteva era il futuro, e i cui abitanti erano sognatori e aggressivi, così aggressivi, disse Ulises, che probabilmente avrebbero finito per mangiarsi gli uni con gli altri.


[Roberto Bolaño: "I detective selvaggi"]