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Ottobre 1970, primo giorno di scuola. Ed io sbagliavo classe.
Un
caso? Sicuramente. Ma forse anche un segno per dire: io sono così.
Così
come? Così. Diverso. Che sia vero o no non ha alcuna importanza. Quello che importa è che mi sento diverso, e tanto basta.
Sono quello che sento, non quello
che gli altri cercano di convincermi che io sia, questo è il punto.
E non è bello sentirsi diversi. Ci si sente a disagio.
La
diversità è un fardello pesante da portare, è merce che va
trattata con delicatezza, perché diversità fa rima con fragilità.
La diversità non puoi comunicarla a parole, e del resto sarebbe
fatica inutile: solo un altro animo simile può riconoscerla.
La
diversità è solitudine. Non ha senso esibirla, anzi. La si coltiva
nel proprio cuore e la si nasconde a chi non capirebbe.
E
così ho fatto. Ho cercato di stare nel gruppo, di confondermi, di
annullarmi nella massa, di rendermi invisibile. Ho cercato di essere
quello in fondo nelle foto, quello dietro a tutti. Ho
giocato a mascherarmi, a fingere di essere come gli altri. Fino a
quando? Per sempre, credo.
Mi
sento irredimibile, condannato da me stesso ad una doppia vita:
anonima quando sono tra la gente ed immaginifica quando sono nel mio
mondo. E’ un modo di vivere un po’ complicato, ma che per ora
funziona.
Ad
una sola cosa devo stare attento, a non mescolare mai
i due mondi. Temo che potrebbero saltare tutti gli equilibri che mi
sono faticosamente costruito.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Dice
il dizionario: “Vertigine: illusoria sensazione che il corpo o gli
oggetti circostanti ruotino od oscillino”.
Dice
il libro di medicina: “Vertigine è la sensazione che consegue alla
modificazione dei rapporti del nostro schema corporeo con l’ambiente
che ci circonda”.
Sono
definizioni che vi soddisfano? A me per niente.
Vertigine
è di più, è qualcosa di interno, è quello che succede quando si
rompe un equilibrio al quale eravamo abituati ed improvvisamente
scopriamo di essere senza punti di riferimento e ci sentiamo nudi,
indifesi, davanti a qualcosa che non conosciamo.
Faccio
questi pensieri dopo aver faticosamente raggiunto la cima di uno
scoglio a strapiombo sul mare.
Mi sporgo con circospezione, allungo
il viso in avanti, guardo verso il basso e cosa vedo? La profondità,
l’altezza, il vuoto. Avverto chiaramente la reazione di difesa con
la quale il mio corpo reagisce alla situazione: le gambe ben piantate a terra, rigide
ma pronte a ritrarsi al primo segnale di pericolo, le braccia
staccate dal busto ed allargate a cercare il giusto bilanciamento,
nel tentativo di dare stabilità al tronco, e poi una specie di formicolio che corre veloce lungo tutto il corpo, come ad
avvertirmi del rischio incombente, e ancora, i movimenti lenti,
circospetti, gli occhi fissi, ben attenti a non lasciarsi distrarre.
In una parola: ho paura. Una paura giustificata, perché so che
cadere da lì vorrebbe dire farsi male, ma è una paura che ha anche
altre radici.
Parliamoci chiaro: il baratro che si apre sotto di me
mi attrae, è come una sirena che chiama, che mi spinge a contemplare
affascinato la grandezza del vuoto. Forse ho paura di cadere perché
sento dentro una voce che mi spinge a lasciarmi andare, una voce che
mi sussurra quanto sarebbe affascinante esplorare quel vuoto, vederlo
più da vicino…
In
fondo è la stessa cosa che succede quando mi guardo dentro, quando
rifletto su me stesso. Anche in quei momenti ho le vertigini: la
voglia di andare fino in fondo e la paura di scoprire cose di me che
potrebbero spaventarmi.
[Lars W. Vencelowe: "Pensiei, parole, opere ed omissioni"]
Vivere
in un sogno, o meglio: vivere di sogni. Sempre, anche nella vita di
tutti i giorni. Fissarsi obiettivi lontani, troppo lontani, e
perseguirli come se fossero realizzabili. E’ come un gioco.
Ho
sempre avuto questa sensazione sin da piccolo: per dedicarmi con
successo a qualche impresa, per riuscire bene in quello che faccio,
non potevo accettare imposizioni, dovevo essere io a decidere tempi e
modi ma soprattutto vivere la cosa come un gioco.
Ed
ancora oggi è così. Gioco tutti i giorni. Nella vita reale,
creandomi mete irraggiungibili. Nella scrittura, costruendo un mondo
parallelo. Alla sera, prima di dormire, quando mi immagino vite che
non vivrò mai. Probabilmente c’è una parola per definire tutto
questo, si chiama immaturità.
Lo so. E me la tengo ben stretta.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Passare
tra due ali di folla che ti si stringono intorno.
Provare imbarazzo
per essere l’unico attore sulla scena. Camminare a capo chino, per
non incrociare gli sguardi della gente. Sbirciare di soppiatto e
scoprire che i loro occhi ti sorridono, ti guardano compiaciuti.
Compiaciuti per il figliol prodigo che ha fatto ritorno a casa, per
la pecorella smarrita rientrata all'ovile.
Ricambi impacciato quei sorrisi, ti allacci sul viso un’espressione il più possibile
simile alla loro. Avanzi
con passo incerto sperando di arrivare presto, anche se
non sai dove stai andando. Ti sforzi di immaginare cosa pensano, cosa si aspettano che tu faccia.
Pensi che dovresti
mostrarti sereno, tranquillo. Ma anche un po’ contrito, dispiaciuto. Pensi che un’espressione così non ce l’hai
e che non sai se riuscirai ad apparire come loro si aspettano.
Hai
scelto per questo giorno il tuo vestito più grigio. Hai curato i
particolari, evitando di indossare qualcosa che ti possa mettere in evidenza. Lungo la strada alzi lo sguardo cercando un po’ di comprensione nei volti della folla ma non
riconosci nessuno, sembrano tutti uguali. Allora chiudi gli occhi e sogni di riaprirli quando sarà tutto finito. Anzi no, non
puoi più sognare, l'hai promesso.
Non
sai neppure perché ti trovi lì in mezzo, sai solo che sta
succedendo. Portare sacrifici agli dei, lo chiamano loro, e tu non
sei abituato a fare tante domande. Pensi che è giusto così, che in
fondo è cosa di un attimo e non dovresti neppure sentire molto
dolore. Pensi che in fondo quello che stai facendo è quello che
fanno tutti.
Passare
tra due ali di folla che ti si stringono intorno. Sembra che questa
strada non debba finire mai, sembra che quegli sguardi che si
infilano come frecce nelle tue carni non debbano cessare.
Ti fai
coraggio, ti dici che probabilmente il
traguardo è proprio dopo quelle persone là in fondo. Man
mano che avanzi prendi sicurezza, le tue gambe si fanno meno incerte,
i movimenti più sciolti. Adesso cammini a testa alta e pensi che lo scopo
di quello che stai facendo è proprio questo: sentirsi come gli
altri, sentirsi normale,
e provi un brivido mentre lo pensi. Cammini a testa alta e ti senti
forte e non ti fanno paura le occhiate della gente. Cammini a
testa alta e i loro sguardi indagatori ti scivolano addosso, come le
lacrime che ora ti segnano il viso.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Un
ragazzino cammina a testa bassa
seguendo le rotaie del treno in aperta campagna. Un piccolo vagabondo
dalla faccia sporca, di quelli che ormai non esistono più, un
giovinetto senza famiglia e senza affetti, con un passato che
probabilmente non vale la pena di ricordare ed un futuro complicato, di là da venire. Chissà
a cosa pensa, chissà dove sta andando. Sembra che tutto quello che
sta intorno a lui non esista; non si cura della strada, non si
guarda intorno, semplicemente va avanti, lungo i binari del treno. È
come se vivesse in un mondo solo suo e non fosse interessato alla realtà.
Ad
un certo punto il ragazzino sale con i piedi su un binario ed inizia
un gioco da bambini, cercando di mantenere l’equilibrio il più a
lungo possibile. Allarga le mani, oscilla, ogni tanto cade e poi
risale; dopo un po’ inizia a saltellare da un binario all’altro e
va avanti per un lungo tratto, fino a quando il mio sguardo lo perde.
Mi
sento come quel piccolo vagabondo. Anch'io seguo la mia strada più per abitudine che per convinzione, saltando dal binario della realtà a quello
dell’immaginazione senza sapere il perché di quello che sto
facendo, senza sapere dove sto andando.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Non
mi è mai piaciuta la competizione, perché una competizione
presuppone un vincitore.
E
per uno che vince ce ne sono molti che perdono. Da una competizione
esce sempre una classifica: il migliore e i peggiori, il vincente e
gli sconfitti. Viviamo in una società che ha posto il successo in
cima alla scala dei valori e la competizione è la strada per
ottenerlo; non ci si può sottrarre ad essa, perché ci viene
riproposta in ogni fase della nostra vita, sociale e privata.
Da
bambini veniamo gratificati con piccoli premi per ogni successo che
otteniamo. Piccoli cavalli da corsa, premiati con lo zuccherino per
ogni vittoria.
Crescendo
è la scuola che si accolla il privilegio di metterci in fila: da una
parte i bravi dall’altra i meno bravi, da un lato quelli convinti
di essere i migliori dall’altro quelli che devono faticare, quelli
che o "non si applicano", o che "non sono portati",
o che "potrebbero fare di più".
E
dopo la scuola è la società che completa l'opera della nostra
educazione: i miti che ci propone, in ogni campo, sono uomini e donne
di successo. E’ il vincente quello che prende tutto, agli altri le
briciole. Così lo sport, dove quello che conta è il risultato. Così
il lavoro, dove quello che conta è far carriera. Così la vita...
così tutto.
Se
proprio devo partecipare alla competizione, preferisco riconoscermi
nel ruolo dello sconfitto, perché perdere vuol dire avere ancora
qualcosa da raggiungere, avere un obiettivo che ci tiene vivi.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Un ramoscello che galleggia nel fiume. Lo osservo dall'alto, mentre la corrente se lo porta via. L'acqua è limpida, il fondale basso e sabbioso. Il ramoscello prende velocità, poi rallenta per la presenza di uno scoglio che affiora, sembra fermarsi, ma subito riesce a liberarsi. Riparte, lo perdo. Getto un altro ramo nell’acqua, ne osservo la corsa. Seguo le curve che disegna, i giochi della corrente. Le analogie di percorso con il ramo che l’ha preceduto, i cambiamenti di rotta. E poi un altro ramo, e un altro ancora... Pezzi di legno portati via dal fiume, solo questo.
Quando ero bambino potevo stare ad osservarli per ore, per pomeriggi interi diventavano tutto il mio mondo, non c'era altro di altrettanto interessante.
Felicità è recuperare un ricordo.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
La prima volta che ho visto un acrobata è stato parecchio tempo fa.
Avrò avuto sei-sette anni e il ricordo è piuttosto confuso. Rammento che ero in macchina con i miei genitori e che eravamo capitati in questa città quasi per sbaglio. C’era un sacco di gente raccolta in una piazza e tutti guardavano verso l’alto. Non ricordo il filo sospeso né il funambolo, ma solo l’immagine della folla e la voce di mia madre che mi spiegava quello che sarebbe dovuto succedere. Fino allora non ero mai stato al circo né avevo mai sentito parlare di acrobati ed il primo pensiero che mi passò per la testa fu “Perché qualcuno decide di fare una cosa così pericolosa?” e subito dopo “Perché la gente si diverte ad assistere a queste esibizioni?”. Per fortuna ce ne andammo prima che lo spettacolo iniziasse: mi creava disagio sapere che da lì a poco un uomo avrebbe rischiato la vita per il piacere del pubblico.
C’è un altro ricordo nella mia memoria relativo ad un acrobata ed anche questo è datato agli anni dell’infanzia. Un telegiornale in bianco e nero, che trasmetteva le immagini di un funambolo, che in qualche parte del mondo (mi sembra fosse in Messico) si era sfracellato al suolo mentre provava a camminare su di un filo teso tra due palazzi. Si vedeva l’uomo muoversi sulla corda reggendo una lunga pertica per mantenere l’equilibrio. Dopo aver percorso senza problemi circa un terzo del cammino, rallentava l’andatura, sbandava un paio di volte ma riusciva a riprendere l’equilibrio. Poi l’ennesima sbandata e la caduta, inevitabile, nel vuoto. La pertica che scappa via, le mani che si agitano cercando un appiglio impossibile, il volo, lo schianto. Un’immagine ripetuta una, due, tre, cento volte. Il senso di impotenza davanti a quei fotogrammi. Assistere ad una tragedia e sapere di non poter fare niente per evitarla. E ancora quella domanda: “Perché uno decide di farsi una passeggiata su una fune sospesa a qualche centinaio di metri d’altezza?”. Megalomania, esibizionismo spinto all’eccesso? O piuttosto bisogno di attenzione, fragilità eccessiva?
E’ passato un sacco di anni e noto che non esistono più acrobati da strada che rischiano la vita in questo modo. Probabilmente perché è vietato dalla legge o forse perché il pubblico si è stufato di simili spettacoli.
***
L’ACROBATA
Alle volte mi sembra di essere una specie di acrobata.
Voglio dire che, alla soglia dei trentacinque anni, ripensando all’equilibrio interiore che mi sono costruito... beh, ho proprio l’impressione di assomigliare tanto a uno di quegli artisti da circo o di strada che si muovono su di un filo sospeso nell’aria.
Alla stregua di un acrobata avanzo con passo incerto, ondeggiando sulla mia corda, un occhio invidioso alla folla sottostante, ben sicura a terra, ed un occhio preoccupato al filo che vibra davanti a me. E’ un equilibrio fragile, certo. Ma pur sempre un equilibrio.
Perché mi vedo così? Probabilmente perché mi sento insicuro, non ho certezze granitiche sulle quali poggiare i miei passi. Sicuramente perché mi piace starmene sospeso sopra la testa della gente e percorrere una strada che è solo mia.
A volte penso che mi piacerebbe essere come gli altri. Seguire il loro cammino, con il conforto dato dalla consapevolezza di non essere solo, ma di avere intorno persone come me.
Eppure, quando penso a quella corda sospesa nel vuoto… so che non potrei farne a meno. Nessuno mi ha messo lì sopra, ci sono salito io, da solo.
Quella corda è la mia corda e quella strada è la mia strada.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Tutti siamo stati a Schiara, ad ascoltare il canto del mare. A seguire con lo sguardo le traiettorie improbabili che il gabbiano disegna nel vuoto, ad accompagnarlo in volo fin quando scompare dietro al monte. Ad osservare il gatto coricarsi pigro all’ombra del muro. Tutti abbiamo chiuso gli occhi insieme a lui. A cercare con lo sguardo il filo dell’orizzonte, là dove il mare si fa cielo ed il cielo mare. Tutti abbiamo sognato in quel punto. Ad incontare il vecchio contadino che risale da mille anni quegli scalini sconnessi.
A fissare incantati la mano del vento che disegna arabeschi sul dorso del mare, per ritrovarci poi a rincorrere il corso dei nostri pensieri. A respirare il silenzio, cercando di lasciare entrare in noi almeno un po’ di quella serenità. A provare un senso di vuoto e di pace insieme, e scoprire che felicità e malinconia sono due sorelle che viaggiano tenendosi per mano.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Al posto più bello del mondo si arriva dopo una camminata di dieci minuti scarsi. Si lascia la macchina lungo la Litoranea e poi si sale per qualche centinaio di metri, arrampicandosi lungo una scaletta stretta fra rovi di macchia mediterranea. All’inizio sono gradini regolari quelli che si offrono alla vista, ma salendo si ha l’impressione che l’opera dell’uomo fatichi a tenere testa alla natura. Gli anni, la pioggia ed il sole sono rivali difficili da fronteggiare: poche curve e gli scalini hanno già perso il rassicurante aspetto squadrato, per diventare via via più irregolari, i margini si stondano, le lastre di ardesia si rompono e nelle fessure si incuneano ciuffi d’erba, fino ad arrivare a tratti del percorso dove la stradina è poco più di un sentiero disegnato sulla terra.
Ti guardi intorno e vedi muretti a secco che franano un po’ dappertutto, erica, denti di leone, parietaria, felci selvatiche e piante grasse finite lì chissà come… Un mondo in mezzo al quale sono passato tante volte ma che solo ora mi fermo a guardare. Una varietà infinita di erbe e piccoli arbusti. Vorrei essere un botanico per saperne di più, per apprezzare meglio quello che vedo e non conosco e che sento così vicino. Una lucertola che si infila rapida tra due rocce, un fico, due ciliegi (o sono mandorli?). E quell’odore: forte e dolciastro insieme, sembra liquirizia. E’ il tarassaco? Probabilmente. Forse. O forse no. So solo che nella mia testa questo è quello che io chiamo l’odore delle Cinque Terre, ma non riesco ad identificare con precisione da che pianta provenga.
Una pigna che cade, il frinire di una cicala. Le voci di almeno tre o quattro specie diverse di uccelli che si rincorrono. E il silenzio. Con il canto del mare sullo sfondo.
Un silenzio terapeutico, al quale il mio stato d’animo si accorda subito volentieri. Mi sento più tranquillo, più sereno, i pensieri rallentano la loro corsa e cominciano a scorrere, lentamente, come una musica. Una sensazione nuova, che fa riflettere.
Penso ai rumori, ai quali sono così abituato da considerarli quasi necessari. Penso a quando in casa accendo la televisione o la radio solo per sentire rumore, non per interesse. E’ come se ne avessi bisogno, per sintonizzare il mio ritmo interiore al mondo esterno. E’ terribile: aver bisogno del rumore ed intonare ogni giorno il sentire, il pensare, il vivere quotidiano ai rumori del mondo. Solo ora me ne accorgo, ora che ho scoperto il silenzio.
Continuo a salire. Una decina di minuti di salita, ho detto. E infatti ci siamo quasi.
Ecco davanti ai miei occhi il posto più bello del mondo: un sentiero sterrato lungo cinquanta – sessanta passi da uomo e largo un passo e mezzo, che fiancheggia pochi filari di vite strappati ad un bosco che avanza e sembra destinato a vincere la sua battaglia. Il ciglio della stradina è sconnesso ed in certi punti cede franando sulla piana sottostante.
Tutto qui, con il mare che domina lo sfondo. Un mare sterminato e totale che sembra non partecipare quasi alla scena, seduto in disparte come l’attore consumato che lascia il privilegio del primo piano alle altre figure, ben sapendo che il ruolo del protagonista sarà sempre il suo.
Mi piace questo posto. Mi piace perché non è lì dietro l’angolo, ma va conquistato, dopo un percorso che è qualcosa di più di una semplice passeggiata. Mi piace perché non è un approdo definitivo ma è un posto di passaggio; dopo questo tratto di strada sterrata il sentiero continua fino ad arrivare ad un monastero da dove si gode una vista spettacolare e dove si riadunano i turisti.
Mi piace perché c’è il mare.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Domenica mattina, dieci e trenta. Altri pensieri... sono sveglio da poco. Alla finestra, per caso. Sollevo la tenda con due dita, poi appoggio la spalla contro il muro della sala. Uno sguardo verso il giardino, distratto. Un passero su un vaso, davanti al cancello d’ingresso. E’ il vaso dell’acero giapponese, pochi rami spogli. Il passero è fermo, ben saldo sulle zampe, ma gira il capo in tutte le direzioni, a scatti. Chissà cosa pensa. Chissà se pensa. Fa freddo fuori, il cielo è immobile. Sembra tutto così bloccato, sospeso. E’ un attimo, poi improvvisamente il passero vola via. Ora il vaso è vuoto. Cos’è stato? Quanto è durato? Poco, pochissimo. Forse un’infinità. Abbasso la tenda, mi sposto dal muro, mi avvio verso la cucina e tutto torna come prima. Io alle mie occupazioni, il passero alle sue. Ognuno alla sua vita.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Essere dentro. Dentro ad una tempesta, come nave travolta dalla furia delle acque, naufraghi alla deriva in balia delle correnti.
Oppure essere dentro ad un quadro, essere le macchie di colore che il pittore disegna sulla tela.
Essere dentro alla vita, viandanti in cerca della strada, pellegrini smarriti lungo il cammino. Personaggi in cerca d'autore.
Essere dentro. Ecco il nocciolo del problema. Che siamo dentro, che non riusciamo a cogliere il significato più profondo delle cose perchè ci siamo "troppo" dentro. Manca il distacco necessario, la giusta distanza. Manca la prospettiva.
Cosa capirebbe di un quadro l'osservatore che si incollasse con il naso alla tela? Niente. Al massimo un particolare, una sfumatura. Ma perderebbe il contesto, la visione d'insieme.
Per apprezzare il quadro nel suo complesso l'osservatre dovrebbe porsi ad almeno un metro o due di distanza, avvicinarsi od allontanarsi a seconda delle dimensioni dell'opera.
Illusione. Pensare di poter capire la vita... proprio noi che ci siamo così dentro.
Guardo Ariel che si dibatte tra i flutti, e mi sento così piccolo, così impotente...
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Non credete a chi vi dice che la felicità non esiste. Parlano così perché non l’hanno mai provata.
Io vi dico, invece, che la felicità esiste, ma che è un bene troppo grande perché si possa goderne appieno. Ci si deve accontentare di apprezzarne solo frammenti.
Mi spiego: non credo che esista qualcuno in grado di poter dire di vivere una vita pienamente felice. Quando qualcuno ci chiede se siamo felici, spesso proviamo un senso di imbarazzo nel rispondere, una sorta di pudore nell'esplorare il nostro animo. Chi più chi meno, si finisce con il concludere che in fondo, tutto sommato, proprio felici-felici non possiamo dirci, ma che forse, in certi momenti, abbiamo assaporato almeno un po’ di quel frutto prezioso che è la vera gioia.
Ecco, momenti. Perché questo è ciò che io penso della felicità. Che sia una farfalla: tanto bella quanto fragile. Che ci lascia guardare le sua ali variopinte solo per un attimo, perché quando ci avviciniamo per ammirarla da vicino... lei è già volata via.
La felicità è un sogno: tanto affascinante quanto effimero.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Quello delle sei e mezzo di un pomeriggio di primavera.
Una luce che così forte da risultare quasi fastidiosa, perché arriva sugli occhi in maniera obliqua e li costringe a rimanere semichiusi. Una luce che abbaglia ed insieme affascina. Una sedia in mezzo al prato, con il sole in pieno viso (il pensiero corre ai vecchi di Santorini, seduti fuori dalle loro case).
Non parli, ascolti.
Le voci degli altri, il cinguettio degli uccelli, il fruscio degli insetti, il rumore del fiume, l’abbaiare di un cane, il silenzio.
Non pensi a nulla, per non distrarti.
Sei lì solo per quello, per prenderti in faccia il sole, per goderti l’ultimo raggio. Assisti impotente al consumarsi del giorno: fra poco non esisterà più nulla, non ci sarà più luce, ancora pochi istanti e sarà buio. Questione di minuti, poi la temperatura si abbasserà e tu ti alzerai svogliatamente da quella sedia, con la certezza che il giorno è morto e che dovrai attendere fino a domani per incontrare di nuovo il sole. Ma sarà un altro sole, diverso da quello che ti sta carezzando in questo momento.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
L’ostaggio venne catturato di mattina presto. Molto presto. Lo colsero nel dormiveglia, in quella fase del sonno in cui non si sta più dormendo profondamente ma non si è ancora del tutto svegli. Uno stato a metà tra coscienza ed incoscienza, quando i pensieri non sono ancora sotto il controllo della parte razionale, ma neppure in completa balia del sogno. L’ostaggio venne catturato durante l’infanzia. Fu un lavoro ben fatto, da professionisti. All’ostaggio non fu torto un capello, passò dalla libertà alla schiavitù dalla mattina alla sera, ma in maniera assolutamente indolore. Non si accorse di nulla, anche perché non avrebbe mai potuto sospettare delle persone che lo rapirono. Erano tutte facce note, degne della massima fiducia, alla presenza delle quali era abituato già da molto tempo, fin dalla nascita. L’ostaggio conosceva bene i suoi carcerieri, erano i suoi genitori. Si trattò di un rapimento atipico. Nessuna richiesta di riscatto, nessuno che reclamò la liberazione del prigioniero. Molti sapevano, nessuno parlava. Nessuno si scandalizzò o protestò o sollevò la minima obiezione, sembra che questo genere di sequestri sia sempre stato considerato legale, una specie di diritto di proprietà che i genitori esercitano sui figli sin dalla notte dei tempi; educazione la chiamano, come se l’uso di un termine così rispettabile possa rendere meno barbara questa consuetudine. Fu una forma sottile di rapimento, subdola per certi versi, forse anche crudele. Perché l’ostaggio non sapeva della sua condizione di ostaggio e credeva di essere libero. Non vedeva la catena che lo teneva legato, non vedeva le pareti della cella e si muoveva, pensava ed agiva come se le sue scelte fossero autonome, come se dipendesse da lui fare o non fare certe cose. A dire il vero venne trattato con tutte le attenzioni. Non gli fecero mai mancare nulla, si presero cura di lui in maniera assidua, completa, costante. Probabilmente eccessiva. Parteciparono ad ogni momento della sua crescita, indirizzandolo lungo la strada che ritenevano migliore, lungo la strada che essi avevano scelto per lui. L’ostaggio cresceva felice ed ignaro, andando alla scoperta di un mondo che era solo una parte, quella che gli lasciavano vedere. Sviluppò delle convinzioni, una morale e qualche fantasia. Quelle che gli permisero di sviluppare. Diventò adulto, si fece una posizione, operò scelte anche importanti e tutto senza deviare mai dalla strada maestra. Perché non voleva, credeva lui. Perché non poteva, in realtà. Verso sera accadde però l’imprevedibile. L’ostaggio iniziò ad accusare strani sintomi: irrequietezza, disagio, momenti di confusione alternati a sprazzi di lucidità. Le cose si fecero ai suoi occhi sempre più nebulose, indistinte, il sospetto prese ad insinuarsi tra le pieghe dei suoi pensieri. Il sospetto di non essere libero, di non esserlo mai stato, di non avere gli strumenti e la forza per liberarsi. Lottò a lungo con queste idee, si consumò alla ricerca di una via d’uscita. Furono ore terribili, poi ad un tratto credette di vedere tutto chiaramente. Si sollevò dal torpore, prese coscienza di se stesso e cominciò a correre. Sempre più veloce, sempre più lontano, con le gambe, con la mente, con la fantasia… Correva, correva a testa bassa a più non posso, cercando di non pensare a nulla, cercando solo di allontanarsi il più possibile. Quando sfinito alzò gli occhi vide che non era andato da nessuna parte, che non si era spostato di un millimetro dal punto di partenza. Una lacrima gli rigò la guancia, quindi cadde in un pianto dirotto, poi iniziò a piovere. Lo trovarono al mattino presto vicino alla porta della cella. Sembrava che dormisse.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
E ti senti libero. Libero e forte. Ti convinci che per realizzare qualsiasi progetto devi innanzitutto volerlo con tutte le forze. Ti dai da fare, cominci di buona lena a costruire il tuo castello dalle fondamenta. Credi in quello che fai, non esistono dubbi ma solo certezze. E lavori duro, non sei un tipo che si scoraggia davanti alle prime difficoltà, non senti la fatica. Guardi al futuro con ottimismo, con l'obiettivo sempre lì, ben fermo nella tua testa.
E’ bello vedere tanto entusiasmo, tanta fiducia nelle proprie possibilità. Dico sul serio.
E può darsi che alla fine abbia davvero ragione tu, che la vita non sia altro che il frutto del nostro lavoro, che il buon esito o meno del progetto che ci sta a cuore dipenda solo dall’impegno che ci mettiamo per realizzarlo.
Se davvero credi in tutto ciò, allora ascoltami, voglio darti un consiglio.
Non perdere tempo a guardarti intorno, gettati nella tua impresa anima e corpo, vai dritto per la tua strada senza prestare troppa attenzione a quello che incontri sul tuo cammino.
Potresti vedere cose che non ti piacciono e forse qualche dubbio finirebbe per minare il tuo castello di certezze. Guardando le facce di chi ti sta accanto potresti accorgerti che non sono tutte sorridenti, potresti vedere qualcuno che la vita non l’ha vissuta ma l’ha subita. Potresti incontrare qualcuno che, partito con le tue stesse ambizioni, è stato costretto a fermarsi. Potresti imparare che la sofferenza non è una compagna di strada che ci si sceglie, ma un campanello che ogni tanto suona a ricordarci che siamo uomini. Potresti scoprire con delusione che esiste qualcosa di più forte più forte anche della tua volontà, qualcosa capace di vanificare i tuoi sforzi in un batter di ciglia, un’entità chiamata Destino, che non guarda in faccia nessuno.
Ma se sei così forte, così risoluto, così sicuro di te, non prestare ascolto a queste parole. Non lasciare che qualche strano pensiero inquini la tua mente. Coraggio! Non indugiare! Riprendi in mano paletta e secchiello e torna a costruire il tuo castello di sabbia.
Prima che la risacca se lo porti via.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Succede che un giorno alzi gli occhi e ti ritrovi davanti, ancora, il mare.
Sei dubbioso, non sai se succederà anche questa volta, se riuscirai a provare di nuovo quella sensazione che per quanto ti sforzi non riesci a dire. E' come quando assisti ad un gioco di prestigio che hai già visto mille e mille volte e del quale credi di aver capito il trucco.
E invece no. Invece accade di nuovo. Come sempre.
Succede che ti senti capito, senza doverti sforzare di spiegarti. E' una conversazione diversa dalle altre, che segue un canale sotterraneo, privato.
E' un misto di star bene e di star male, che è entrambe le cose e nessuna delle due.
E' un sentirsi alla stesso tempo protetto e compreso nel profondo ma anche lontano, troppo lontano da chiunque, troppo solo nel tuo sentire.
Un sentire che è dolce ed amaro insieme, che solo chi l'ha provato può comprendere e che solo chi l'ha provato è condannato a cercare per sempre.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
E’ caduto un acrobata. Quando è successo? Forse ieri, forse un mese fa, forse è già passato più di un anno… Non importa quando, o, più semplicemente, non fa piacere ricordare quei giorni. E’ caduto mentre stava camminando sulla sua corda, come sempre. Non si sa bene come sia accaduto, si sa solo che all’improvviso si è trovato senza appoggio ed è precipitato nel vuoto. Un volo goffo, sgraziato, ridicolo nella sua tragicità. Un volo breve, perché lui non è un uccello capace di sfidare la forza di gravità, lui è (era?) solo un funambolo, un uomo-bambino che giocava a fare l’acrobata. Neppure un grido, mentre cadeva, non ha aperto bocca neppure mentre si schiantava a terra. Un tonfo sordo e subito una piccola folla si è radunata intorno al corpo dell’acrobata accasciato sul selciato. - Ora la smetterà di giocare su quella maledetta corda! - Era logico che prima o poi sarebbe successa una cosa del genere… - Ben gli sta! Chi si credeva di essere? Cosa voleva dimostrare standosene lassù in cima? Questi i commenti della gente che lo circondava. Tutti, per un motivo o per l’altro, contenti che fosse successo, felici di vederlo finalmente a terra, anche lui nel loro mondo, come se l’acrobata avesse ricevuto la lezione che meritava. - Anche tu sei come noi, - pensavano - e da oggi non te ne scorderai così facilmente. La smetterai una buona volta di sentirti diverso dagli altri!
Sarebbe stato così semplice... ma non ci pensò nessuno. A nessuno venne in mente di chiedere all’acrobata: - Cos’hai, ti sei fatto male? Hai bisogno d’aiuto? Soffri molto? A nessuno. E questo fu per l’acrobata il dolore più forte. Il verdetto dei medici fu subito chiaro: - Non morirai, ma non potrai più salire su quella corda. I giorni ed i mesi successivi furono per lui un vero calvario. Non morirai, gli avevano detto… Ma condannare un acrobata a non salire mai più lassù non era forse la stessa cosa di una condanna a morte? Magari ad una morte lenta, lentissima. E forse per questo ancora più dolorosa. Sulle prime l’acrobata accettò il verdetto dei medici. Era ferito, spaventato, distrutto nello spirito e nell’orgoglio. Cosa avrebbe potuto fare di diverso? Piegò il vestito da funambolo, ripose con cura le scarpe, cercò di dimenticare la corda concentrandosi sulla vita di tutti i giorni, quella che avevano sempre vissuto gli altri, a qualche decina di metri al di sotto di dove era abituato a stare lui. Non fu una cosa indolore, ma se ci scappò qualche lacrima fece in modo che non la vedesse nessuno. Si sforzò di essere come gli altri, ne studiò i movimenti fino a riuscire a riprodurli fedelmente. Copiò comportamenti, modi di fare ed abitudini della gente e con il tempo imparò a vivere come facevano loro. Sembrava proprio integrato, a guardarlo andare in giro per la strada quando portava a spasso il cane. Sembrava definitivamente guarito da quella strana malattia (come dicevano loro) che per anni gli aveva impedito di comportarsi come gli altri uomini. Già, sembrava. Perché in realtà fingeva. Un acrobata non può vivere come una persona normale, un acrobata è destinato a vivere ed a morire solo da acrobata. E così fece lui. Resistette, fino a quando riuscì a farlo, poi si costruì un’altra corda e ricominciò a camminare sul filo sospeso. Lo fece di nascosto, all’inizio con paura e poi con sempre maggior sicurezza. Certo, era una corda di fantasia, non una corda reale, ma questo non vuol dire niente.
Le donne di Vermeer. Personaggi assorti nei loro pensieri, come la fanciulla che dorme (o forse sta pensando) o quella che legge una lettera presso la finestra (quante figure femminili sono ritratte nell’atto di leggere una lettera!), oppure sorpresi nell’istante in cui si voltano e sembrano fissare chi guarda il quadro quasi con stupore, come la ragazza con l’orecchino di perla, ma anche così intenti nello svolgimento di attività quotidiane, come la merlettaia, da non prestare attenzione a quello che accade intorno a loro. Non è possibile passare davanti ad un ritratto di Vermeer con indifferenza, c’è qualcosa in quei dipinti che ti costringe a fermarti ed osservarli con attenzione. Sarà la luce che entra dalla finestra (sempre quella, sulla sinistra di chi osserva), così pulita, chiara, nitida. Sarà la semplicità, la naturalezza, la spontaneità di quelle figure femminili. Non so, qualunque cosa sia è qualcosa che ti tira dentro a un altro mondo.
Quei quadri sono tramiti, porte aperte su un’altra dimensione, buchi neri che mettono in comunicazione il nostro tempo con quello di trecentocinquanta anni fa, usando come chiave per aprire questa porta immaginaria l’immaginazione.
Le donne di Vermeer: comunque siano ritratte, riescono sempre a trasmettere il loro messaggio. Sono donne che portano dentro di sé qualcosa: un segreto, una fantasia o solamente un pensiero. Dietro l’apparente serenità di quelle figure c’è un mondo di sogno che chiede di essere evocato, di essere chiamato a vivere, non fosse altro, almeno nella nostra fantasia. Chi ha dipinto quelle figure femminili non è solo un pittore, è un poeta. Diffidate di chi non ama Vermeer.