L'uomo che non voleva piangere – Stig Dagerman
(trad. Fulvio Ferrari)
Iperborea editore (I ed. 1983)
Molti credono nel destino. Molti non credono in niente. Alcuni credono in tutto. Alcuni credono. Nessuno sa. Nessuno.
Enfant prodige delle lettere scandinave, Stig Dagerman ha una trentina d'anni, li avrà sempre. Scrittore dotato oltre misura, capace di spaziare indifferentemente dal romanzo al racconto senza perdere un briciolo della sua capacità di scrittura. Colpisce, data la giovane età, la conoscenza profonda degli strumenti narrativi: stile e tecnica mai fini a se stessi ma sempre al servizio della trama. Si sa: gli eroi son sempre giovani e belli…
Lo spazio letterario che lo scrittore svedese occupa è quello al confine tra simbolismo e realismo. Echi di Strindberg, Kafka, Faulkner, Camus… ma, appunto, echi. Perché Dagerman parla con la sua voce, scava dentro se stesso, negli abissi dell'uomo e si scontra con le contraddizioni, i muri e i buchi neri che ci contraddistinguono, senza riuscire ad accettarlo.
Una tensione tra realismo e abisso interiore che emerge anche nei racconti contenuti in questa antologia postuma. Materiale eterogeneo, nel quale è difficile trovare un trait d'union, ma materiale di altissimo livello. Non siamo davanti a scarti, abbozzi incompiuti o malriusciti, come spesso succede quando un autore diventa famoso dopo la sua morte, ma a racconti che ben rappresentano la scrittura di Dagerman, sia per la sensibilità che esprimono che per i temi che trattano.
In particolare, l'autore declina il tema dell’incomunicabilità attraverso una serie di situazioni-limite che ben incarnano tensioni profondamente umane. Spesso ad essere centrale non è lo sviluppo della trama, quanto un gesto, un dettaglio, un episodio, che diventa il centro intorno al quale gira la storia, capace di sviluppare una potente tensione psicologica.
Si va dall'incapacità di piangere (nel racconto che dà il titolo alla raccolta), che in realtà esprime il rifiuto di mostrare falsi sentimenti per essere come gli altri, alla ricerca di un'identità (Dov'è il mio maglione islandese?, Apri la porta, Rickard!) . Forti sono soprattutto le riflessioni sul perdono (e sull'idea di colpa), che caratterizzano, tra l'altro, l'intera opera dello scrittore svedese (si pensi a quel gioiello di analisi disperata e disperante che è Il nostro bisogno di consolazione). Così come quelle sulla solitudine, intesa come gabbia dalla quale è impossibile uscire ma della quale solo noi vediamo le sbarre (Mio figlio fuma una pipa di schiuma). E ancora: la compassione, la tensione costante tra speranza e disperazione (Il viaggio del sabato), fino alla tragica consapevolezza della morte degli ideali, dell'impossibilità di salvezza.
Come in un amaro epilogo, lo scrittore lascia che siano i suoi personaggi a dirci tutto, come in questo passaggio da L’ottavo giorno:
"Ma cos'è la libertà se non un luogo dove barattiamo i nostri sogni con qualcosa di peggio?"
Tutto crolla sotto i colpi dell'analisi lucida e spietata di Dagerman, Roma brucia e con lei l'autore dell'incendio.
Stig Dagerman è uno dei grandi autori del nostro Novecento.