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sabato 7 dicembre 2024

Poeta cileno – Alejandro Zambra



Poeta cileno – Alejandro Zambra
(trad. Maria Nicola)
Sellerio editore (I ed. 2020)


El Chino.

Un libro che procede lungo due linee narrative: da un lato il rapporto padre ("padrastro")-figlio e dall'altro la descrizione della comunità dei poeti cileni. A fare da trait d'union tra le due parti è il senso di appartenenza, il discutere, lo stare insieme. Interessante notare come l'intera trama scorra lungo una china abbastanza liquida: i rapporti tra gli individui non evolvono, le cose finiscono, i personaggi non si impegnano fino in fondo per costruire qualcosa che duri nel tempo. Così il rapporto tra Gonzalo e Carla finisce, così quello tra lui e Vicente (il figlio di lei) si interrompe, così l'ambizione di Gonzalo di diventare poeta si esaurisce dopo la pubblicazione del primo libro e alla fine solo il giovane Vicente sembra deciso ad affrontare la sfida per realizzare i propri sogni con convinzione, come se l'autore affidasse alle nuove generazioni le speranze per un domani migliore.
Zambra è il golden boy della letteratura latino-americana e Bolaño il modello al quale si ispira apertamente, al punto che Rodrigo Fresán ha definito questo libro "I detective domestici", per indicare come l'autore prediliga nella narrazione una dimensione intima piuttosto di quella epica scelta dal suo più famoso connazionale. Proprio questo sembra il "minus" di Zambra, che sembra avere le capacità di fare di più, di andare in profondità e invece si accontenta di rimanere nel perimetro del pop. È un peccato, perché si tratta di uno scrittore che padroneggia la tecnica e ha fantasia, eppure a tratti sembra pigro. Come Recoba, privilegia la giocata ma manca d'intensità, lavora per sé e non per la squadra. Scrive bene – come Recoba giocava bene – ma il Chino non era il Pibe e Zambra non è Bolaño.


sabato 23 novembre 2024

Ieri – Juan Emar




Ieri – Juan Emar
(trad. Bruno Arpaia)
Safarà editore (I ed. 1935)

Emar. Ecco un altro punto sulla retta immaginaria che parte da Macedonio Fernández, tocca Felisberto Hernández e arriva fino a Fernando Bermúdez. È un filo sottile sul quale camminano gli equilibristi della letteratura, una corda tesa sopra le nostre teste dalla quale surrealisti e visionari guardano dall'alto il nostro mondo così diverso dal loro. Autori che con sguardo malinconico e divertito si fanno beffe della realtà e quando sembrano sul punto di cadere si levano in volo come personaggi chagalliani.
Emar, che disegna quadri che al nostro occhio sembrano assurdi. Una decapitazione, lo scontro tra uno struzzo e un leone, l'incontro con un amico pittore e la sua strampalata teoria dei colori… Sembra di essere una palla magica che rimbalza da una parte all'altra; andiamo! Andiamocene! – dicono il protagonista e la moglie nel loro saltabeccare da una scena alla successiva. Fino a raggiungere la sala d'attesa di una stazione, dove il movimento si arresta e di colpo ci troviamo nella mente del personaggio principale, impegnato a trarre il senso di tutto quello che succede dall'osservazione di un uomo grasso. Dai dettagli zampillano pensieri a cascata che lo portano in un bagno pubblico, dove crede di aver trovato finalmente il grimaldello per uscire dal tempo ma che si rivela invece l'ennesimo ingranaggio inceppato, nel quale rischia di precipitare.
Proprio il tempo sembra essere il tema fondamentale del romanzo, ma il suo studio, che dovrebbe permettere al protagonista di giungere alla conoscenza attraverso una specie di percorso iniziatico sul bordo della follia, lo porterà alla conclusione di non poter raggiungere il suo scopo. La scoperta, nicciana, della circolarità del tempo, con ieri che continua a vivere per sempre, sarà la pietra tombale sulla sua aspirazione a trovare un varco che gli permetta di approdare all'assoluto.
Quel che resta allora è lo spazio, l'osservazione della realtà, ma anche in questo caso le cose non vanno meglio. La ricchezza dei particolari, degli aspetti e delle sfumature con cui le cose si presentano alla nostra osservazione, finisce per sprofondare il protagonista in una dimensione nella quale oggetti e pensieri sembrano rifratti attraverso un prisma che moltiplica connessioni, punti di vista e mondi possibili. Impossibile così raggiungere una verità che rimetta insieme i pezzi di una realtà e di una mente in frantumi.




sabato 23 dicembre 2017

Nicanor Parra – Le montagne russe


Nicanor Parra è attualmente considerato il più importante poeta contemporaneo del Sudamerica, probabilmente del mondo e nella sua lunga carriera letteraria ha pubblicato oltre una ventina di libri. Montagne russe è l’unico attualmente reperibile in Italia (esaurite, da tempo immemore, le Antipoesie pubblicate da Einaudi): si tratta  di una raccolta striminzita, meno di quaranta poesie, cinque o sei in media per ognuno dei suoi libri più noti.
Non credo servano altre parole per dire di quanto l’editoria nostrana tenga in considerazione questo genere letterario.
Peccato, perché Parra è un gigante che meriterebbe ben altra considerazione. Un rivoluzionario, uno che senza tanti clamori ha preso la poesia e l’ha semplicemente ribaltata. Sì, perché Parra tira una bella riga sul lirismo, sulla poesia di maniera, sul calligrafismo che si specchia in se stesso, un po’ come avevano fatto gli Impressionisti con l’arte dell’Accademia. Prende a sassate il poeta-vate, quello che si era autoproclamato divinità, lo afferra per il bavero della giacca e senza tanti riguardi lo tira giù dalla nuvoletta sulla quale si era esiliato, per riportarlo nella realtà.
Se è vero che nel cammino dell’arte si procede non solo per continuità ma anche per brusche accelerazioni e cambi di strada, allora possiamo ben dire che Nicanor Parra è uno di quelli che in questo campo ha dato un bello strattone alla corda.

E noi di cotanto genio dobbiamo farci bastare una manciata di poesie…

domenica 24 settembre 2017

Roberto Bolaño - Puttane assassine

Nell’equivoco viviamo e pianifichiamo i nostri cicli di vita

“Puttane assassine” è l’ultimo libro pubblicato da Bolaño in vita e la seconda raccolta di racconti dopo “Chiamate telefoniche”. 
Sono racconti scritti a volte in prima e a volte in terza persona e che ci presentano un Bolaño più intimo, ma non per questo minore e che, pur nella loro eterogeneità, presentano aspetti comuni. Innanzitutto la compassione per un’umanità dolente e innocente, tratto comune ad altri grandi scrittori contemporanei (penso, tra tutti, a David Foster Wallace), ma anche la grande solitudine dei protagonisti che spesso vivono due vite distinte: una affacciata sul mondo e caratterizzata dal bisogno di dire, di parlare, dall’urgenza di entrare in contatto con gli altri e una interiore, fatta di sogni, fantasie, pensieri difficili da condividere. I personaggi che abitano questi racconti sono individui fragili, circondati dal male, che cercano la bellezza e spesso la identificano nella poesia o nella letteratura o in qualcosa che appartiene alla sfera privata, che reca loro conforto ma al tempo stesso li isola ancora di più (E poi vidi che la luce, qualche secondo dopo il passaggio dell'auto o del camion in quel punto, girava su se stessa e rimaneva come sospesa, una luce verde che pareva respirare, per una frazione di secondo viva e riflessiva in mezzo al deserto, sciolta da ogni legame, una luce che assomigliava al mare e che si muoveva come il mare, ma che conservava tutta la fragilità della terra, un'ondulazione verde, portentosa, solitaria, che doveva essere prodotta da qualcosa su quella curva, una scritta, una tettoia solitaria, dei teli di plastica giganteschi stesi sulla terra, ma che davanti a noi, a una distanza considerevole, appariva come un sogno o un miracolo, che sono, in fin dei conti, la stessa cosa).
C’è un’inquietudine costante che aleggia tra le pagine di “Puttane assassine”, la sensazione che i personaggi si trovino su una strada senza uscita che non possono però fare a meno di percorrere, un dramma senza senso che rischia spesso di sfociare nella pazzia perché, come dice il protagonista di uno dei racconti, nell'equivoco viviamo e pianifichiamo i nostri cicli di vita.

sabato 7 gennaio 2017

Roberto Bolaño – Notturno cileno




Un lungo monologo, con uno degli incipit più belli della narrativa contemporanea (come termine di paragone mi viene in mente solo Body Art di Delillo).



“Ora muoio, ma ho ancora molte cose da dire. Ero in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma all’improvviso le cose sono emerse. La colpa è di quel giovane invecchiato. Io ero in pace. Ora non sono più in pace. Bisogna chiarire certi punti. Quindi mi appoggerò su un gomito e solleverò la testa, la mia nobile testa tremante, e cercherò nell’angolo dei ricordi quelle azioni che mi giustificano e perciò smentiscono le infamie che il giovane invecchiato ha sparso in giro a mio discredito in una sola notte fulminea. A mio presunto discredito. Bisogna essere responsabili. È tutta la vita che lo dico. Abbiamo l’obbligo morale di essere responsabili delle nostre azioni e anche delle nostre parole e perfino dei nostri silenzi, sì, dei nostri silenzi, perché anche i silenzi salgono al cielo e Dio li sente e solo Dio li comprende e giudica, per cui molta attenzione ai silenzi. Io sono responsabile di tutto. I miei silenzi sono immacolati. Che sia chiaro. Ma soprattutto che sia chiaro a Dio. Il resto è trascurabile. Dio no. Non so di cosa sto parlando. A volte mi sorprendo appoggiato su un gomito. Divago e sogno e cerco di essere in pace con me stesso. Ma a volte dimentico perfino il mio nome. Mi chiamo Sebastián Urrutia Lacroix. Sono cileno.”



Un inizio ipnotico, una scrittura quasi bernhardiana, un ritmo suadente, che ti attira tra le sue spire, ti porta dentro la storia e non ti molla più fino alla penultima riga. Poi, quando tutto è finito, ti sputa fuori senza tanti riguardi (“E poi si scatena la tempesta di merda”) per restituirti alle miserie del tuo mondo.

Notturno cileno è la storia di Sebastián Urrutia Lacroix, prete dell’Opus Dei e scrittore, intento a tracciare un bilancio della sua vita, a fare i conti con se stesso e con quel misterioso “giovane invecchiato” che rappresenta probabilmente la sua coscienza. Ricordi, storie, incontri: da Farewall, il famoso critico letterario, a Neruda, da Pinochet a Jünger, a María Canales, intrecciando personaggi veri e personaggi inventati per raccontare la storia di un uomo e insieme la storia del Cile degli ultimi quarant’anni. Parole e silenzi, azioni e omissioni, sogni e bassezze, il tutto sembra mescolarsi in maniera straordinariamente fluida nella figura del protagonista ed è tenuto insieme dall’assenza di sensi di colpa.  Sebastián Urrutia Lacroix vede le cose, le riconosce per quello che sono, eppure non le sente sue, non gli appartengono. È un uomo che vive il suo tempo senza sentirsi sfiorato dalle tragedie che lo circondano, che attraversa la vita curandosi solo di quello che lo interessa e trascurando il resto: un uomo che vive scotomizzando la realtà. Ma non è solo, perché intorno a lui si muove e prospera un’umanità fatta di suoi simili, il che spiega perché le cose sono successe e perché succederanno di nuovo.


Se Hermann Broch aveva cercato di spiegare il suo tempo mettendo il dito sulla piaga dell’indifferenza, Bolaño sembra raccogliere in questo libro il suo testimone, dimostrando come le cose non siano tanto cambiate dagli anni Trenta ad oggi: Sebastián Urrutia Lacroix sembra essere a tutti gli effetti il degno erede di Pasenow e la mancanza di sensi di colpa la diretta conseguenza di quell’indifferenza.

domenica 16 marzo 2014

Roberto Bolaño - I dispiaceri del vero poliziotto


Romanzo postumo, che nelle intenzioni dell'autore doveva essere un'opera monstre, di oltre ottocentomila pagine. Uno degli incipit più potenti e provocatori della letteratura contemporanea (la classificazione degli scrittori in froci e frocioni) da il via ad un'alternarsi di pagine di grande letteratura (penso, ad esempio, al secondo capitolo, dove Amalfitano racconta chi era, al ricordo del soldato sivigliano, alle cinque generazioni di Marie Expòsito, alla storia del generale Sepùlveda), di critica letteraria, di riflessioni sulla storia, di fantasia sfrenata (la bibliografia di Arcimboldi) … che catturano e trascinano il lettore in un viaggio che si vorrebbe non finisse mai. 
La solita scrittura “piena” a cui ci ha abituato Bolaño, che sembra tracimare in tutte le direzioni, un libro che è impossibile (o meglio: inutile) cercare di riassumere, fatto di tante storie collegate tra loro ma anche in grado di camminare da sole, un libro “eccentrico”, che è come le strade di Santa Teresa che “erano proiettate fuori, urbane e al tempo stesso aperte verso la campagna, una campagna di grandi spazi misteriosi”, un libro carico di vitalità, di voglia di dire e di fare, un romanzo “polifonico” che vuol raccontare “quante voci possiamo sentire nel corso di un giorno o di un'esistenza”. 
 Bolaño è un demiurgo che crea le sue storie impastando fango e sogni, letteratura e terra delle strade di Sonora, gioia e amarezza, coraggio e paura, presenza e assenza, felicità e sensi di colpa, sempre alla ricerca della verità delle cose per trovare “se non la ragione, una dannata giustificazione, e se non una giustificazione, il canto, appena un mormorio, ma indelebile”, il tutto ammantato da un velo di malinconia che passa come un vento caldo, a folate, su tutto il libro.

domenica 6 maggio 2012

I detective selvaggi

Questo libro è un sacco di cose. 
E' la fotografia di una generazione, è una dichiarazione d'amore per la poesia, è un film di Wenders, è On the road di Kerouac declinato in sudamericano, è un fiume.
Un fiume lunghissimo, con una serie infinita di affluenti, ognuno dei quali avrebbe la forza di reggere da solo un romanzo e che invece sono utilizzati per portare acqua alla storia di Arturo Belano ed Ulises Lima, per arricchirla di particolari e sfumature, per chiarirla e complicarla raccontandola.
Una storia che non è la storia dei realvisceralisti, come ad un certo punto Norman dice a Daniel, ma "la storia della vita, di quel che perdiamo senza rendercene conto e di quel che possiamo ritrovare", ..."perché niente è finito".
La storia della vita, quindi, quella vita dove tutti nuotiamo e quella vita, come dice Ulises Lima, "dove tutti abbiamo paura di naufragare".