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sabato 6 aprile 2019

Douglas Anthony Cooper – Amnesia



Holden 2.0 (e non solo)

Romanzo stranissimo, complesso e sorprendente, Amnesia è un viaggio ai confini del postmoderno, alla ricerca di nuova linfa per l'albero della narrativa. Una trama ricchissima e ingarbugliata che fin da subito si suddivide in sottotrame che si alternano procedendo in parallelo con ritmo incalzante, facendosi strada tra citazionismo, metaletteratura, metafore, sogni, narrazione per immagini e chissà quant'altro, per poi tornare al punto di partenza.
Un uomo entra nell'ufficio di un archivista della biblioteca e inizia a raccontare la sua storia, da qui tutto prende le mosse, in un crescendo ipnotico che finisce per attrarre il lettore dentro alle pagine del libro. È una frase di Freud, "la mente è come una città", l'idea forte sulla quale è costruita l'architettura dell'opera, una città fatta di vie che corrono parallele, si incrociano, si uniscono e poi si separano, ma anche di stradine, vicoli ciechi, edifici che con il tempo si modificano, si accrescono mantenendo sempre memoria degli strati precedenti, di com'erano un tempo. "Se vi dimenticherete della vostra storia, la casa crollerà su se stessa, vittima delle sue stesse impossibili fondamenta. Ma quando una casa crolla qualcosa fa sì che i ricordi vengano trascinati nella terra. Quando la casa non ci sarà più, ci disse, sarete in grado di leggere la sua storia dalle rovine". Un libro sull'importanza della memoria, dunque. E sui rischi collegati ad una sua perdita. "Trovare la storia e raccontarla,"- dice il protagonista - "raccontarla bene e ricordarla, così da non essere costretti a ritornare, strisciando nella gola", intendendo per gola ciò che è fuori dalla città, il limbo, il regno degli istinti, dell'irrazionale, di ciò che non ha strutturazione logica. La memoria che permette di non fermarsi all'impressione del momento ma di vedere le cose nel loro complesso, in un arco di tempo sufficiente a ragionare in maniera lucida, senza lasciarsi influenzare dalle passioni.
Difficile, almeno per me, afferrare tutti i mille fili di questo libro: Amnesia è anche un romanzo di formazione (seppur molto sui generis), una riflessione sui rapporti all'interno della famiglia e sui rapporti in generale, sullo sviluppo della personalità, sul linguaggio, sulla dicotomia ragione/sentimento, sul tempo… Amnesia è una lettura interessante e stimolante, da far sedimentare e poi riprendere più avanti perché si tratta di un libro che necessiterà di riletture.

domenica 4 novembre 2018

Réjean Ducharme – Inghiottita




Bérénice va alla guerra.

Libro strano, meno semplice di quanto possa sembrare ad una prima lettura. Se ci si fermasse all’apparenza, ad un’analisi superficiale del tema trattato, ad uno stile fatto di frasi brevi, monologhi incentrati su sensazioni e sentimenti, narrazione in prima persona, uso di forme gergali (“vaccata di una vaccata”), registro stilistico proprio del ragazzino, sarebbe anche troppo facile rubricare quest’opera come una delle tante che trattano il tema dell’adolescenza (ormai una vera e propria narrativa di genere), considerare l’autore come uno dei milioni di epigoni più o meno riusciti di Salinger e salutare nella protagonista l’ennesima “giovane Holden” che si affaccia sul panorama letterario. Nulla di più sbagliato, perché questo libro è altro e Bérénice, la protagonista, una figura di adolescente ribelle che trova pochi uguali nella narrativa contemporanea.

È una bambina figlia di una coppia disfunzionale, di due genitori che hanno deciso di dividersi la cura dei figli. La sua educazione spetta a Einberg, il padre, che prova a crescerla secondo i dettami dell’ebraismo, mentre quella del fratello Christian è affidata a Gatta Morta (nomen omen), la madre, che dovrebbe instradarlo al Cristianesimo. Una situazione sostenibile? Ovviamente no e la vita di Bérénice sarà pesantemente influenzata dalla mancanza di amore, dalle assenze e dalle contraddizioni che un ambiente del genere comporta.
Il rischio di finire inghiottita da un mondo che reputa ostile la porta a inventarsene uno suo, dove vivere in solitudine e dove organizzare le sue difese e poi passare al contrattacco. Gli altri non servono, sono il nemico, perché è convinta che vogliano manipolarla.
E allora: offendere per non essere offesa, inghiottire per non finire inghiottita.
Costruirsi un castello nel quale esiliarsi non è impresa semplice, specialmente se sei una bambina di nove anni. Non è facile imporsi un distacco dagli affetti, perché soprattutto la madre esercita un fascino al quale è difficile sottrarsi. Eppure Bérénice lavora su se stessa alacremente, conosce le sue debolezze e si impegna per cercare di superarle. Usa la forza di volontà per soffocare le emozioni, sforzandosi di fabbricarsi un’armatura di ferro, una personalità forte, un rifugio che la protegga dagli attacchi del un mondo. Si impone di cancellare dal suo vocabolario la parola amore per sostituirla con possesso. Amare significa essere volubili, finire in trappola, preda di quei sentimenti che lei combatte. Il coinvolgimento è pericoloso, “ciò che importa è volere, è avere ciò che si vuole nell’anima”;  esercitare il potere sugli altri è “trionfare sulla loro volontà e su ciò che mi porta ad amarli”.
Di nuovo: inghiottire per non essere inghiottita.
Bérénice va alla guerra, ma fare guerra alle leggi di natura, sottrarsi a sentimenti e pulsioni connaturate alla natura umana non è un’impresa da bambini e le crepe nelle sue difese si fanno man mano evidenti: si sente brutta, si scopre a provare invidia e tristezza, preda di passioni che era convinta di riuscire a tenere fuori dalla porta. Prova a reagire alla debolezze coltivando l’odio, una furia cieca contro tutto e tutti ma la sua è una lotta impari: il rifiuto di parlare e poi l’anoressia sono i segni di un  coscienza che sta andando in frantumi. Rabbia e pietà, amore e odio, energia e rassegnazione, indifferenza e bisogno, certezze e poi dubbi… più che artefice della sua vita, Bérénice ne è vittima, passeggera di una giostra impazzita che gira a mille all’ora e che sembra costantemente sul punto di scaraventarla fuori.
Il tentativo di fuga di Bérénice dal mondo disegna una parabola destinata a trasformarsi in una discesa agli Inferi, in una caduta negli abissi dell’Io che può concludersi solo con uno schianto rovinoso e con la conseguente esplosione e frantumazione  della sua identità. A forza di tendere quelle corde che tengono insieme le contraddizioni di cui è fatta la sua coscienza, Bérénice finisce per romperle, a forza di camminare pericolosamente sulla corda del borderline, Bérénice scivola nella  psicosi, probabilmente schizofrenica.

Inghiottita è un libro duro, un atto d’accusa verso un mondo, quello degli adulti, autoreferenziale e incapace di aprirsi a quello affascinante e complesso dei bambini. “Se al mondo non ci fossero i bambini, non ci sarebbe niente di bello”, sono le parole con cui Ducharme chiude questo volume: provocatorie, probabilmente eccessive, ma vere.

domenica 20 maggio 2018

David Szalay – Tutto quello che è un uomo



Fotografando l’anima del tempo.

Con il nuovo millennio la bussola della letteratura mondiale sembra essersi decisamente spostata verso la Vecchia Europa: Cărtărescu, Volodine, Gospodinov, Énard, Tom McCarthy… scrittori accomunati dal fatto di non appartenere a nessuna corrente letteraria comune ma di seguire ognuno un percorso diverso e personale.
Cărtărescu, Volodine, Gospodinov, Énard, McCarthy… e David Szalay, potremmo dire adesso, anche se in questo caso si tratta di un autore europeo solo per parte di padre (ungherese) e nato a Montréal da madre canadese.
Poco importa, con Tutto quello che è un uomo (il suo quarto libro e il primo tradotto in Italia), Szalay dimostra di essere scrittore vero. Osservatore attento della realtà, che filtra ed elabora con grande capacità di attenzione e poi restituisce con uno stile moderno e scorrevole, un linguaggio attento al parlato comune (lezione salingeriana?) con il quale caratterizza bene i personaggi. Attenzione ai particolari, riferimenti colti alternati ad aspetti del quotidiano, misura perfetta nell’alternanza di dialoghi e riflessioni, protagonisti che vengono fuori un po’ alla volta, personalità non esplicitate ma che emergono da quello che dicono e da come si comportano.
I racconti che compongono questa raccolta sono istantanee di momenti di vita scattate sulla sfondo di un’Europa nella quale i protagonisti sono colti in pieno movimento. Uomini in viaggio, che trovano tanto semplice spostarsi quanto complicato capire la realtà, quello che succede a loro e intorno a loro. Uomini che hanno smarrito le coordinate della vita e non sono più in grado di comprenderla. Il campionario è vario: diciassettenni in cerca di identità e ventenni privi di aspirazioni con un orizzonte che arriva poco oltre il proprio naso, giovani adulti già temprati da cinismo ed arrivismo per i quali esiste solo l’interesse personale. E poi, ancora: vite immolate al dio-lavoro, vite bruciate in caduta libera senza mai essere decollate e vite che crollano rovinosamente dopo essersi arrampicate sulle vette del successo. E vite alla fine: che provano a guardarsi con lucidità alle spalle per cercare un senso in quello che è stato, come quella di Tony, il protagonista  dell’ultimo racconto. Un senso che però è destinato a sfuggire, come testimonia una poesia del nipote, Simon, uno dei personaggi del primo racconto della raccolta e che torna qui quasi a dare un senso circolare a tutto il libro:
“una passeggera immersione nella trama
dell’esistenza, l’eterno trascorrere del tempo.”
“Il trascorrere del tempo.” – pensa Tony – “Ecco che cosa è eterno, che cosa non ha fine. E si palesa soltanto nell’effetto che esercita su tutto il resto, sicché nella propria impermanenza, tutto il resto incarna l’unica cosa che non finisce mai.
Sembra quasi un straordinario paradosso.”
Szalay sembra voler fotografare o filmare l’anima del nostro tempo, e ci riesce benissimo. Un tempo contraddittorio, che non sta fermo, che rifiuta di mettersi in posa. Di qui l’abilità del fotografo che riesce a coglierne l’essenza.

sabato 14 aprile 2018

Alice Munro - Chi ti credi di essere?



Alice è un ragno,
e i suoi racconti una tela che l’autrice dipana con la sicurezza di chi è padrona di una tecnica sopraffina. Non una parola fuori posto, si usa dire in certi casi, e i racconti di Chi ti credi di essere? sono proprio uno di questi casi.
Questo libro è un romanzo sotto forma di racconti, ognuno dei quali tratteggia un episodio della vita di Rose. Sono storie in bilico, “a metà tra la sfortuna e la colpa, sempre sull’orlo sdrucciolevole del fallimento”, con il rischio che la situazione precipiti da un momento all’altro.
Munro analizza le sfumature dei sentimenti, come si trasformano e con che velocità, indaga la volubilità dell’animo umano, la difficoltà dei protagonisti di chiarire (prima di tutto a se stessi) cosa vogliono davvero. Rose è l’emblema di una serie di personaggi che aspirano alla normalità ma vivono nell’indeterminatezza, nella provvisorietà emotiva, che cercano di corrispondere all’immagine che hanno di sé o a quella che vogliono dare agli altri. L’autrice scivola con mano sicura dalla superficie alla profondità delle cose e la messa a fuoco risulta sempre imperfetta, perché le cose possono essere diverse da come appaiono, i comportamenti possono essere interpretati e spesso anche i protagonisti non sono certi del significato delle loro azioni.
Chi ti credi di essere? è un viaggio tra le pieghe dell’anima: le contraddizioni, i dubbi e come questi condizionano l’agire delle persone, sono il materiale del quale si nutre la ricerca dell’autrice, materiale dal quale tira fuori un libro di grande qualità.

sabato 26 ottobre 2013

Alice Munro - Scherzi del destino


Un ebook di 37 pagine in uscita a pochi giorni dall'assegnazione del Nobel alla narratrice canadese, contenente un unico racconto e per di più già edito è – ovviamente - un'operazione commerciale. Eppure può essere utile per chi voglia avvicinarsi alla Munro in punta di piedi.
 Qui dentro c'è tutto quello che serve per farsi un'idea della più grande scrittrice di racconti vivente: la solita cura nell'uso delle parole, la solita scrittura “precisa” (mi ricorda un po' il Roth degli ultimi tre o quattro romanzi), senza una virgola fuori posto, l'importanza degli oggetti, dei gesti, la psicologia dei personaggi che viene fuori dai loro comportamenti, da quello che fanno, l'attenzione ai dettagli, l'apparente calma nel procedere della trama accompagnata dalla sensazione di qualcosa di incombente, sul punto di accadere da un momento all'altro, la Vita che corre lungo i binari consueti senza sapere che poco più avanti incontrerà il Caso che ne cambierà per sempre la direzione. Un gioiellino, uno tra i tanti di una scrittrice raffinata che amo da tempo. 
 Unica annotazione: nonostante qui sia più che giustificato, in generale il colpo di scena è un artificio che non mi convince più di tanto (ma questa è una considerazione strettamente personale, io sono un carveriano di rito ortodosso).

venerdì 16 agosto 2013

Troppa felicità - Alice Munro



Ancora una bella raccolta di racconti della Munro, questa volta incentrati sul "dopo". La scrittrice canadese sembra qui interessata a raccontarci emozioni e  comportamenti delle persone dopo che è successo un evento.
Come al solito nei racconti della Munro le storie girano spesso intorno a qualcosa che non viene chiarito, che ci lascia il dubbio su come siano andate veramente le cose in quel frangente, ma qui l'attenzione è rivolta soprattutto a raccontare non tanto il fatto accaduto quanto piuttosto le sue conseguenze, come le persone hanno reagito ad un imprevisto cambio di direzione nelle loro vite.
L'unica perplessità riguarda l'ultimo racconto, quello che da il titolo alla raccolta, e che mi sembra un po' un corpo estraneo rispetto agli altri. Ma probabilmente sono io che non ho saputo cogliere il collegamento con il resto della raccolta.