domenica 30 ottobre 2016

del tentativo chagalliano di Cărtărescu di uscire da una vita bidimensionale


E noi, persone senza importanza, simili alle formiche sopra i tronchi d’albero, cieche a tutto ciò che è a più di due centimetri dai nostri corpi sodi e bruni. La nostra vita con due centimetri di spessore. Allora mi è accaduto qualcosa: guardavo come la mamma fluttuava in cucina, immersa fino al petto, insieme col mulino e con l’inverno e con i colombi, nelle acque dense del mio manoscritto, e a un tratto mi sono chiesto se in qualche modo anche il mondo è un forma di realtà, magari consistente quanto la finzione, se in qualche modo anche la vita è autentica quanto i sogni.


[Mircea Cărtărescu:”Abbacinante- L’ala destra”]

sabato 22 ottobre 2016

Tommi Wieringa – Questi sono i nomi




Homo hominis lupus/homo hominis deus

Un Wieringa sorprendente, lontano anni luce dai fuochi d’artificio di Joe Speedboat, confeziona qui un gran un romanzo partendo da un tema di triste attualità, quello dei migranti. In Questi sono i nomi due sono le storie che si alternano fino ad incontrarsi e poi diventare una sola: le traversie di un gruppo di disperati che tentano (credono) di fuggire da un non precisato paese dell’Asia seguendo il miraggio di un vita migliore e la storia di Pontus Berg, commissario di polizia in un posto di frontiera, anche lui alla ricerca di qualcosa: la sua identità, capire chi è.
Interessante e originale è il parallelismo tra le peripezie dei migranti e quelle degli ebrei in fuga dall’Egitto, come a dirci che non c’è nulla di nuovo sotto il sole e che i problemi dell’uomo che scappa dall’uomo continuano ad essere gli stessi. Interessante è anche come Wieringa concentri l’attenzione sul fatto che i vari personaggi del racconto, al di là dei bisogni materiali, sentono forte la necessità di credere in qualcosa, di affidare a qualcuno (che sia una divinità o un portafortuna) il ruolo di guida per le loro vite. Interessanti sono poi le riflessioni sulle dinamiche comportamentali del gruppo, su come le difficoltà e l’influenza dell’ambiente ostile facciano regredire l’uomo a livelli subumani, quasi a ricordarci che i comportamenti animali sono una parte di noi che non vogliamo vedere e che fatichiamo a tenere a freno, le stesse dinamiche che, mutatis mutandis, ritroviamo anche nella descrizione delle società delle repubbliche asiatiche post-sovietiche, dove domina la legge del più forte ed imperano ingiustizia e clientelismo.

Questi sono i nomi è un libro sull’uomo, sulle sue domande che non trovano risposte e sulla partita a scacchi che gioca con la vita, scopo della quale, per dirla con le parole del rabbino Eder, “ sarebbe condurre l’avversario in una selva oscura, quella in cui due più due fa cinque, e il sentiero per uscirne è abbastanza largo solo per uno dei due”. 

domenica 9 ottobre 2016

Juan Carlos Onetti - Il cantiere




Triste, solitario y final

Romanzo imprescindibile nella bibliografia onettiana, nel quale ritroviamo Larsen - il Raccattacadaveri protagonista della saga di Santa María - al passo d’addio.
L’autore ce lo presenta nel momento in cui fa la sua comparsa nella cittadina. Ed è una presentazione da par suo:
Larsen scese dalla fermata delle corriere che arrivano da Colón, posò un momento la valigia a terra per tirarsi verso le nocche i polsini di seta della camicia e si avviò verso Santa María proprio quando aveva da poco smesso di piovere, lento e dondolante, forse più grasso, più basso, anonimo e in apparenza domo.”
In apparenza domo. Tre parole, poste alla fine della prima pagina, pesanti come macigni, tre parole con le quali Onetti traccia la strada, i binari sui quali correrà il romanzo. Si tratta di binari privi di suspense perché le cose, come spesso succede nei romanzi dello scrittore uruguayano, sono già scritte fin dall’inizio. Se e è vero infatti che sono il caso e il destino a riportare Larsen a Santa María, “per concedergli l’ingenua rivincita di imporre nuovamente la sua presenza alle strade e ai locali pubblici dell’odiata città”, è anche vero che la rivincita che Raccattacadaveri vorrebbe prendersi è, appunto, “ingenua”, destinata cioè a fallire in partenza.
Larsen è destinato alla sconfitta. Il massimo a cui può aspirare è “continuare a perdersi senza doverlo accettare, senza che la sua rovina diventasse lampante, pubblica, spassosa”, ha intuito di essere cascato dentro una trappola, eppure decide di giocare una partita che non può vincere piuttosto che provare a tirarsene fuori e lo fa “perché questa era la sua ultima possibilità di illudersi”.
Larsen è l’uomo che si trova nel fondo del dirupo e decide di rimanervi, perché quella è la sua vita, e al di fuori “non c’è altro che l’inverno, la vecchiaia, il non sapere dove andare, persino la possibilità della morte”. Ma Larsen è anche l’uomo che cerca di tirarsi fuori dal baratro nel quale è sprofondato e e l’appiglio che trova è quanto di più pericoloso poteva aspettarsi, vale a dire le braccia di Jeremías Petrus, un vecchio faccendiere ed impostore che sta precipitando nel vuoto come lui, ma che a differenza di Larsen non se ne cura. Sul fondo del pozzo a fare compagnia a Raccattacadaveri c’è la lunga teoria dei vinti, degli sconfitti dalla vita: c’è chi, come Galvéz, cercherà di ribellarsi al suo destino finendone schiacciato, chi, come Angelica Inés, vive nella prigione dorata della sua pazzia, e poi gli altri, un’umanità dolente che si trascina per le strade di Santa María indifferente a tutto quello che succede, un po’ per abitudine, un po’ perché non sa, non può o non vuole fare altrimenti.
Larsen si sente diverso dagli altri e cerca di lottare per sfuggire alle sabbie mobili, senza rendersi conto che più si muove e più rapidamente il fango lo risucchia al suo interno.
Larsen gioca a carte con la Vita, ad ogni giro crede di avere in mano le carte per conquistare la posta e poi finisce per perdere la scommessa. Eppure non si rassegna e rilancia, consapevole che quella che sta giocando è l’ultima partita, la sua ultima possibilità di avere se non un futuro almeno un presente, e si ingegna a trovare una via d’uscita dall’angolo nel quale la Vita lo ha schiacciato. Rilancia al buio, bluffa, prova a confondere il suo avversario, tira fuori tutto l’armamentario che ha accumulato in anni e anni di partite a carte pur di rimanere a galla.
Tutto inutile, dall’altra parte del tavolo siede la Vita, un avversario che nessuno ha mai sconfitto perché sa sempre che carte abbiamo in mano.

sabato 1 ottobre 2016

Antoine Volodine – Angeli minori




Il mondo ai confini del mondo

Dopo Gospodinov e Cărtărescu ecco Volodine. Un altro messaggero degli dei mandato a dirci che il romanzo non è morto, ma gode di splendida salute.
Un romanzo diverso da quello che abbiamo conosciuto finora, meno chiuso in se stesso e più aperto in tutte le direzioni, un romanzo che mescola reale e visionario, che racconta senza sentire il bisogno di spiegare, che utilizza tutti i registri e le tecniche narrative che ritiene necessarie e magari inserisce nella narrazione note di biologia, scienza, religione e quant’altro possa risultare funzionale alla storia.
Una novità che parte da lontano, visto che già Kundera, nella prefazione de “I sonnambuli” di Broch scrive:

“Con un’euforica fiducia in se stesso Broch, durante la stesura dei Sonnambuli, afferma (in alcune lettere) che il suo romanzo rappresenta una nuova tappa della storia del romanzo. Dopo la lunga era del romanzo «psicologico», scrive, è giunto il tempo del romanzo «gnoseologico». Infatti, nell’epoca in cui le scienze si specializzano sempre di più, addentrandosi in un tunnel senza uscita, solo il romanzo può ancora cogliere l’esistenza umana in tutta la sua estensione, in tutta la sua totalità. Nel nostro tempo, afferma, «la conoscenza è la sola morale del romanzo».
Un tale ampliamento dell’orizzonte noetico esigeva un ampliamento formale altrettanto radicale. Broch ha saputo incorporare nel suo romanzo diversi generi letterari. Ciò è particolarmente evidente nella terza parte della trilogia: c’è una story che narra la vita di Huguenau (narrazione interrotta da una breve parte scritta come fosse un dialogo teatrale e da un’altra dall’andamento aforistico); c’è una novella che racconta la vita intima di una donna perduta; poi un reportage su un ospedale militare; poi uno strano racconto sull’Esercito della Salvezza (scritto per lo più in versi). E infine un saggio filosofico sulla «disgregazione dei valori» (che non disdegna il linguaggio scientifico). Tutte queste parti sono articolate in molti capitoli i quali, correlati e combinati, danno vita a un sorprendente insieme polifonico (il termine è di Broch) che l’arte del romanzo non aveva mai conosciuto.

Quando Sartre, nel dopoguerra, parla della necessità di cogliere non i caratteri e la loro psicologia, ma le situazioni fondamentali nelle quali si rivela l’esistenza umana, definisce così, nei termini che gli sono propri, la grande svolta compiuta vent’anni prima da Broch. Ma è soprattutto il grande romanzo latinoamericano che dagli anni cinquanta e sessanta continua sulla strada aperta da Broch. Penso a Ernesto Sabato che, nel 1974, afferma, in modo assolutamente brochiano, che «nel mondo moderno abbandonato dalla filosofia, frazionato in centinaia di specializzazioni scientifiche, il romanzo resta l'ultimo osservatorio da dove si può abbracciare la vita umana come un tutto»”

Novità formali e di contenuti, che Volodine interpreta con una scrittura non semplice, ma che pretende attenzione costante da parte del lettore che assiste ad una narrazione frammentaria, affidata alle voci di quarantanove personaggi (gli “Angeli minori” a cui allude il titolo) impegnati a raccontare brandelli delle loro vite che cucite insieme vanno a costituire la trama del romanzo. Questi frammenti, “narrat” li chiama l’autore, sono istantanee, fotografie di un momento, tasselli che Volodine getta sul pavimento lasciando al lettore il compito e il piacere di ricomporre il puzzle.
Compito non semplice, visto che siamo in un territorio di confine, a cavallo tra apocalittico e distopico, una zona dove reale e immaginario si mescolano e i punti di riferimento diventano pochissimi. Qui il tempo e lo spazio che siamo abituati a conoscere non hanno cittadinanza, le coordinate temporali sono confuse (sembra di essere in un eterno presente o meglio in un continuum atemporale) e le distanze si misurano in ettametri o in migliaia di chilometri che i personaggi sembrano percorrere in pochi attimi.
Quello di “Angeli minori” è un mondo ai confini del mondo, un’umanità post-umana, fatta di vecchie immortali impegnate a soffiare la vita su un fantoccio di stracci per far rinascere quegli ideali egualitari che sembrano scomparsi. Le vecchie riusciranno nell’impresa di creare dal nulla un essere in grado di incarnare queste idee, una creatura che non è più umana ma non si sa bene che cosa sia, che però finirà per tradire il suo mandato riportando in vita il capitalismo e le sue degenerazioni.
Detto questo, è bene aggiungere che questo libro è molto più di una trama più o meno lineare, i “narrat” attraverso i quali si snoda pescano nel fondo della coscienza dei personaggi e quello che viene alla superficie è un misto di memoria, sogni, fantasie, illusioni, ambizioni, incubi, associazioni di idee e pensieri frammentari. Il risultato è un materiale difficile da maneggiare e impossibile da scomporre, un magma indistinto che probabilmente è anche l’unico modo di dar voce all’inconscio di ognuno, perché cercando di tradurlo con l’alfabeto della ragione finiremmo per tradirlo. I “narrat” sono dunque quello che rimane dell’inconscio quando viene portato alla luce, quel misto di vero e falso che ci portiamo dietro, che ci confonde ma che ci aiuta a vivere.
Di nuovo torniamo a Broch, al romanzo come unico strumento in grado di cogliere l’esistenza umana in tutta la sua estensione, in tutta la sua totalità.