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domenica 15 giugno 2014

ritorno a Volastra


... avevo creduto sbagliando, che tutto avrebbe potuto essere come venti anni prima.
Per me rivedere Giulia avrebbe voluto dire riprendere il discorso lasciato in sospeso sulla Costa de' Posa. Ne ero convinto. Sarei stato capace di ricominciare al punto esatto in cui eravamo rimasti. Avrei potuto replicare alle sue parole di allora su Pessoa e su quanto fossi introverso, come se non fosse trascorso neppure un giorno, come se io e lei fossimo gli stessi ragazzini di allora. Non avevo considerato il fatto che per lei probabilmente quei venti anni erano passati eccome.
Solo ora me ne rendevo conto. Ora che sedevo con i vecchi del paese al tavolino del bar davanti alla scuola, in attesa di vederla uscire da quel portone. Avevo fatto seimilacinquecento chilometri convinto di ritrovare era una ragazzina di diciotto anni, ma quella che mi sarei trovato davanti se fossi rimasto lì sarebbe stata una donna di trentotto. Qualcosa di un po' diverso, un leggero errore di prospettiva. Una persona reale invece di una mia fantasia. Solo ora capivo che sicuramente per lei tutto era cambiato e che niente avrebbe potuto essere come prima.
Viviamo a velocità diverse. 
Ognuno di noi viaggia a una velocità che è solo sua e che non è mai uguale a quella degli altri, questa è la verità. Di più: la velocità con la quale ci muoviamo non è mai costante. Tutti durante la nostra vita abbiamo momenti in cui acceleriamo, rallentiamo, ci fermiamo e ripartiamo. Incontriamo gli altri per un attimo brevissimo o magari per un periodo più o meno lungo, ma prima o poi riprendiamo a muoverci ad una velocità diversa rispetto a chi abbiamo vicino. È una velocità interiore, quella di cui sto parlando, non reale. Possiamo rimanere fermi in un posto per tutta la vita, circondati dalle stesse persone, ma è inevitabile che ci muoviamo ed ognuno di noi lo fa in maniera diversa dall'altro. Cambiamo, ci evolviamo, si potrebbe dire con parole diverse. Ma la sostanza rimane quella.
Anche mamma e papà ad un certo punto avevano preso ad andare a velocità diverse. Era successo quando avevano venduto il bosco di Monterosso e papà si era buttato nell'edilizia, forse. O magari era successo prima. Come si fa a dirlo. 
È inevitabile, non puoi farci niente e tanto varrebbe prenderne coscienza subito. Perché puoi anche sforzarti di accordare il tuo passo a quello di un altro, cercare di condividere il suo cammino, ma è difficile. È impossibile, perché non puoi essere mai certo di cosa stia facendo lui in quel momento, non puoi vedere a che velocità sta andando, se sta andando. Puoi provarci come no, puoi cercare di immaginarlo, puoi anche convincerti di aver sincronizzato la tua andatura sulla sua, ma prima o poi dovrai riconoscere che è solo una tua fantasia, un'impresa folle e destinata a naufragare, perché neppure lui è consapevole della sua velocità, neppure lui sa se in quel momento si sta muovendo o invece è fermo.

sabato 7 giugno 2014

Costa de Posa (Volastra), 5.40 del mattino


La prima cosa della quale avevo sentito la nostalgia, una volta arrivato a Milano, non era stata la famiglia e nemmeno gli amici ( del resto non è che fossi quel che si dice un compagnone e più che amici veri e propri avevo qualche conoscente, compagni di scuola, frequentazioni saltuarie). La prima cosa che mi era mancata era stata la Costa. 
Ma non in senso lato, non la Costa intesa come posto del cuore del quale si sente l'assenza appena ci se ne allontana, non la Costa come “idea”, quasi più sentimento che luogo vero e proprio. No, ciò che mi era mancato era qualcosa di ben definito, una combinazione di spazio e tempo precisa.
Mi era bastata poco più di una settimana a Milano per sentire, fortissima, la nostalgia della Costa de Posa alle 5.40 del mattino in uno di quei giorni in cui la primavera si approssima a diventare estate. 
Una di quelle mattine in cui uscivo di casa prestissimo con la scusa di andare nell'orto e invece me ne stavo lassù da solo a guardare il mare, ad ascoltare il silenzio e i suoi rumori. 
A quell'ora non c'erano voci, né di uomo né di animali, solo il suono lontano delle onde e quello di un alito di vento che soffiava tra gli alberi. E poi c'ero io, che cercavo di accordarmi più possibile alla natura, seduto sull'erba, sforzandomi di restare immobile, di mimetizzarmi con quello che mi stava intorno, come se potessi assorbire almeno una parte di quella magia, come se potessi sciogliermi dentro di lei. 
Ma non ci riuscivo mai, c'era sempre qualcosa che mancava, che mi sfuggiva. Un movimento, un respiro, un pensiero che mi distraeva. Era come su tutte le volte lei mi riconoscesse e non mi lasciasse entrare in sintonia completa, come quando da bambino giocavo a nascondino e quando credevo di aver trovato un nascondiglio perfetto c'era sempre un movimento che mi tradiva, che mi faceva scoprire. 
Quei mattini che duravano sempre troppo poco, con la luce del giorno che all'inizio si stendeva sulla Costa languida, pigra come un gatto che si stira e poi accelerava senza preavviso e di colpo era giorno pieno, con l'esplosione di colori ed il risveglio di voci che mi richiamavano ai miei impegni. 
Una specie di sogno interrotto, di ricerca continua di una sintonia impossibile, un castello di carte che cadeva ogni volta che credevi di aver messo l'ultimo tassello, un castello di sabbia costruito con cura e pazienza che l'onda cancellava con un soffio. Un castello che poi il bambino costruiva di nuovo. Una, due, tre volte. Sempre, all'infinito. Perché era così che doveva andare.