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domenica 8 agosto 2021

Tre orfani – Giorgio Vasta


Il 12 marzo 2020, giorno del suo cinquantesimi compleanno, lo scrittore Giorgio Vasta trova seduti alla sua tavola Bartleby e il capitano Achab.
Questo è l'inizio di Tre orfani, un racconto surreale che non ha paura di mescolare autofiction e metaletterario per raccontare il disagio dell'uomo (anche) al tempo della pandemia.
«tre figurine consunte, tre reduci non si sa da cosa e da dove: tre reietti: tre relitti»
I personaggi melvilliani sono trattati da Vasta in maniera fedele all'originale letterario, sia nei comportamenti che nel linguaggio: a un Achab che scruta inquieto il buio della notte palermitana credendo donchisciottescamente di vedere cetacei dietro ogni ombra, fa da contraltare un Bartleby silenzioso, impegnato a cancellare prima le mail dal computer dell'autore, poi gli impegni dalla sua agenda, quelli della rubrica telefonica e i contatti di whatsapp.
«Seduto sulla sponda del letto, mi ero reso conto di non essere attraversato da nessun sentimento», 
scrive Vasta, prima di andare in bagno a lavarsi le mani, gesto che in questi mesi abbiamo ripetuto tutti fino allo sfinimento facendolo diventare automatico, e sono parole e comportamenti che ben rappresentano lo straniamento dell'autore e di noi con lui, abitanti di un mondo che è diverso da come era prima.
Bartleby rimuove, Achab è il visionario, quello che cerca qualcosa di indefinito, e Vasta si trova nel mezzo delle due visioni, sospeso tra una e l'altra, sospeso tra il non fare e il fare (ma comunque senza saper oggettivare quel fare). Liberatorio, oltre che simbolico, risulta così il gesto con cui nelle ultime pagine scaglierà ina scopa diventata arpione non tanto nella realtà del giardino ma nel vuoto dell'immaginazione, della letteratura.
«era stato solo allora, dicevo, che indietreggiando ancora di un passo avevo rinsaldato a presa, sollevato il braccio e fatto ruotare la spalla fino a battere l'estremità arrotondata contro il pavimento dietro di me; poi avevo mosso qualche passetto in avanti – avrei dovuto darmi una spinta e avevo traballato, avrei dovuto giocare di gambe per ottenere slancio e avevo vacillato: il movimento era venuto fuori storpio, ma lo stesso, non so come, ero riuscito a disegnare con il corpo un arco ampio e poi a richiuderlo schiudendo il pungo: il bastone di scopa intagliato aveva lasciato la mia mano e lungo la sua traiettoria, prima verso l'alto e poi verso un punto il più possibile esatto e lontano, era diventato un rampone che trapassava senza suono, uno strato dopo l'altro, il cielo nero e i suoi arcipelaghi stellari, l'etereo e il subacqueo, una babele di silenzi, dirigendosi cieco verso il suo bersaglio – la balena di Achab, il muro di Bartleby, e ogni scrittura fatta di solchi e schegge, e i mio cinquantesimo anno pandemico e tutto il tempo chiuso dentro gli anni e dagli anni sprigionato, il tempo preso nelle camere, disperso nel mio corpo, quello che mi si scioglie alle spalle e quell'altro, se è un altro, che a ogni respiro mi brancola fuori dal petto, che sempre più piano balbetto con le labbra e con le dita – finché, no so più quando, avevo sentito l'impatto: la punta del rampone che con un rumore colmo, profondo, tenero e aspro, si conficcava nella carne del buio.»

sabato 10 gennaio 2015

Giorgio Vasta - Il tempo materiale


Romanzo d'esordio impressionante per maturità e rigore nel quale l'autore rilegge il 1978, annus horribilis della storia italiana, attraverso gli occhi di tre preadolescenti che sulla base della fascinazione esercitata dal delitto Moro, decidono a loro modo di fare la rivoluzione.
L'io narrante è Nimbo, un ragazzino di undici anni che esperisce la realtà in una maniera del tutto originale, non contentandosi cioè dell'osservazione del mondo, ma aggiungendo ad essa anche l'uso degli altri sensi, il tatto, il gusto, l'olfatto. Vasta traduce il tutto con un linguaggio nuovo, fatto di una sorta di espressionismo stilistico - talora anche troppo manierato - ricco di aggettivi ed immagini, una specie di lente colorata che deforma tutto ciò su cui si posa.
La lotta contro lo Stato è la molla dalla quale scaturisce la storia ed anche il filo conduttore della narrazione, ma insieme a metafore, simboli e allegorie, mille sono i fili, più o meno sotterranei, che si intrecciano fra le pagine.
Uno di questi lo individuerei nell'impossibilità di comunicare tra bambini e adulti (e probabilmente nella difficoltà di comunicare in generale): i tre protagonisti cercano a modo loro di capire quello che succede intorno a loro, ma nonostante si esprimano e ragionino come uomini rimangono dei ragazzini, lasciati soli a confrontarsi con avvenimenti epocali. L'emulazione delle Brigate Rosse finisce così per essere un misto di gioco ed impegno, il tentativo di avere visibilità, di affermare se stessi, di essere colpevoli pur di essere.
Altro tema importante è quello del linguaggio: Nimbo, Raggio e Volo (nomi di battaglia dei tre undicenni) rifiutano quello convenzionale perché espressione di una realtà che vogliono cambiare, per sostituirlo con l'alfamuto, un codice di comunicazione fatto di posture e gesti che utilizzano i simboli della cultura di massa dell'epoca rileggendoli in funzione dei loro scopi, un uso delle forme cambiando i contenuti che esse dovrebbero rappresentare, simile per certi aspetti a quello che facevano Schifano, Angeli, Festa, Rotella, gli artisti della pop-art.
Il tempo materiale è un romanzo duro e a tratti angoscioso, che procede con andamento sincopato: frasi brevi e ritmo incalzante sottolineano le fasi della narrazione dedicate all'azione, alle malefatte del gruppo, ad esse si alternano monologhi o surreali dialoghi ideali con animali od oggetti in cui il protagonista cerca faticosamente di elaborare quello che sta succedendo e se nella prima parte dell'opera la riflessione precede e prepara l'azione, nella seconda accade l'esatto contrario con Nimbo che fatica a stare dietro a quello che succede, a capire dove sta andando e perché.
Se posso trovare una pecca in quest'opera è che una volta raggiunto il climax, la storia da l'impressione di scivolare verso il finale in maniera un po' troppo rapida. Forse si tratta di una scelta intenzionale dell'autore per rendere al meglio l'idea del precipitare degli eventi, tuttavia mi sembra uno scarto di velocità che stride con l'armonia del racconto. Ancora un'ultima annotazione a proposito del rigore con cui è costruito il romanzo: in certi momenti ho avuto l'impressione di una precisione e di un controllo quasi eccessivi, una sensazione simil-claustrofobica, come se tutto fosse consequenziale, già compreso dentro la trama.
Gusto personale, sia chiaro, infinitesimi granelli di sabbia in un ingranaggio ben rodato. Poca roba per uno tra i romanzi italiani più importanti degli ultimi tempi.