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domenica 20 aprile 2014

un giorno, e non finì la frase. Capitolo settimo



Capitolo settimo
Dove i personaggi cercano di spiegare da cosa scappano e cosa cercano e dove si descrive la visita del giovane dottore italiano alla mano di Marcenda

Il nuovo giorno inizia come si era chiuso il vecchio, vale a dire con Lorenzo e Marcendo intenti a chiacchierare. E’ l’ora della colazione e seduti a tavola ci sono solo i due ragazzi che parlano fitto fitto. Qualche spirito malizioso potrebbe osservare che, viste le difficoltà del giovane dottore italiano ad esprimersi compiutamente davanti ad una platea numerosa, sembra proprio una fortuna che a fargli compagnia a colazione ci sia solo la ragazza portoghese, ma vogliamo fermare subito queste speculazioni facendo notare che qui la Fortuna centra poco o nulla e che per agevolare l'incontro dei due giovani si è già adoperata sin troppo, facendoli salire sullo stesso vapore ed ancora di più assegnando loro il posto di vicini di tavola per tutto il viaggio. La Sorte non è una divinità qualsiasi, ma la Grande Dea Necessità madre delle Moire, con la quale neppure gli dei osano contendere, ragion per cui pensiamo che non sia lecito aspettarsi da lei altre concessioni e che se sull’Highland Monarch c’è qualcuno che spera da lei ancora qualcosa di più di quanto ha già ricevuto, farebbe bene a ringraziarla ma soprattutto a decidersi di darle una mano. Ogni riferimento al dottor Lupi è puramente voluto, visto che non sapremo proprio giustificare altrimenti il suo strano comportamento di questa mattina, quando sin di buonora l’abbiamo scorto girovagare nei pressi della hall, guardando la pendola che segna le ore mentre gli altri commensali del suo tavolo prendevano posto per fare colazione, ci chiedevamo cosa aspettasse ad entrare e ad accomodarsi inseme agli altri ed abbiamo sospettato che forse non gradisse l'abituale compagnia, questo almeno fino a quando non abbiamo intuito che forse non aera in attesa di qualcosa ma di qualcuno, visto che si è deciso a fare il suo ingresso in sala solo dopo che ha scorto che anche Marcenda aveva preso posto a tavola con il suo proverbiale ritardo. Sia chiaro, non vorremmo che le nostre parole potessero far pensare a qualcuno che il giovane dottore italiano abbia cercato di rimanere solo a tavola con la ragazza portoghese, o almeno, anche se così fosse, preghiamo il lettore di non indulgere a pensieri maliziosi o sorrisini di circostanza, che a questo punto del viaggio la situazione è tutta in divenire e di quello che potrà o non potrà succedere nessuno ancora sa nulla. Parlavi di certi interessi che la tua famiglia avrebbe in Argentina, se non sono troppo indiscreta, sta dicendo Marcenda, Sì, è una storia un po’ lunga, ho dei parenti laggiù che hanno una fattoria e mi hanno scritto che ci sono buone opportunità di lavoro per i medici in Sudamerica, sulle prime mi è sembrata un’offerta strana, visto che le possibilità di impiego non mancano neppure in Italia, ma poi mi hanno spiegato che ci sarebbe da occuparsi in prima persona anche della gestione dell’azienda, visto che il cugino di mio padre che l’ha creata ha deciso di salutare la compagnia per andare in Messico e gli altri membri della famiglia sono troppo vecchi o troppo inesperti per sostituirlo, Strano personaggio questo tuo zio, e come mai ha deciso di abbandonare, Dire strano è poco, da quel che mi hanno riferito avrebbe raccontato di aver incontrato una specie di sciamano che l’ha guarito da una febbre che i medici non riuscivano a debellare e da allora la sua vita è cambiata, ha cominciato a parlare di energia dell’universo, di voler entrare in armonia con le cose e roba così, Non sembri molto convinto, Non so, ti ho già detto che è strano e purtroppo in passato ci ha già abituato ai suoi colpi di testa, Non vorrei passare per una ficcanaso, ma, scusa se te lo dico, sembra che ti diverti a provocare la mia curiosità, accenni, dici e non dici, quali misteri può avere la vita di questo cugino, Hai ragione, scusa, è che sono abituato a fare così perché non è una storia di cui in famiglia si vada particolarmente fieri, per il poco che ne conosciamo poi che magari le cose sono ancora più complicate, comunque inizierò col dirti che questo cugino di mio padre si chiamava come me, scusa se ti interrompo ma hai detto chiamava, forse è morto, No, non è morto solo che ad un certo punto della vita ha cambiato nome ed ora si fa chiamare Héctor Genta, Un tizio che cambia nome, mi sa che avevi ragione a dire che è strano, ma scusa se ti ho tolto di nuovo la parola, cercherò di non interromperti più, Non c’è problema interrompi quando vuoi, ti dicevo che quando lo zio era molto giovane, quando si chiamava ancora Lorenzo Lupi per intenderci, i suoi genitori erano riusciti a farlo entrare in seminario, non che la fede c’entrasse poi tanto, ma quando uno è l’ultimo di cinque figli di una famiglia contadina le possibilità non è che abbondino ed allora anche la carriera ecclesiastica poteva andare bene, considerato anche che un prete in casa fa sempre comodo. Sia come sia, le cose sembravano procedere bene, almeno fino ad un certo punto, quando lo zio Lorenzo decise d’improvviso di scappare dal seminario pensando bene di sparire per un paio d’anni. Così d’improvviso, senza dare spiegazioni, Sì, d’improvviso, almeno questo è quello che sono riuscito a sapere perché come ti ho detto che di questa storia non si parla volentieri in famiglia e non posso escludere che su qualche passaggio ci siano omissioni, coperture o vere e proprie invenzioni per modificare la realtà nel verso preferito, sia come sia, quello che mi è stato raccontato è che lo zio si fece rivedere a Spezia solo qualche anno dopo e seppur a fatica si riconciliò con la famiglia, poi ci fu la Grande Guerra durante la quale mi hanno raccontato che combatté in prima linea contro gli Austriaci, ma ti risparmio le storie sulle sue imprese al fronte perché le ho sentite raccontare in troppe maniere diverse che credo che più che romanzate siano inventate del tutto. Dopo la Guerra si stabilì prima in Veneto e poi a Milano dove non si capiva bene che lavoro facesse, ogni tanto tornava a Spezia con bei vestiti e soprattutto con belle accompagnatrici, e ricordo ancora come per noi bambini fosse una festa ogni volta che veniva a farci visita. Nei nostri giochi era un semidio e quando giocavamo tutti volevamo essere lui, ognuno di noi voleva interpretare il ruolo dello zio Lorenzo. Io andavo particolarmente fiero dell’omonimia ma non riuscivo a capire perché invece di incoraggiarci a diventare come lui, gli adulti cercassero di minimizzare e vedessero con fastidio le nostre fantasie. Credevo che fossero gelosi, ma crescendo ho capito che le cose stavano un po’ diversamente. Da Milano si trasferì ancora, prima a San Remo, dove si diceva che lavorasse al Casinò, poi sparì di nuovo per ricomparire in Francia, di questo periodo, anche se è il più recente, so poco o nulla, sembra che sia finito in qualche brutto giro a Marsiglia e qualche voce che mai in famiglia hanno voluto confermare spiega la sua lunga assenza con la galera in Francia, ma su questo argomento, come ho detto, tutti i parenti hanno sempre tenuto le bocche cucite. Fatto sta che qualcosa deve essere pur successo perché da allora si fece rivedere a casa solo una volta, sei o sette anni fa, ricordo che mi fece una strana impressione ritrovare quello che era stato un mio mito così male in arnese, smagrito, pallido, sembrava spaventato che qualcosa potesse succedergli da un momento all'altro, venne a salutare i parenti, dicendo che stava per imbarcarsi per le Americhe e che appena sistemato avrebbe fatto arrivare il resto della famiglia, perché si diceva che in Argentina ci fossero straordinarie opportunità per chi le sapeva cogliere. Di quell'ultima vista ricordo due cose, il fatto che nonostante fosse ridotto così male continuasse a fare progetti in grande, come se l’inquietudine che lo possedeva non facesse caso a come era ridotto il corpo che abitava, ed una cicatrice sulla guancia che io sono sicuro di aver visto ma che i miei genitori negano decisamente che egli avesse, E la questione del cambio di nome, Sì, ora ci arrivo, una volta in Argentina lo zio fece come aveva promesso, in quattro e quattr'otto mise in piedi un’azienda agricola e dopo un paio d’anni lo raggiunsero in Sudamerica anche i suoi genitori e poi qualche altro familiare, giustificò il cambio di nome da Lorenzo Lupi in Hector Genta dicendo che aveva cominciato una nuova vita nel Nuovo Mondo e che per festeggiarla aveva deciso di darsi un nuovo nome, probabilmente l’ennesima mattana di un parente un po’ strano o più probabilmente la paura che qualcuno con il quale magari aveva dei conti in sospeso potesse partire dall’Europa per mettersi sulle sue tracce, fatto sta che per tutti questi anni è rimasto tranquillo, la sua attività procedeva più che bene e le lettere che ci arrivavano dall’Argentina sembravano aver fatto dimenticare il suo passato burrascoso, Fino a poco tempo fa, almeno, Già, adesso questa cosa dello sciamano ha preoccupato di nuovo un po’ tutti, ragion per cui la famiglia ha deciso di mandare me a vedere di cercare di sistemare le cose, Una bella responsabilità, non c’è che dire, ma dovresti andarne fiero, Sì, è così, ma se devo dirla tutta adesso vedo solo la responsabilità e non so proprio che situazione potrò trovare di là dall’Oceano, è un mondo totalmente nuovo per me, più che andare fiero dell’investitura che ho avuto, penso a come non finire schiacciato dalla situazione, Ti capisco, non sarà facile misurarsi con una situazione così grande e per te così nuova, ma almeno hai sempre una via d’uscita, Una via d’uscita, non capisco, e quale sarebbe, Bè, se è vero che tu sei Lorenzo Lupi, mal che vada quando arriverai in Argentina potrai trasformarti anche tu in Héctor Genta, dice ridendo Marcenda.

La guerra. Abbiamo già visto come all’inizio del viaggio ne abbia accennato Ramon Jimenez chiamandola in causa per giustificare la sua fuga dall’Europa definendola assurda e nefasta, ed anche poco fa abbiamo notato come pur senza nominarla essa sia ben presente nei pensieri dei passeggeri dell’Higland Monarch. E’ qualcosa di difficile da affrontare anche a parole, la guerra. Soprattutto in questo momento in cui ci si è troppo vicini, troppo dentro, per poter capire bene cos’è realmente quella guerra che in Spagna sta mettendo i fratelli uno contro l’altro e cosa vogliono dire quegli strani fermenti che si avvertono un po’ dovunque, quei fuochi che si accendono improvvisamente qua e là nel mondo ed altrettanto rapidamente si spengono. Si ha l’impressione di essere i passeggeri di una barca che naviga in mezzo alla nebbia, non sappiamo bene dove stiamo andando, se verso un porto sicuro o se alla deriva, solo il tempo ce lo dirà, se il tempo di saperlo ci sarà dato. La guerra dicevamo, un argomento difficile da trattare, soprattutto perché non si capisce da che parte stanno gli uni e da che parte gli altri. Sì certo in Spagna le forze in campo sono evidenti, ma solo in apparenza.
La guerra. Oggi per la prima volta abbiamo riascoltato questa parola dalla bocca dell’ingegner de Campos, al bar del lido, conversando con quel dottor Lupi che sembra uno dei pochi a gradire e cercare la compagnia dello scontroso scrittore portoghese. La guerra, ha detto l’ingegnere è senz’altro la spiegazione alla presenza di noi tutti su questo vapore, ma credo che ci sia anche dell’altro, qualcosa di più, che ci spinge ad allontanarci dalle nostre patrie, Tu per esempio da cosa scappi.

[il manoscritto finisce qui. Ci scusiamo con i due o tre lettori - probabilmente uno - che ci hanno seguito fino a questo punto e ci auguriamo che in futuro Héctor Genta decida di riprendere in mano la penna. Non tanto perché vogliamo sapere come va a finire la storia, dove e come l'Highland Monarch traghetterà i personaggi che ci siamo abituati a conoscere dall'altra parte dell'Oceano, ma perché ci è piaciuto togliere un po' di polvere dalle spalle di Marcenda e compagnia e veder  loro "vivere" altre avventure.]

sabato 12 aprile 2014

un giorno, e non finì la frase. Capitolo sesto


Capitolo sesto.
Sui discorsi fatti sul ponte del sole guardando il mare ed immaginando la vita



Dopo un pranzo abbondante non c’è niente di meglio di un riposino ristoratore, queste all’incirca devono essere state le parole usate da Ramon Jimenez per convincere i compagni di viaggio a raggiungere le sdraio sul ponte più alto dell’Highland Monarch, e poco importa se durante la marcia di trasferimento il gruppetto ha perso qualche unità, ci riferiamo all’ingegner de Campos che passando davanti al bar del lido, forse non pago del vinho verde e del Porto con il quale aveva già abbondantemente annaffiato il desco, ha preferito concedersi anche qualche bicchierino di aguardiente. Perdita di poco conto che il resto del plotone ha continuato a marciare compatto ed ora è sul ponte intento a prendere posizione sulle sdraio. E’ una splendida giornata senza nuvole, con un sole che a volergli trovare un difetto è forse un po’ troppo generoso nell’elargire il calore dei suoi raggi, ma non tema il lettore che qualcuno, magari qualche signora dalla carnagione più chiara, corra il rischio di un’insolazione, siamo su un vapore delle Regie Linee, è bene ricordarlo e la Marina britannica è più che attenta a che i passeggeri delle sue navi non abbiano a lamentarsi, è per questo che solerti inservienti sono già intervenuti per sistemare una serie di ombrelloni alle spalle dei nostri amici. La cucina portoghese è tutt’altro che leggera e per chi non è abituato bollito e rognone non sono piatti tanto semplici da smaltire, soprattutto se ad essi hanno fatto seguito una discreta selezione di formaggi di pecora e poi ancora un’abbondante teoria di dolci ai quali la strana comagnia che stiamo seguendo non ha saputo sottrarsi, un po’ per gola, un po’ perché quei nomi fantasiosi come lardo del cielo e ventre di monaca con i quali i camerieri hanno accompagnato la presentazione delle vivande, sembravano messi lì apposta per solleticare la curiosità dei commensali. Sarà dunque colpa del cibo pesante, magari anche della canicola e aggiungiamo pure la stanchezza del viaggio, fatto sta che una volta presa posizione sulle sdraie i nostri amici sembrano voler deludere le nostre aspettative di ascoltare da loro qualche storia interessante per lasciarsi invece andare ad un pisolino ristoratore come aveva proposto Ramon Jimenez. Ad essere sinceri il poeta di Moguer ha cercato di stimolare la conversazione, invitando Jusep Torres Campalans a raccontare qualcosa di più della sua arte, ma si è trattato di un tentativo infruttuoso visto che il pittore catalano sembrerebbe essere salito fin qui solo per educazione nei confronti del resto della compagnia. E’ voce di popolo che i comportamenti, a saperli osservare, dicano più di mille parole, e sedersi in punta di sedia senza appoggiare neppure la schiena, come ha fatto Jusep Torres, è indubbiamente tipico di chi ha fretta, di chi non è intenzionato a fermarsi a lungo. Vox populi vox dei si dice in questi casi, e tanto dovrebbe essere sufficiente a dar credito a quanto stiamo dicendo ma se ci fosse tra i lettori qualche novello San Tommaso che nutrisse ancora dei dubbi sul fatto che il pittore catalano non vede l’ora di abbandonare il ponte del sole, ecco che ai comportamenti fanno seguito anche le parole, quelle parole alle quali tanto peso siamo abituati ad attribuire da non vedere più tutto il resto, La pittura è pittura, solo Dio è in grado di giudicare, la verità è che tutti quelli che discutono di pittura rubano il posto a Dio. Questa la risposta di Campalans alle parole di Ramon Jimenez, niente di scortese, ci mancherebbe, ma frasi secche, sicuramente in linea con il carattere un po’ burbero del personaggio, che chi lo conosce bene sa non essere un gran parlatore, frasi che poco o nulla lasciano alla possibilità di imbastire una qualche forma di discussione. Chi sarebbe, ad esempio, in grado di replicare ad asserzioni del tipo Per dipingere basta avere poche idee, chi ha bisogno di pensare per dipingere non è un pittore, è a furia di pensare che non si riesce più a capire la gente, non di certo Ramon Jimenez, o almeno in questo momento non sembra che il poeta di Moguer voglia impegnarsi più di tanto per ravvivare una conversazione che il suo interlocutore ha fatto chiaramente intendere di voler lasciar cadere. La logica conseguenza di tutto ciò è che dopo poche battute piomba sul gruppo un bel silenzio, premio meritato per gli sforzi del pittore catalano che dopo aver lasciato trascorrere ancora qualche minuto, giusto per non dare l’impressione di squagliarsela troppo di fretta, si è alzato per prendere congedo dal resto della compagnia borbottando qualcosa su certe cose da fare in altro luogo. Non saremo certo noi a biasimarlo, che se ci fermiamo un attimo a riflettere, converremo che in questi i momenti può risultare imbarazzante chiacchierare amabilmente prendendo il sole come se niente fosse. Quello che stiamo vivendo, è giusto ricordarlo al lettore, non è un agosto normale, che il calendario recita millenovecentotrentasette, la Spagna è incendiata da una guerra folle, nel resto dell’Europa si respira un’aria che definire pesante è un eufemismo e strani fermenti agitano anche terre più lontane come quelle verso le quali stiamo navigando. E’ come se ci fosse una specie di virus, un morbo che si diffonde con contagio rapidissimo per tutto il globo, un virus che porta odio e morte, che spinge i fratelli ad uccidere i fratelli, una epidemia cieca alla quale non sembra esserci rimedio, una peste già apparsa nel corso della storia sotto forme diverse e con scadenze irregolari, una peste contro la quale l’uomo non sembra poter o voler fare niente. Ragioni più che sufficienti, come si vede, per spingere Jusep Torres Campalans ad abbandonare il ponte del sole, nessuna antipatia nei confronti dei compagni di viaggio, ci mancherebbe, solamente che quando si è trovato là in cima si è sentito improvvisamente a disagio, lui anarchico, payès, figlio di contadini, a viaggiare in prima classe mentre in terza c’è gente che soffre, che suda e che fatica ad inventare un domani da far seguire all’oggi. Ci par già di sentire la voce di qualche solone, pronto a ricordarci che questa è la vita e da nessuna parte è scritto che essa debba essere giusta od anche solamente logica, la vita è quello che è, un grande mare nel quale ci tocca destreggiarci prendendo ora la bonaccia ed ora la tempesta, un mare da navigare senza pretendere di riuscire a capirlo. Tutto vero, come negarlo, solo che dobbiamo confessare come ci sia una leggera differenza tra affermare certe cose ed esserne convinti fino in fondo, che se davvero riuscissimo ad avere un briciolo di quella saggezza che predichiamo forse sapremmo anche accettare i limiti insiti nella nostra natura di uomini un po’ più facilmente. Il fatto, come ci è già capitato di dire in precedenza, è che nonostante le buone intenzioni non siamo fatti di sola ragione ma anche di emozioni, quelle stesse emozioni che spingono Jusep Torres ad infiammarsi per un nonnulla non appena sente parlare di giustizia, che guidano Ramon Jimenez nell’inseguire la verità della poesia e più in generale ognuno di noi nel cercare di assecondare i progetti del suo daimon. Emozioni, croci e delizie della nostra vita, in grado di saltare fuori dal nulla come Erinni, per distruggere in un attimo progetti costruiti con tanta pazienza, emozioni simili a cani al guinzaglio che fatichiamo a tenere a bada perché ci tirano in tutte le direzioni, o magari, come nel caso del giovane dottor Lupi, simili ad un gatto un po’ vivace così difficile da costringere in casa quando decide di farsi una passeggiata all’aria aperta. Non vorremmo però che dalle nostre parole sembri che il pittore catalano sia l’unico su questa nave ad avvertire l’inquietudine del momento storico che stiamo vivendo, per sgombrare il campo da equivoci ci preme aggiungere che il pensiero della guerra è ben presente anche alle coscienze dei suoi compagni di viaggio ed anzi, proprio le sue ultime parole, quel E’ a furia di pensare che non si riesce più a capire la gente, ronzano ancora nella mente di Ramon Jimenez, che attraverso uno di quegli indecifrabili percorsi che seguono le idee è tornato col pensiero ad un mese fa, a quando i vescovi spagnoli avevano dichiarato il loro appoggio ai nazionalisti mentre gli intellettuali di mezzo mondo, riuniti in un congresso per la difesa della cultura esprimevano sostegno alla repubblica. Grande è la confusione sotto il cielo, quando si finisce per parlare di politica si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una matassa che ogni volta che la si prende in mano si aggroviglia sempre più, soprattutto se si è un poeta come Ramon Jimenez che non riesce a guardare alla guerra se non con gli occhi di un idealista, che vede la buona fede nelle azioni di tutti e che è convinto che il dialogo sia la medicina migliore in grado di ripianare tutti i contrasti. O quasi, aggiungiamo noi, che se Ramon Jimenez e Zenobia Camprubì Aymar si trovano su questa nave lo devono proprio al fatto che la medicina nella quale tanto confida il poeta di Moguer non sembra essere la più adatta per curare una malattia così grave come la guerra civile. E visto che abbiamo parlato di disagio delle coscienze, finiremo il nostro giro di orizzonte raccontando quello della ragazza portoghese dal collo lungo e sottile, che in questo momento sembra provare qualcosa di molto simile al senso di colpa per il fatto di lasciarsi carezzare dal sole su una sdraio di prima classe mentre il vapore delle Regie Linee la sta portando lontano dalla guerra. Nessuno si sognerebbe di accusarla di indifferenza, che non è stata certo la voglia di divertimento a farla salire sull’Higland Monarch, eppure lei non può fare a meno di avvertire imbarazzo per il privilegio che si trova a godere rispetto a tanti suoi coetanei. Sono momenti di grande confusione per tutti, forse è per questo che sotto forme diverse si affaccia alla mente dei nostri compagni di viaggio una domanda che ci eravamo posti anche in precedenza, Perché succedono le cose che succedono, qual’è, se esiste, il disegno di chi tutto dirige. L’impressione che si ha è quella di aver perso la bussola, ci sia perdonata l’irriverenza, ma è come se il Grande Timoniere che fino a questo momento ha governato la barca della storia si sia preso una vacanza senza curarsi del fatto che l’imbarcazione sta andando alla deriva. Se Marcenda da un lato è riconoscente della fortuna di cui gode, dall’altro si chiede perché è capitata proprio a lei, perché lei si trova in viaggio verso Rio de Janeiro mentre qualche sua coetanea sta ancora piangendo i familiari persi sotto le bombe di Guernica, come è possibile sorseggiare una tazza di the al tavolino di un ponte di prima classe proteggendosi dal sole con un ombrellino colorato fingendo di non vedere la scia di sangue che si allunga alle nostre spalle. Domande, ancora domande, destinate a rimanere senza risposta visto che a quanto pare Ananke, la dea preposta ad esaudire la nostra curiosità, in questo momento sembra in tutt’altre faccende affaccendata e forse quando si deciderà a degnarci della sua attenzione altri quesiti avranno preso il posto di quelli che ci assillano ora.

A volte le sorprese arrivano da dove meno ci se lo aspetta, è normale, altrimenti non si chiamerebbero sorprese o per dirla con Sancio Panza, per dove meno se l’aspettano salta la lepre, sia come sia, nessuno avrebbe immaginato che a spezzare questo silenzio del quale ognuno sembra aver approfittato per chiudersi in meditazioni personali, potesse essere proprio il giovane dottore italiano. E’ il dottor Lupi che approfittando della vicinanza tra le loro sdraie, e considerando che il silenzio dei coniugi Jimenez sembra indicare che stanno riposando, trova il coraggio per abbassare il libro che tiene in grembo e domandare a Marcenda se in biblioteca ha avuto modo di leggere qualche poesia del dottor Reis, Sì, qualcosa ho trovato, risponde lei sorridendo, e devo dire che mi ha fatto uno strano effetto scoprire che dietro a quello che conoscevo come un serio dottore dedito solo alla professione albergasse un animo poetico, E come le sono sembrate le sue poesie, E’ difficile dire, è così poco quello che ho potuto leggere che non ho avuto modo di formarmi un’opinione vera e propria, E un’impressione, una prima idea se l’è fatta, Se devo dire la sensazione è che siano pervase da tanta malinconia, come se il dottor Reis avesse paura di lasciarsi andare fino in fondo, per farle un esempio, le odi che ho letto mi hanno fatto pensare ad uno che pur amando le rose preferisce evitarle per paura di pungersi con le spine, non saprei dire meglio, quello che mi è sembrato di leggere è il tormento di un uomo che sembra amare la vita ma preferisce osservarla dalla finestra perché ha troppo paura di viverla, ma forse mi sbaglio, probabilmente queste sono solo sciocchezze, non faccia caso a quello che sto dicendo, No tutt’altro, dice Lorenzo, per quanto poco conosca l’opera di questo autore, devo dire che anch’io dalle liriche che ho letto ho ricavato le sue stesse impressioni, lo stesso senso di disagio, E dell’ingegner de Campos che mi dice, domanda Marcenda spostando il discorso, confesso che questa mattina mi ha incuriosito alquanto e mi domandavo come potessero essere le sue poesie, lei che le ha lette saprà certamente dirmi se sono simili a quelle del dottor Reis o se ne differenziano, E’ una domanda così difficile che mi permetterà di cavarmela con una battuta dicendo che forse le ha risposto lui stesso quando a colazione ha detto che mentre il dottor Reis metteva le emozioni al servizio dell’idea lui fa l’esatto contrario, Mi incuriosisce, vedrò di colmare le mie lacune cercando in biblioteca anche qualche sua poesia, credo che sarà interessante mettere a confronto due modi cosi diversi di vedere la vita, A dire il vero non so se siano modi di intendere la vita o solo di raccontarla, frena il giovane dottore, per conto mio devo dire che trovo che sia quasi impossibile dare una definizione dell’Alvaro de Campos poeta, è un fiume in piena, un vulcano in eruzione continua, dalla cui bocca può uscire tutto e il suo contrario. E lei, domanda Marcenda con malcelata curiosità, anche lei scrive poesie, mi scusi se le sembro indiscreta ma quando ne parla sembra così appassionato che non posso fare a meno di domandarglielo, No, no, risponde lui arrossendo, assolutamente no, poesie io, ci mancherebbe, non sono davvero in grado. Via, non si schernisca troppo, interviene Ramon Jimenez che probabilmente non sonnecchiava ma ascoltava in silenzio, non c’è niente di male nello scrivere poesie, e poi, a quanto sembra, su questa nave ci sono così tanti artisti che uno più od uno meno non farebbe una gran differenza, Quello che volevo dire è che non basta amare la poesia per farla, dice il dottor Lupi cercando di precisare meglio il suo pensiero, per essere un vero poeta ci vogliono delle doti particolari che io sinceramente non credo di avere e piuttosto di rendermi ridicolo scrivendo brutte poesie credo sia meglio leggere quelle degli altri, Ecco tornare il dottor Lupi timoroso, quello che vede minacce alla sua intimità anche dietro l’apparente banalità di un’osservazione buttata lì in maniera scherzosa. Un punto di vista rispettabilissimo, osserva il poeta di Moguer, ci mancherebbe, in realtà ascoltando le sue parole devo dire che lei sembra abbastanza somigliante al ritratto che la nostra giovane amica ha appena fatto di Ricardo Reis, Sarà che sono tutti e due medici, scherza Marcenda, Può essere, ma nel caso del dottor Reis questo non gli ha impedito di essere anche un grande poeta, aggiunge argutamente Ramon Jimenez.
Diremo qui che, nonostante sia intervenuta più volte nelle discussioni esibendo sempre una buona disinvoltura, Marcenda è soprattutto quel che si definisce una buona ascoltatrice, come potrebbero testimoniare le tante amiche che ha lasciato a Coimbra e dei segreti delle quali è fedele depositaria. Ci sono persone che ispirano immediata fiducia, e Marcenda è una di queste, ma ciò non vuol dire che la ragazza dal collo lungo e sottile sia una specie di crocerossina pronta ad accorrere ovunque ci sia bisogno di lei, Marcenda tende a selezionare le amicizie, come è normale che sia, ed è incuriosita in particolare dalle persone un po’ timide, introverse, perché le sembra che siano quelle che più di altre possaoo avere qualcosa da raccontare e perché crede che sia più stimolante scoprire poco a poco di una persona, lasciando che ogni giorno sveli una nuova tessera del mosaico che si dovrà comporre. Non è chiaro da cosa Marcenda tragga questa impressione, diciamo che è colpa o merito dell’intuito femminile, di quel quid che nessuno sa ben dire cosa sia e che tutti chiamiamo in causa quando vogliamo spiegare perché le donne siano un po’ maghe ed un po’ streghe. Per chiudere il cerchio aggiungeremo che tra i passeggeri dell’Highland Monarch quello che si avvicina di più all’identikit cdel timido introverso he abbiamo appena tratteggiato è il dottor Lupi, che con i suoi comportamenti difensivi non ha mancato di attirare l’attenzione della ragazza portoghese. Povero Lorenzo, lui crede di alzare una cortina di nebbia per rendersi invisibile agli altri ed ora si scopre che sul vapore delle Regie Linee c’è una ragazza attratta proprio da questa nebbia, se qualcuno cerca di nascondere qualcosa è perché ha qualcosa da nascondere, pensa Marcenda, e più difende il suo segreto e più questo deve essere prezioso, sia esso costituito da storie di vita, sogni o fantasie. Ed auguriamoci allora che prima o poi questo timido dottore italiano la smetta di difendersi e si lasci un po’ andare, che non succeda come per l’altro dottore, quel Ricardo Reis che Marcenda ha conosciuto ma solo per un tempo troppo breve, sufficiente per capire che dietro il medico doveva esserci qualcos’altro, ma non per poterne apprezzare le virtù come poeta. Se è vero che, come si dice dalle parti del dottor Lupi, Roma non fu fatta in un giorno, anche da lui non dovremo aspettarci che si dimostri affabile ed intraprendente in un batter d’occhio. La nostra impressione è che valga la pena concedergli un po’ di fiducia, considerando positivo il fatto che sia riuscito ad accorciare le distanze, avvicinando Marcenda ed iniziando la discussione. Per ora accontentiamoci, è già qualcosa, il resto forse verrà, anche se più lentamente di quanto voremmo, se è vero che proprio mentre stiamo dicendo queste cose il giovane dottore italiano si è alzato dalla sdraio per accomiatarsi dal gruppo con la più banale delle scuse e cioè dicendo che ha bisogno di fare due passi, aggiungendo che più tardi sarebbe tornato sul ponte. Certamente il vedersi accostato al dottor Reis ha provocato in Lorenzo un po’ di imbarazzo, ma a spingerlo ad abbandonare la compagnia è stato soprattutto il bisogno di stare solo, un misto di lentezza e di riservatezza nell’elaborare le informazioni che gli vengono dall’esterno che fa sì che il nostro amico si comporti a volte come un animale selvatico che una volta catturata la preda la trascina nella tana per dedicarvisi in tranquillità, certo la preda del dottor Lupi è perlomeno anomala, perché costituita da parole udite e sensazioni accumulate, ma tant’è, non siamo qui per fare le pulci ai comportamenti della gente. Per spiegare qualcosa di più del giovanotto italiano aggiungeremo che il libro che si è portato sul ponte, non sappiamo quanto per leggerlo veramente e quanto per difendersi dagli altri, è un’opera di un suo compatriota che di questi tempi va per la maggiore, Luigi Pirandello il nome dello scrittore ed I sei personaggi in cerca d’autore il titolo del libro. Diciamo questo perché il ragazzo ci sembra proprio un personaggio in cerca d’autore, ci perdoni la franchezza, uno che deve ancora trovare la sua strada nella vita e che ha bisogno di chiarire prima di tutto a se stesso quello che vuole. Certo considerando le sue letture, da Rilke a Pirandello con qualche puntata nelle opere dell’ingegner de Campos, il rischio è che più che trovare la strada maestra finisca per perdere completamente l’orientamento, come qualcuno che forse gli voleva bene non mancò un tempo di fargli osservare, ma è pur vero che a volte è necessario perdere la strada per provare il piacere di ritrovarla e in fondo il dottor Lupi non è l’unico ad essere impegnato in questa ricerca, che in realtà si potrebbe dire che personaggi in cerca d’autore li siamo un po’ tutti, che se ci pensiamo bene il nostro passaggio terreno è volto a cercare di capire che cosa ci facciamo qui ed a cosa siamo destinati. A pensarci bene personaggi in cerca d’autore sono sicuramente Marcenda, Alvaro de Campos e Jusep Torres Campalans e magari, per certi versi, potrebbero esserli anche Ramon Jimenez e Zenobia, e noti il lettore la coincidenza di come quando si siedono al tavolo del pranzo e della cena insieme al dottor Lupi le persone che abbiamo appena nominato raggiungano il numero di sei proprio come i personaggi di Pirandello. Sicuramente qualcuno, magari avezzo alle buone letture, vorrà obiettare che in fondo questi signori l’autore l’hanno trovato, e magari più di uno, che chi ha raccontato le loro storie c’è già stato in passato e c’è anche ora, qualcuno altro con il gusto del paradosso potrebbe osservare, non senza ragione, che proprio il dottore italiano, dal quale siamo partiti per intraprendere questo contorto ragionamento, è l’unico che non ha bisogno di autore e che anzi l’autore di tutta la storia che stiamo raccontando è lui, ma forse è meglio se ci fermiamo qui perché rischiamo di confondere quei pochi lettori che ci hanno seguito fin qui. Per mettere fine a questa giostra di opinioni non mancherà chi interverrà sostenendo con arguzia che quello che conta è capirsi sul significato da dare alle parole, che essere in cerca d’autore è espressione solo in apparenza cristallina ma in realtà quanto mai equivoca e che si può leggere in tante maniere, forse troppe, tante che ognuno potrebbe finire per usare questa frase per portare acqua al suo mulino. Ci fermiamo qui, che crediamo di aver abusato abbastanza della pazienza del lettore protraendo anche troppo questa riflessione e sconfinando in terreni che non ci appartengono. L’ultimo pensiero che ci concediamo prima di tornare alla narrazione è che queste ultime parole hanno rafforzato la nostra convinzione che gli strumenti lessicali che l’uomo impiega, le metafore, le allusioni, i doppi e tripli e quadrupli sensi, il tono della voce, ed ancora altri mille e mille e mille piccoli accorgimenti apparentemente privi di importanza, siano come scialuppe di salvataggio, tante uscite di sicurezza che egli dissemina lungo il suo percorso a bella posta, per dire e non dire quello che pensa, per lasciarsi la possibilità di cambiare idea, di tornare sui suoi passi senza farlo sembrare una contraddizione. Nessuna scoperta sconvolgente, la torre di Babele è sempre esistita e sempre esisterà, non tanto per questioni di linguaggi diversi, che queste sono differenze che con un po’ di buona volontà si potrebbero anche superare, quanto perché sono gli uomini che scelgono volontariamente di non farsi capire fino in fondo, magari perché sono loro per primi a non capire se stessi, o molto più probabilmente perché non vogliono neppure provare a farlo.
Dopo aver lasciato il ponte del sole, il dottor Lupi è tornato nella sua cabina. Lo sorprendiamo seduto sul letto con un taccuino in mano ed una penna in bocca che ripensa a quelle parole di Marcenda, E lei, anche lei scrive poesie. Colpito ed affondato, che certo che sì, che anche il giovanotto italiano scrive poesie o almeno ci prova, ma solo per lui, che si vergognerebbe a morte a farle leggere a chicchessia. Ecco spiegati il rossore e l’imbarazzo all’udire la domanda della ragazza dal collo lungo e sottile, si era sentito scoperto, proprio come un bambino pescato con le mani nel vasetto della marmellata. Niente di male, sia chiaro, che non è trascorso molto tempo da quando abbiamo visto altri illustri compagni di viaggio del dottor Lupi affermare di aver smesso con la pittura e con la scrittura e poi dimostrarci l’esatto contrario, ragion per cui se ora scopriamo che anche il giovanotto italiano ha un giardino privato che cerca di proteggere dalla curiosità degli altri non ci meravigliamo, ma anzi proviamo solo tenerezza. Ci scusi perciò l’amico italiano per aver fatto intrusione nella sua cabina ed aver violato la sua intimità, ci ritiriamo in silenzio, magari tornando sul ponte, dato che prestare orecchio a ciò che succede alla luce del sole è attività un pò meno sconveniente che sbirciare nelle cabine dei passeggeri dell’Higland Monarch.
Come è diverso questo viaggio da quello di vent’anni fa, sta dicendo Ramon Jimenez alla moglie, allora c’era il sapore dell’avventura, della scoperta, non sapevo cosa sarebbe successo al mio arrivo a New York, quale sarebbe stata la tua accoglienza e quella della tua famiglia, mi sentivo come uno che si arrampica lungo una fune della quale non vede l’altro capo, nelle mie aspettative avrebbe dovuto portarmi fino a te, ma non avevo alcuna certezza sul buon esito dell’impresa, Come vedi i tuoi sforzi sono stati premiati, risponde Zenobia sfiorandogli il dorso della mano, a volte mi domando cosa sarebbe stato delle nostre vite se tu non fossi stato tanto caparbio nel superare ogni ostacolo che si frapponeva tra noi due, certo, aggiunge sorridendo, vent’anni fa eri molto più giovane e temerario, Era il fascino dell’ignoto, continua lui, qualcosa che anche se un po’ ti intimorisce ti attrae a tal punto che non puoi tirarti indietro, un cammino nella foresta dell’incertezza avendo come unica guida la stella dell’amore, Chissà quanti pensieri devi aver avuto durante la traversata dell’Atlantico, devo confessarti che se da un lato mi sento in colpa per averti costretto a raggiungermi in America, dall’altro mi lusinga sapere che ti sei imbarcato in un viaggio così lungo per dimostrami il tuo amore, La cosa più pesante da sopportare è stata la solitudine, due settimane in compagnia dei propri dubbi possono essere lunghissime, ed io per non impazzire mi ero scelto come confidente il mare, tutte le sere mi affacciavo alla balaustra ad interrogare le onde perché mi dessero un segno, perché mi dicessero in anticipo quello che sarebbe successo, Vedo che gli anni passano ma il mare non cessa mai di ispirarti, Già, è così, risponde lui sospirando, il mare è l’inizio e la fine di tutto, sempre uguale e sempre diverso, la mer, la mer, toujours recommencée, come diceva il poeta. E Marcenda, ci chiediamo, sta forse dormendo. No è sdraiata ad occhi chiusi sulla sua sdraio che con un orecchio ascolta i ricordi dei coniugi Jimenez mentre fantastica su come sarebbe bello se nella vita le cose potessero andare come sulla nave. Se ci si potesse sempre lasciare tutto alle spalle con una semplice partenza, come sarebbe bello veder svanire le cose brutte abbandonandole sul molo di partenza, come sarebbe bello dimenticarle completamente sapendo che al porto d’arrivo troveremmo solo belle notizie ad accoglierci. E la sensazione di farsi trasportare, di non dover fare nessuna fatica almeno per un po’ di tempo, la sicurezza di essere in mani solide, su di un piroscafo che si prende cura di noi e che almeno per un po’ ci esenta dalle responsabilità. Pensieri puerili quanto si vuole, ma non dimentichiamo che Marcenda è una ragazza di venticinque anni con una mano paralizzata, che piange ancora la scomparsa della mamma e che si trova per la prima volta ad affrontare un viaggio per mare da sola, ragioni più che sufficienti a nostro avviso per concedere anche a lei di sognare un po’ ad occhi aperti.
Quando Lorenzo torna sul ponte del sole le sdraio sono vuote. Le poche persone rimaste sono affacciate alla balaustra dove sembra regnare una strana agitazione, chi indica un punto in mare, chi chiama un amico, chi si sposta da un parapetto all’altro, anche Marcenda è tra loro ed il giovane dottore non tarda a raggiungerla, Cosa succede, Hanno avvistato una balena, credo, Dove, Laggiù, Non vedo nulla, Aspetti, dovrebbe emergere fra poco, Là, ecco, vede, guardi nella direzione del mio dito, lo vede lo sbuffo di acqua, Sì, ma è lontano, Prima era più vicina poi deve essersi spaventata, ed ora si sia allontanando. Svanita la balena all’orizzonte Lorenzo e Marcenda ritornano alle sdraio, la ragazza è ancora eccitata per l’avvistamento, Non avevo mai visto una balena prima di oggi, era bellissima, così grande, devo confessarle che un ho anche avuto un po’ di paura, dice lei con le gote ancora arrossate per l’emozione, Dicono che sia frequente avvistare balene o delfini durante le traversate atlantiche, dice lui, E lei, le ne ha mai visto una prima di allora, No, però mi ricorda un episodio accaduto pochi mesi fa alla Spezia, dove vivo, anche lì fu avvistata una balena, fatto strano perché solitamente non si spingono mai sottocosta, Davvero, racconti la prego, sono curiosa di sentire tutta la storia, Un mattino qualcuno disse che c’era questa balena proprio davanti a Portovenere, si pensò ad uno scherzo, ma quando altri confermarono la versione si raccolse una discreta folla sul molo, si pensava che il giorno dopo la balena sarebbe scomparsa come era arrivata ma non fu così, giorno dopo giorno la gente accorreva a vedere quella che sembrava essere una vera attrazione, ci si chiedeva come mai fosse finita lì, ma soprattutto cosa fare. Le autorità decisero che probabilmente aveva perso l’orientamento e che sarebbe stato bene aiutarla ad uscire di lì prema che finisse per arenarsi sulla spiaggia, nulla da fare marinai e corpi speciali non riuscirono a convincerla ad abbandonare le acque del golfo, più sforzi facevano e più il cetaceo sembrava prendersi gioco di loro. Si immagini la scena, uomini scelti della valorosa Marina Militare italiana presi in giro da una balena che risultava tanto agile e scaltra quanto loro goffi ed impacciati, il tutto con un pubblico da stadio raccolto sulla banchina a fare il tifo per il grande cetaceo. Si disse che dal Duce in persona venne l’ordine perentorio di abbattere la balena, non potendo sopportare oltre il danno di immagine che il goffo mammifero stava arrecando al governo fascista. Niente da fare, quasi presaga di quello che era stato deciso la balena fece perdere le sue tracce e non se ne seppe più niente. La cosa che mi incuriosì di tutta la vicenda fu però come venne trattata dalla stampa ed anche dalla gente del posto. Tutte le ipotesi sul perché la balena fosse finita nel canale di Portovenere erano incentrate sul fatto che fosse malata o ferita o che avesse perso l’orientamento o che fosse alla ricerca di un posto per morire, A nessuno è venuta l’idea che magari aveva scelto di venire lì piuttosto che andare da un'altra parte, chiede Marcenda, Già è questo il punto, dice Lorenzo, ho pensato anche in seguito a questo episodio e mi sono convinto che in fondo la storia della balena può essere considerata come una sorta di metafora di quello che succede tutti i giorni, quando uno esprime opinioni non in linea con il pensare comune, allora si ritiene che sia malato. Il malato è il diverso, chi non è come noi, e che per questo ci fa paura e quindi è da respingere, rinchiudere, la mela marcia da allontanare dal resto della società affinché non la contagi. Nel caso della balena dovevamo sapere perché era lì, ed il non avere certezze sul perché del suo arrivo ci portava a fare congetture di qualsiasi tipo. Non abbiamo l’umiltà di accettare il fatto che non abbiamo spiegazioni per ogni fenomeno e questo ci disturba, secondo il pensare comune tutto deve essere illuminato dalla ragione perché laddove esistono delle zone buie lì possono nascere i problemi. Non ci accontentiamo mai, non accettiamo i nostri limiti e se qualcosa sfugge alla nostra comprensione allora vuol dire che è sbagliata. Davvero una strana società la nostra, a volte mi è anche difficile riconoscermi in essa.
Complimenti a Marcenda, anche questa volta l’intuito femminile non ha tradito le attese, è bastato attendere anche meno di quello che credevamo per ascoltare dalla bocca del dottor Lupi una storia interessante. A questo punto il giovanotto italiano sembra aver rotto il ghiaccio e se il buongiorno si vede dal mattino ci auguriamo che ci possa fornire altri spunti stimolanti nel proseguo del viaggio. 

sabato 5 aprile 2014

un giorno, e non finì la frase. Capitolo quinto


Capitolo quinto.
Di quello che accadde il mattino successivo, della colazione e della chiacchierata di Marcenda con l’ingegner de Campos e con il giovane dottore italiano

Il mattino coglie il giovane dottore già in piedi davanti allo specchio del bagno, impegnato a passare sapone e pennello lungo le curve del viso per attendere al rito della rasatura. E se abbiamo detto rito, rischiando di scivolare sul più classico dei luoghi comuni, non è tanto perché il dottor Lupi riconosca a questo momento la solennità di una funzione sacra, quanto perché lo ha sempre affrontato con la medesima indolenza di un bambino costretto dai genitori a partecipare ad una Messa, che non si vede l’ora che termini. Ma il nostro amico è prima di tutto persona ligia ai costumi ed anche un po’ abitudinaria, e sa bene che un uomo con la barba lunga è sinonimo di trasandatezza, ragion per cui mai ha pensato di venir meno a quello che considera un suo dovere e che assolve diligentemente a giorni alterni da otto o nove anni a questa parte con la cadenza di un metronomo. Eppure, nonostante quello che abbiamo appena detto, si direbbe che questa mattina sia nata diversa da quelle che l’hanno preceduta e che oggi la parola rito accostata alla rasatura abbia per la prima volta un sapore che è più vicino alla cerimonia che alla seccatura. L’occhio allenato sa cogliere i segnali più insignificanti, è per questo che ci è bastato osservare come il dottor Lupi ha alzato lo sguardo verso lo specchio, l’attenzione che ha dedicato al profilo riflesso nel vetro, per intuire che ci doveva essere qualcosa di speciale nell’aria. Ha squadrato dapprima la guancia destra, poi la sinistra, carezzandosi il viso con la mano come se fosse la prima volta che lo guarda davvero, poi ha sollevato un poco il mento per osservare più attentamente il il collo, allontanandosi ed avvicinandosi come a prendere meglio le misure, con quell’espressione seria di chi ha qualcosa che comincia a frullargli nella testa. Strano, perché fino ad ora il giovane dottore italiano non era mai cascato nel narcisismo, dedicando allo specchio l’attenzione minima per rendersi presentabile, lasciando che fossero altri a godere del piacere di indulgere in frivolezze quali il controllare e ricontrollare la pettinatura fino a che anche l’ultimo capello andasse al posto giusto o peggio ancora l’aspergersi a piene mani di dopobarba, profumi o quant’altro. Fino ad ora, dicevamo, perché quando questa mattina il dottor Lupi ha messo mano al rasoio con la sicurezza di chi aveva preso una decisione irrevocabile, quella di non procedere lungo le curve del viso con l’usuale fretta, rasando a tappeto la barba su tutto il volto, ma di risparmiare un filo di barba e baffi per farli crescere con cura e pazienza fino a quando non assumeranno la dignità di pizzetto. Non è un barbone incolto come quello di Jusep Campalans, ciò che il nostro giovane amico ha in testa, che anche volendo il dottor Lupi non sembra fornito di un’altrettanto folta peluria sul viso per poterselo permettere, ma un filo di baffi da far scendere lungo le guance per unirsi al pizzo, come Ramon Jimenez. Attenzione però, che la citazione del poeta di Moguer e del pittore catalano non deve autorizzare il lettore a ritenere che la decisione del giovane dottore italiano sia condizionata in qualche misura dai commensali conosciuti alla cena di ieri sera, noi siamo certi che nel momento in cui ha deciso di modificare il profilo del suo volto il nostro amico non voleva assomigliare né all’una né all’altra delle persone cha abbiamo appena nominato, diverso invece è dire se il pensiero che ha armato la sua mano possa avere a che fare con qualcun’altra delle persone che sedevano allo stesso tavolo. Pensiero forse malizioso e sul quale preferiamo non pronunciarci dato che probabilmente in questo momento neppure il giovane dottore conosce le ragioni che stanno dietro una scelta apparentemente così banale come quella di lasciarsi crescere il pizzetto, le ragioni dell’intelletto intendiamo dire, che se decidessimo di scandagliare le ragioni del cuore, quelle che reggono le briglia della fantasia, il discorso rischierebbe di complicarsi un po’ troppo.
E’ mattina, abbiamo già detto, ed anche Marcenda Sampaio è in piedi davanti allo specchio del bagno a mirare e rimirare il suo bel visino con più attenzione del solito. Niente di male, è una giovane di venticinque anni che fra poco dovrà salire a fare colazione con persone conosciute solo la sera prima e con le quali non ha ancora confidenza, normale che voglia presentarsi in ordine, logico che si soffermi un po’ più del solito sul contorno degli occhi per cercare di scoprire e poi cancellare i segni di una notte fatta di risvegli frequenti, niente da eccepire se si sforza di nascondere con un po’ di crema un foruncolo infinitesimale spuntato proprio nel bel mezzo della fronte. Eppure la nostra impressione, ci sia perdonato l'azzardo, è che oggi la signorina Sampaio indugi più del solito nella cura della sua persona, anche nell’aggiustarsi quella ciocca di capelli, nello sforzarsi di farla cadere con finta nonchalance, nel cercare di dare l’apparenza di casualità ad un gesto che è invece calcolato e voluto. Oggi la ragazza dal collo lungo e sottile si guarda nello specchio cercando di capire che impressione farà alle persone che incontrerà a colazione, oggi Marcenda si culla nella speranza infantile di potersi vedere con gli occhi di un altro. Ci spiace deludere una ragazza così carina, ma tra i nostri compiti di voce narrante c’è anche quello di ricordare che nella realtà a nessuno è concesso il privilegio di indossare i panni di un altro, e che dobbiamo accontentarci di vivere nella nostra pelle tenendoci tutti i dubbi e le incertezze su cosa gli altri vedranno quando ci guarderanno. Ci spiace frustrare le ambizioni della ragazza portoghese rammentando che è inutile riporre tanta fiducia nello specchio, ci darà solo risposte ingannatrici, perché quando lo interroghiamo non lo facciamo solo con gli occhi ma anche con un sacco di altre cose che abbiamo dentro di noi, sogni, ricordi, speranze, paure, ansie, un pentolone incandescente di emozioni che finirà per farci vedere come enorme un brufoletto che gli altri neppure noteranno o giudicare elegante e vezzoso un ricciolo che scende sul volto ma che in realtà è più da donna matura che da ragazza, un ricciolo che magari crediamo di aver scelto perché ci fa più belle mentre in realtà abbiamo deciso di lasciarlo cadere in quel modo perché ci ricorda nostra madre. E se qualcuno ha dei dubbi su quello che stiamo dicendo, gli suggeriamo di registrare su di un nastro la propria voce e poi di riascoltarla, ci saprà dire cosa ne pensa, se era quella la voce con cui credeva di aver sempre parlato o se piuttosto ne è rimasto stupito, per non dire deluso. In fondo è sempre la stessa storia della trave e della pagliuzza, possiamo giudicare gli altri con lucidità, ma quando si parla di noi la montagna da scalare diventa un po’ troppo ostica. Anche se per qualcuno può essere risultata noiosa, la digressione sullo specchio e sulle aspettative di Marcenda è servita se non altro per permettere alla ragazza di uscire dal bagno dopo aver ultimato le operazioni del trucco, non sperate di vederla già fuori dalla sua cabina però, che al tempo che ha dedicato alla cura della persona dovremmo ora sommare quello necessario per la scelta dell’abito, camicia bianca e gonna azzurra si direbbe a giudicare dalla mise che ha preparato sul letto, ma è lecito supporre che la decisione definitiva di Marcenda arriverà solo dopo due o tre prove davanti allo specchio, sempre lui, giudice supremo e quanto mai umorale. Quando la nostra volubile amica avrà finalmente deciso cosa indossare, dovremo calcolare ancora un altro po’ di tempo per la vestizione, considerando quanto può essere difficoltosa per una persona come lei, costretta ad utilizzare una sola mano aiutandosi come può con il polso dell’altra, e fortuna, se di fortuna si può parlare, che non è stata la mano destra a subire la paralisi. Se a tutto ciò aggiungiamo che la ragazza dal collo lungo e sottile ha già dato dimostrazione di non essere proprio ligia al rispetto degli orari, ecco spiegato come sia possibile che l’imponente pendola della nave batta le nove e mezzo nel momento esatto in cui Marcenda, finalmente, attraversa la hall centrale dell’Higland Monarch. Nessun problema però, questa volta la signorina Sampaio non si metterà a correre lungo il corridoio delle cabine, ieri sera il signor Burton le ha detto che la colazione verrà servita dalle otto alle dieci, quindi sa di fare tranquillamente in tempo. Per fortuna che una colazione non è una cena e non ci sono obblighi così rigidi di orario, ragion per cui l’idea di essere ancora una volta l'ultimo dei commensali a prendere posto a tavola non la preoccupa più di tanto. E se Marcenda non tradisce nessuna apprensione per il ritardo, non v’è ragione che lo si faccia noi, è per questo che ci concederemo il lusso di perdere ancora qualche minuto per descrivere meglio la nave sulla quale stiamo viaggiando.
Come abbiamo detto l’Highland Monarch è una delle imbarcazioni che fanno la spola tra i due capi dell’Oceano Atlantico per conto delle Regie Linee inglesi, come le sorelle Highland Chieftain ed Highland Brigade, uscite dai medesimi cantieri di Harland e Wolff a Belfast ed identiche in tutto e per tutto a lei. E’ una nave che stazza millequattrocento tonnellate, che può sviluppare una velocità di quindici nodi ed è in grado di accogliere centocinquanta passeggeri in prima classe, settanta in seconda e quasi cinquecento in terza. Dalle cabine si accede direttamente al ponte di coperta, anche detto ponte di re Giorgio V, lungo il quale si incontrano la lavanderia, il parrucchiere, la farmacia e l’ambulatorio medico. Salendo al piano superiore c’è il ponte dei saloni, o ponte di re Edoardo VII, con la sala da pranzo, un bar, il salone delle feste ed anche una piccola ma attrezzata biblioteca, ancora più su si raggiunge il ponte di passeggiata, o ponte della regina Vittoria, che da poppa a prua da accesso al lido, al ponte degli sport dove è ospitata anche una piscina ed al ponte del sole. Fatta questa breve precisazione che ci permetterà di orientarci meglio nei nostri spostamenti sulla nave, torniamo a Marcenda, che raggiungiamo proprio mentre sta per fare il suo ingresso in sala da pranzo.
La sala pranzo al mattino sembra più grande, c’è poca gente ai tavoli e molto meno confusione, il chiacchiericcio insistente di ieri sera è un ricordo lontano che fa apprezzare di più l’atmosfera rilassata della colazione. Questa mattina anche il giovane dottore sembra meno ingessato e più a suo agio rispetto a come ci era apparso ieri sera, almeno a giudicare da come parla fitto fitto con l’ingegner de Campos. Marcenda è giunta alle loro spalle ed approfittando del fatto di non essere stata ancora notata dai due può apprezzare come anche il tono di voce del dottor Lupi sia più sicuro rispetto a quell’incerto titubare che aveva esibito al momento della presentazione al cospetto degli altri commensali, C’era questo gatto che cercava di uscire di casa ed io che cercavo di impedirglielo, sta dicendo il dottore italiano, un sogno stranissimo, con lui alla ricerca di un varco tra le mie gambe e la parete ed io impegnato a cercare di chiuderglielo ogni volta, siamo andati avanti così per un po’, fino a quando l’ho costretto in un angolo, e quando lui si è reso conto di non avere più spazio si è lasciato prendere in braccio, sembrava tranquillo, ma appena l’ho stretto al petto mi ha graffiato, chissà che cosa vorrà dire, che significato può avere un sogno di questo tipo, Anch’io sogno, interviene allegramente Marcenda, sbucando alle spalle dei due e prendendo posto a tavola senza perdersi in saluti di maniera, sogno quasi tutte le sere però il mattino seguente non ricordo quasi mai i sogni che ho fatto, è un peccato. A questo punto ci permettiamo un breve inciso per avvertire il lettore che le parole di Marcenda non sono proprio veritiere, il fatto è che la ragazza portoghese più che non ricordare i sogni preferisce non raccontarli, almeno per quanto riguarda uno di essi. Ci riferiamo a quello fatto il giorno successivo alla morte della madre, quando sognò che dopo avere stretto un’infinità di mani a parenti e conoscenti che le porgevano le condoglianze, sentì che piano piano la mano perdeva la sensibilità, poi si faceva sempre più pesante sino a non riuscire più a sollevarla. Sarebbe stato un sogno strano o magari anche bizzarro ma niente più, se non fosse che il mattino seguente la manina della ragazza era davvero addormentata, priva di sensibilità, morta. E poco importa che si trattasse della sinistra invece che della destra.
Potremmo continuare la narrazione dando conto delle parole dell’ingegnere de Campos e di quelle in risposta del dottor Lupi, ma se ci limitassimo ad esporre come si sviluppa la conversazione ci sembrerebbe di tralasciare qualcosa, di attenerci fedelmente al nostro ruolo di testimoni dei fatti senza però descrivere la situazione nella maniera più completa. A volte il non detto ha la medesima importanza di quello che si dice, se non di più, e se è vero che le parole sono l’unico tramite che la nostra mente ha per esprimersi, è anche vero che a volte quello che succede nelle profondità del nostro animo, i sentimenti, le emozioni, i sogni e quant’altro, si esprime verbalmente solo in un secondo momento, quando cioè anche l’intelletto ha metabolizzato questo materiale ed ha ritenuto di poterne dare comunicazione all’esterno. Prima, quando il cervello o chi per lui non ha ancora messo ordine e dato il via libera alla voce, quello che si muove scompostamente nell’animo si manifesta attraverso segnali non verbali, che l’occhio esperto può riconoscere in certi movimenti quasi impercettibili delle spalle, nella leggera ma fastidiosa sudorazione delle mani e ancora nel giocherellare nervoso con le posate e in molte altre maniere che, ne siamo certi, il dottor Lupi non mancherà di farci conoscere. Sì, è del giovane dottore italiano che parliamo, per dire, se non fosse ancora sufficientemente chiaro, che nonostante la loro frequentazione sia così recente, o forse proprio per questo, la presenza della signorina Sampaio ha il potere di metterlo in imbarazzo più di quanto dicano le parole. E perché lei voleva impedire a quel povero gattino di uscire di casa, chiede l’ingegner de Campos con il tono di cortesia tipico di chi è poco o nulla interessato all’argomento ma visto che non si può sottrarre alla chiacchierata si diverte se non altro a mettere in difficoltà l’interlocutore, Credo che volessi proteggerlo, forse temevo che uscendo di casa potesse correre qualche pericolo, O piuttosto voleva impedirgli di fuggire, magari quello che cercava di fare in sogno era imprigionarlo e reprimere la sua naturale vocazione alla libertà, continua l’ingegnere compiaciuto per la facilità con la quale riesce a mettere in imbarazzo il giovane dottore. Non saprei, è la risposta di un dottor Lupi un po’ sorpreso da un affondo così diretto ed insieme preoccupato di che idea Marcenda può farsi di lui, certo, è possibile che la mia preoccupazione di proteggerlo fosse eccessiva, ma il punto è un altro, è il significato globale del sogno che mi sfugge. Ci perdoni il lettore se ci prendiamo la libertà di inserire una nuova digressione, ma visto che il nostro amico ci sembra un po’ in difficoltà vogliamo concedergli una pausa di riflessione, utile anche a spiegare come a volte sia sufficiente la presenza di una bella ragazza per trasformare quella che in apparenza doveva essere una innocente chiacchierata mattutina uguale a mille altre in una specie di partita a scacchi, se non altro questo è quello che succede nella testa del giovane dottore italiano che a dire il vero il meno giovane ingegnere portoghese non sembra per nulla interessato a giocarla questa partita. Il gatto è un simbolo di libertà, interviene Marcenda lasciandosi coinvolgere dal gioco, potrebbe rappresentare la sua parte più istintiva, quella meno razionale che cerca di emergere, di rendersi visibile, Vedo che anche lei concorda con il nostro giovane dottore, osserva l’ingegner de Campos, sul fatto che dietro ogni sogno ci debba sempre essere un significato, io in tutta franchezza devo confessare che per quanto affascinanti non condivido le vostre supposizioni, Veramente questa non è una mia teoria, il fatto che i sogni siano il nostro inconscio è il dottor Freud a dirlo, si difende il dottor Lupi rinfrancato dall’aver trovato una citazione dotta con cui fare argine alle argomentazioni dell’ingegner de Campos, e se noi riusciamo a leggerli scopriamo un po’ più di noi stessi, Mah, questo è tutto da vedere, per me i sogni sono sogni e basta, capisco la voglia di sapere di più, di trascendere, che è tipica dell’animo umano, ma credo che questa trovata dell’interpretazione dei sogni si regga su un errore logico, Cosa vuol dire esattamente, domanda il dottor Lupi, Voglio dire che anche assumendo per vero che il sogno appartiene all’inconscio, a qualcosa che risiede nelle profondità del nostro spirito, non comprendo perché mai si cerchi di darne spiegazione usando strumenti come la logica, il ragionamento, che mi risultano essere propri della coscienza, Ma perché quelli sono gli unici strumenti che abbiamo a disposizione, non ce ne sono dati di diversi, risponde il giovane dottore, che a questo punto della partita firmerebbe immediatamente per una patta, Il mio pensiero è che l’interpretazione dei sogni e questa psicoanalisi alla quale lei mi pare così interessato non siano altro che uno dei tanti modi che l’uomo mette in atto nel suo folle tentativo di arrivare a comprendere l’assoluto, di travalicare i suoi limiti e spingersi oltre il mondo fisico, c’è chi adopera per questo scopo la religione, chi la scienza, che si spinge sino ad utilizzare l’alchimia, figuriamoci se mi scandalizza il fatto che ci sia qualcuno che inventa nuove maniere, per parte mia non posso altro che dire, prego, si accomodi, c’è ancora tanto posto, l’unica cosa che chiedo è che mi sia permesso dissentire e guardare a tutti questi tentativi con spirito scettico, E la poesia allora, dice il giovane dottore con l’espressione di quello che crede di aver trovato la battuta arguta in grado di farlo uscire dall’angolo nel quale l’aveva confinato l’eloquenza del suo interlocutore, anche la poesia, anche la sua poesia, non è forse un modo di trascendere, un tentativo di andare oltre, Non vorrei deluderla ancora, replica con un sorrisetto l’ingegnere, mi creda che apprezzo sinceramente la tenacia e la passione con le quali espone le sue idee e non trovo nessun divertimento nel raffreddare tanto entusiasmo, ma innanzitutto devo rammentarle che come ho gia avuto modo di dire alla cena di ieri sera la poesia è per me un verbo che ormai si coniuga solo al passato, quanto poi all’averla utilizzata per esplorare un oltre oscuro, devo confessare che se è successo io non me ne sono mai accorto, dato che più che guardare fuori con i miei versi ho sempre cercato di guardare dentro di me, di esplorare il mio animo, che come vede è qualcosa di un po’ diverso da quello che lei immaginava, Eppure, ribatte il dottor Lupi, perdoni la mia insistenza, lei è il poeta dell’Ode Marittima, quello che scriveva di voler esplorare tutto, di voler partire alla ventura, andare verso Lontano, verso Fuori, verso la Distanza astratta, Ha detto bene, mio giovane amico, scrivevo. Ma scrivevo anche altre cose e visto che lei ha appena citato un mio passo mi permetta di risponderle con altri versi di tutt’altro tenore, Come ho potuto pensare, sognare quelle cose? Quanto sono lontano da quel che sono stato poco fa! Isterismo delle sensazioni, da queste, ora le contrarie! Come vede se ci mettiamo a fare le pulci alle mie liriche verrà fuori un guazzabuglio tale dal quale non se ne esce, e badi bene che io per primo ammetto di non essere stato un campione di coerenza, ma sinceramente non me ne curo, che non è mai stata questa la mia prima preoccupazione, d’altra parte la conclusione alla quale sono approdato dopo tanto indagare è che nessuno, mi creda, sa ciò che veramente sente, e se che quello che dico le può apparire disarmante me ne dispiace, ma questo è il mio pensiero, in fondo la poesia è stata per me solo un modo di esprimere emozioni, un modo di cantare senza musica, come mi rimproverava il mio amico Ricardo Reis, lui che nelle sue liriche era invece al servizio dell’Idea. Difficile replicare ad una arringa come quella dell’ingegner de Campos che quanto ad abilità oratoria si posiziona parecchie spanne al di sopra del giovane dottore italiano, forse se fosse presente il signor Jimenez la conversazione potrebbe arricchirsi di un contributo importante e prendere nuova linfa, ma come si dice in questi casi con i se e con i ma non si fa la storia e visto che il poeta di Moguer non è della partita è esercizio perfettamente inutile immaginare scenari inesistenti. Se volessimo riassumere la discussione riprendendo l’esempio del gioco degli scacchi, potremmo dire che all’inizio l’incauto medico italiano si era cullato un po’ troppo nell’illusione di portare a casa una facile vittoria, così che il sopraggiungere delle prime difficoltà unito anche all’intervento di fattori estranei al gioco lo ha colto impreparato lasciando intravedere crepe vistose nel suo gioco da farlo ripiegare verso una precipitosa quanto infruttuosa difesa e proprio quando stava per proporre al suo avversario una patta magari non esaltante ma perlomeno onorevole, si è trovato servito sotto il naso uno scacco matto da non lasciare dubbi sui valori dei due giocatori in campo.
Mentre divagavamo un po’ con la fantasia, l’ingegner de Campos ha approfittato della pausa di silenzio del dottor Lupi, ancora impegnato ad arrampicarsi sugli specchi alla ricerca della mossa che non esiste, che quella che può salvare da uno scacco matto devono ancora inventarla, si è alzato, ha inforcato il monocolo ed ha salutato la compagnia augurando ai due giovani una buona giornata, dicendo che sarebbe andato a fare quattro chiacchiere con gli ufficiali di macchina dell’Highland Monarch. L’idea di rimanere solo con la signorina Sampaio è l’ultima cosa che il dottor Lupi vorrebbe in questo momento, la sua timidezza cronica associata alla consapevolezza di essere uscito con le ossa rotte dalla discussione con l’ingegner de Campos gli consiglierebbero di tagliare la corda prima possibile, ma purtroppo per lui, o per fortuna, ma questo sarà solo il resto della storia a dirlo, la ragazza portoghese dal collo lungo e sottile lo anticipa, tenendolo incollato ad una sedia che sembra bruciare sotto le sue terga con una domanda solo in apparenza banale, Ho visto che poco fa lei ha citato un passo di un’opera dell’ingegner de Campos e mi chiedevo se conoscesse anche qualcosa di quel sua amico, il dottor Reis, al quale accennava anche ieri sera a cena, Sì, qualcosa ho letto, risponde il giovane dottore, cercando di apparire disinvolto, ma in realtà vittima della sua solita ansia che gli fa immaginare troppi scenari contemporaneamente. In questo momento il dottor Lupi sta pensando che sarebbe meglio non essere mai salito su questa nave così da non trovarsi in una situazione così imbarazzante e nello stesso tempo pensa anche tutt’altro e prova nei confronti di Marcenda un qualcosa che per il momento è a metà tra la curiosità e l’interesse e lo spinge a cercare di offrire la miglior immagine possibile di sé, ma la sua mente è una vera e propria fucina per cui non si limita a questi due pensieri ma è pronta a forgiarne altri ancora, come quello di immaginarsi seduto al tavolo a fianco per potersi osservare e capire come sta comportandosi, e ci fermiamo qui che se continuassimo ad andare dietro ai sogni ed ai fantasmi del dottore italiano saremmo costretti a dedicargli un intero capitolo. Povera gioventù, ci viene da dire, vedendo quanto si senta a disagio il giovane Lorenzo e quanto poco motivato sia questo disagio, dato che noi sappiamo che, nonostante i suoi timori, per la ragazza portoghese non c’è stata nessuna partita di scacchi, nessuno ha vinto e nessuno ha perso ed anzi Marcenda ha apprezzato le argomentazioni del giovane italiano più di quanto lui possa supporre. Se fosse sempre così facile, se si potesse fare in modo da sgombrare dubbi e preoccupazioni immotivate permettendo a tutti di leggere nei cuori e nelle menti degli altri, ci viene facile pensare, ma ci fermiamo qui, la nostra è solo una battuta, nessuno ci prenda sul serio che neppure noi crediamo a quello che abbiamo appena detto, dato che i primi a non saper interpretare i nostri pensieri siamo noi stessi, noi che un secondo dopo esserci convinti di aver finalmente capito cosa vogliamo siamo già pronti a tradire la nostra stessa volontà con comportamenti che mai avremmo immaginato di poter mettere in atto. Credo che ci sia qualche libro del dottor Reis anche in biblioteca, aggiunge il dottor Lupi, per completare la risposta alla domanda di Marcenda, Mi piacerebbe leggere le sue poesie, ma ancora non mi oriento bene su questa nave ed ho paura di perdermi, se non ha altri impegni le spiacerebbe accompagnarmi, dice la signorina dal collo lungo e sottile con un tono così dolce ed un’aria così fragile che nessuno potrebbe dirle di no, tanto meno il nostro amico italiano. Al lettore puntiglioso che vorrà osservare come poco fa abbiamo dato conto di una breve descrizione della nave dalla quale si capisce come la biblioteca sia proprio sullo stesso ponte sul quale è situata la sala da pranzo e che probabilmente Marcenda vi deve anche essere passata davanti più di una volta, risponderemo che la sua malizia è fuori luogo dato che la biblioteca è più in fondo, dopo il bar e la sala delle feste, in un angolino poco visibile ai più, e che anche se vi sono parecchie indicazioni su come raggiungerla, forse la ragazza portoghese non vi ha fatto caso, o forse sì, ma questo non deve scandalizzare nessuno che ci sembra del tutto normale che Marcenda abbia piacere di passare un po’ di tempo in compagnia di qualcuno della sua età, che lasciare la propria terra per intraprendere un viaggio per nave di due settimane verso le Americhe senza avere nessuno con cui parlare non è certo divertente, soprattutto se si è una ragazza di soli venticinque anni. E’ strano, dice il dottor Lupi, cercando di imbastire una qualche conversazione per vincere l’imbarazzo, parlando con l’ingegner de Campos si ha l’impressione che sia molto diverso dall’autore delle poesie, Non saprei cosa dire, dice Marcenda, io non conosco le sue opere ma da quel poco che ho potuto osservare questa mattina mi sembra una persona indecifrabile, che non vuole lasciarsi capire, magari è timido, Timido l’ingegner de Campos risponde l’italiano, non credo proprio, forse oscuro, al limite scontroso, ma non timido, Probabilmente si comporta in questa maniera perché non vuole darci confidenza, non ci considera al suo livello, o forse ha bisogno di tempo per conoscerci meglio.
Questo breve scambio di battute è servito se non altro ad accompagnare i due giovani fin sulla soglia della biblioteca, varcata la quale scorgono i coniugi Jimenez. Tanto per cambiare anche questo incontro riesce a mettere a disagio il dottor Lupi, come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa di disdicevole, come se accompagnare una coetanea in biblioteca dovesse presupporre chissà che cosa, in realtà se solo riuscisse dominare un po’ la tensione si accorgerebbe di come il poeta di Moguer e la sua signora si mostrano cordiali e ben lieti di scambiare due parole con i due giovani, e distanti mille miglia dal fare pensieri di qualsiasi genere, Che bella sorpresa, dice la signora Zenobia accogliendoli con un sorriso sincero, fa piacere vedere che anche le nuove generazioni non disdegnano il piacere della lettura, e ditemi, se non sono indiscreta, a che libri stavate pensando, Questa mattina abbiamo fatto colazione con l’ingegner de Campos, spiega Marcenda, e di nuovo è tornato fuori il nome del dottor Reis, proprio come alla cena di ieri sera, così mi è venuta la curiosità di conoscere qualcuna delle sue poesie e il dottor Lupi è stato così gentile ad accompagnarmi qui in biblioteca, Bene, dice Ramon Jimenez rivolto al dottore italiano, e cosa dice il nostro amico portoghese, Niente di particolare, risponde un po’ sulla difensiva il giovane, si parlava di sogni, Sì, interviene Marcenda intuendo che il pensiero del suo giovane accompagnatore necessita di qualche chiarimento, il dottor Lupi ha raccontato un suo sogno e mentre noi cercavamo la chiave per poterlo interpretare l’ingegner de Campos sosteneva che i sogni sono sogni e basta, senza nessun rapporto con la realtà, Bell’argomento, osserva Jimenez, i sogni sono stati da sempre argomento capace di scatenare fiumi di discussioni, E’ vero, interviene sua moglie, già gli Egizi sostenevano che dai sogni si può interpretare la realtà, Per non parlare dei Greci, aggiunge Jimenez, credo che la più grande autorità in materia sia stata un tale Artemidoro di Daldi che deve aver esaminato qualcosa come cinquemila sogni tentando un’interpretazione per ognuno di essi, a me piace immaginare che siamo come un cocchio trainato da cavalli che rappresentano l’immaginazione, il cocchiere è la razionalità che ha il compito di tenere le briglia ben salde per impedire che la fantasia vada dove vuole, alla notte, quando il cocchiere dorme, i cavalli però sono liberi di correre dove vogliono, di portare a correre la carrozza nei sentieri del sogno, Temo che la tua interpretazione non abbia nulla di scientifico, osserva sorridendo Zenobia, Lo so bene, dice Ramon Jimenez ricambiando il sorriso, non ho questa pretesa e se devo dire la verità non mi stupisce neppure che l’ingegner de Campos abbia liquidato questo argomento così stimolante con una battuta, è abbastanza tipico del personaggio. Come si dice in questi casi, ognuno misura le cose con il suo metro, e se poco fa il dottor Lupi notava più di una incongruenza tra l’Alvaro de Campos scrittore e l’Alvaro de Campos uomo, di colpo queste incongruenze spariscono nella valutazione di Ramon Jimenez, probabilmente perché il poeta di Moguer conosce il collega portoghese e la sua opera meglio del dottore italiano, in parte anche perché ognuno di noi è portato a vedere e giudicare l’altro attraverso la lente deformante dei suoi occhi che non gli permette di conoscerlo fino in fondo per come è realmente ma solamente per l’opinione che di lui si è fatto. A questo punto il dottor Lupi ritiene di aver esaurito il suo compito, in fondo la ragazza portoghese è stata accompagnata in biblioteca come aveva chiesto e l’incontro con i coniugi Jimenez può anche essere considerato un colpo di fortuna dato che lasciarla lì da sola avrebbe potuto essere considerato scortese, problema che ora non si pone più, ragion per cui ne può approfittare per accomiatarsi con qualche frase di rito, dando appuntamento agli altri per il pranzo ma in realtà non vedendo l’ora di essere solo per ripensare con calma a tutto quello che è successo in questa mattinata.
Anche noi ci fermiamo qui, non ritenendo necessario raccontare per filo e per segno gli avvenimenti successivi all’uscita di scena nel giovane italiano, ci limiteremo solamente a dire come nel corso della mattinata trascorsa in biblioteca Marcenda è rimasta colpita non tanto dalla lettura delle liriche di Ricardo Reis quanto da un nome di donna che in esse ricorreva con una certa frequenza. Lidia è questo nome, che alla ragazza dal collo lungo e sottile ricorda un’altra Lidia, una cameriera del Bragança, l’albergo di Lisbona dove aveva conosciuto il dottor Reis. Marcenda si sorprende ad immaginare che per qualche motivo quelle Odi potessero essere dedicate proprio a lei, che razza di pensiero, dedicare delle poesie ad una cameriera, impossibile, sicuramente erano state scritte prima che la conoscesse, eppure. Eppure non è convinta, questo pensiero è un tarlo fastidioso che continua a ronzare nella sua testa ed ogni volta che prova a scacciarlo torna a bussare più forte, sarà quello che chiamano intuito femminile, quel non so che che rende le donne un po’ streghe, eppure Marcenda avverte che tra il dottor Reis e quella Lidia del Bragança deve essere successo qualcosa e prova uno strano sentimento, molto vicino alla gelosia. 

lunedì 17 marzo 2014

un giorno e non finì la frase. Capitolo quarto


Capitolo quarto.

Dove si riferisce di un giro notturno a curiosare nelle cabine di alcuni dei passeggeri imbarcati sul vapore delle Regie Linee

Se sono stati necessari tre capitoli per raccontare poche ore di viaggio, è un dubbio legittimo del lettore domandare con qualche apprensione quante pagine dovrà attendere prima che l’Higland Monarch raggiunga il Nuovo Mondo. Il bravo cronista risponderebbe, con un semplice calcolo aritmetico, che siccome non è trascorsa ancora una giornata dacché abbiamo lasciato il porto di Alçantara mancano due settimane esatte all’approdo di Pernambuco, il primo dei porti che il vapore toccherà in terra americana, e visto che il tempo non è una misura di grandezza opinabile sarà facile calcolare che questa storia si comporrà di almeno altri quarantadue capitoli, vale a dire tre capitoli per ognuno dei quattordici giorni di navigazione previsti, a meno che non saltino fuori imprevisti o colpi di scena a mandare a carte e quarantotto il nostro conto. Osserveremo qui che in realtà non è proprio così, e che a voler essere capziosi questa cosa del tempo come misura che non può essere messa in discussione non ci convince tanto. E’ d’uso comune, infatti, parlare di percezione del tempo per dire che ci sono momenti che per qualcuno sembrano volare via in un attimo e per qualcun altro sembrano non passare mai e questo a prescindere dal fatto che, orologio alla mano, abbiano una durata misurabile in maniera obiettiva. A rafforzare la nostra tesi diremo poi che i tempi di un racconto non sono i tempi della vita, e le situazioni che incontreremo di qui in avanti meriteranno più o meno righe di descrizione non in base al tempo misurato con il metro dell’orologio ma in base a quello che la nostra fantasia deciderà di volta in volta di concedere loro. A chi ci accuserà di personalismo risponderemo che non esiste democrazia che tenga in questi casi, e che visto che abbiamo inventato il gioco ci riteniamo liberi di dettarne anche le regole, decidendo che giudice unico della partita sarà l’istinto, l’immaginazione, il pensiero, chiamatelo pure come volete che sono solo belle parole dietro alle quali si nasconde il nostro arbitrio. Non tema il lettore che questa premessa, forse un po’ grossolana nei modi, possa ritorcersi contro di lui e sappia fin da ora che se abbiamo introdotto questo ragionamento sulla relatività del tempo è stato solo per assecondare il più possibile le sue esigenze, così che quando durante il viaggio dell’Highland Monarch ci imbatteremo in giorni di cosiddetta calma piatta, dove non succederà nulla e non ci sarà nulla da raccontare, per non tediarlo più del lecito promettiamo di evitare pesanti digressioni e di saltare a piè pari al giorno successivo.
I passeggeri che avevamo lasciato seduti a tavola sono ormai tutti nelle loro cabine, alle prese, chi più chi meno, con il sonno che tarda ad arrivare. Niente di preoccupante, sia chiaro, perché per qualcuno questa è la prima notte sul vapore per le Americhe, e per qualcun altro la chiacchierata della cena ha avuto l’effetto di risvegliare più di un pensiero. A ben guardare però uno che sta già dormendo c’è, ed è il giovane dottore italiano. Probabilmente per lui questa è stata una giornata piuttosto faticosa, così che ha fatto appena in tempo a togliersi i vestiti ed è già piombato in un sonno profondo, talmente profondo che dopo che il benevolo dio alato Ipno ha esaurito il suo compito, anche suo figlio Morfeo ha pensato bene di passare a salutare Lorenzo ed a sfiorare il mazzo di papaveri sulle sue palpebre. In altre parole, il giovane dottore sta sognando e noi non ci lasceremo certo sfuggire un’occasione così ghiotta di andare a curiosare nel suo sogno. Giusto un’occhiata fugace, niente di più, sperando che il nostro amico non se ne abbia a male, in fondo ci impegniamo qui a riferire solo quello che vedremo senza avventurarci in spiegazioni più o meno audaci, che sappiamo bene come l’interpretazione dei sogni sia pratica che non ci compete e che lasciamo volentieri al dottor Freud ed ai suoi allievi. Eccolo allora questo sogno, è una cena di gala a bordo di un transatlantico la scena che leggiamo al di sotto delle palpebre chiuse del giovane dottore, sogno molto poco originale ci viene da dire, che a quanto pare la prima cena sull’Highland Monarch non è passata nell’indifferenza e qualche segno deve averlo lasciato nella mente del nostro amico, ma a ben vedere quella che sta sognando lui è una cena un po’ diversa da quella alla quale ha partecipato nella realtà, dove a capo tavola di una mensa imbandita siede il comandante della nave in tenuta di gala, comandante che dopo essersi alzato in piedi per dare solennità al momento, introduce con poche parole di rito l’ospite alla sua destra, presentandolo come famoso poeta ed invitandolo a fare un brindisi benaugurale. E’ proprio il giovane dottore, sorpresa delle sorprese, l’ospite in questione e, fatto ancor più inaspettato, sembra tutt’altro che in imbarazzo per essere stato chiamato a recitare da protagonista al cospetto di un così vasto proscenio, anzi, ci pare perfettamente a proprio agio mentre ricambia il sorriso del comandante e si alza a sua volta in piedi, levando il calice e pronunciando non già due parole striminzite con voce malferma, come aveva fatto durante la cena appena conclusa, ma una e vera propria orazione degna del miglior retore, che strappa gli applausi convinti dei commensali. Niente male per uno che solo poche ore fa avrebbe dato tutto quello che possedeva pur di trasformarsi nell’uomo invisibile, niente male davvero e converrete che ce ne sarebbe di materiale per dire tante altre cose, ma visto che ogni promessa è debito ce ne asterremo, limitandoci ad osservare che in fondo non c’è mica da vergognarsi a sognare di essere famosi e può darsi che la lettura delle Elegie Duinesi, il libro che sta sul comodino accanto al letto, abbia giocato qualche ruolo nella genesi di questo strano sogno. Immaginiamo che il giovane dottore si sia addormentato con la settima elegia tra le mani, magari leggendo come ultime parole prima di cadere addormentato proprio quelle quella della settima elegia, dove Rilke scrive che in nessun dove sarà mondo se non intimamente, e questa frase potrebbe poi aver lavorato negli anfratti più bui della coscienza di Lorenzo mescolandosi con chissà quali e quanti altri pensieri, contribuendo a dare origine ad un sogno tanto particolare. Ma basta così, meglio smetterla con le supposizioni e chiuderla qui, dicendo che probabilmente lo strano sogno del nostro amico è dovuto a qualche ragione meno aulica, come ad esempio il fatto che potrebbe non essere abituato alla cucina portoghese e di conseguenza potrebbe aver trovato qualche pietanza di difficile digestione. E se la nostra spiegazione non risultasse convincente e qualcuno volesse a tutti i costi sottolineare l’incongruenza fra i comportamenti tenuti dal giovane dottore nella vita reale e quelli nel sogno, gli ricorderemo che è bene non insistere troppo, che se ci mettessimo a fare le pulci ai suoi sogni troveremmo qualcosa di strano anche lì, e non per sua colpa, che è cosa nota a molti come quel dio Morfeo che abbiamo appena nominato non viaggiasse da solo alla notte ma si accompagnasse ad una cerchia di folletti che rappresentavano le illusioni, folletti alla cui azione la mitologia classica attribuiva la paternità delle bizzarrie che a volte compaiono nei sogni e che non è possibile spiegare in altra maniera. Questo per dire che il giovane dottore è vittima inconsapevole delle visioni che gli si presentano durante il sonno, che certo non possiamo pretendere che sia in grado di controllarne la coerenza, ma la medesima scusante non può essere accampata per altri che questa sera hanno seduto al suo stesso tavolo, altri che nella solitudine delle loro cabine si stanno comportando in maniera ben diversa da quanto avevano dichiarato a cena, ma che a differenza di Lorenzo sono ben svegli. Jusep Campalans, il pittore catalano, ad esempio, aveva detto con tono perentorio, lo abbiamo sentito con le nostre orecchie, di aver rinunciato da tempo all’arte del dipingere per dedicarsi esclusivamente all’agricoltura, ed ora lo ritroviamo seduto su una sedia, mezzo vestito e mezzo spogliato, che abbozza qualche figura con un carboncino su un album da disegno. Riconosciamo uno schizzo con i tratti di Zenobia Camprubì Aymar, che abbiamo conosciuto come signora Jimenez e un altro, quello al quale è intento in questo momento, che cerca di rappresentare le fattezze della ragazza dal collo lungo e sottile. E se è possibile cercare di giustificare l’incongruenza tra le parole che Campalans ha pronunciato durante la cena ed i comportamenti di adesso, dicendo che non è sufficiente l’abbozzare due figure su un quadernetto per essere considerati pittori di mestiere, più difficile è trovare una spiegazione che regga per quelle scatole di colori ad olio, tempere e pennelli che sono sparse sul letto e per i pacchi di fogli e taccuini che spuntano da una borsa, non proprio l’armamentario, ci sia consentito, di chi ha scelto di fare il contadino. Acqua che non devi bere lasciala correre, dicono gli spagnoli, ma visto che ormai di quest’acqua noi abbiamo cominciato a berne, tanto vale continuare ancora un po’ e proseguire nel nostro giro della buonanotte per le cabine dell’Higland Monarch alla ricerca di altri altarini da scoprire. E’ il turno ora di Alvaro de Campos che, ancora vestito di tutto punto, siede al tavolino della sua cabina leggendo una raccolta di poesie dell’amico Sà Carneiro, fumando l’ennesima sigaretta. Niente di male, ci mancherebbe altro che non si fosse liberi leggere qualche poesia, il fatto è che quella che sta leggendo lui non è una poesia qualsiasi, ma un eccentrico componimento che all’uscita sul primo numero di Orpheu aveva scatenato critiche a non finire. Sono versi che l’ingegnere navale conosce bene e che per qualche ragione che forse sa solo lui ha sentito il bisogno di tornare a leggere, versi che parlano di zone intermedie e di sogni che sviano per il deserto e che si chiudono con l’immagine di un braccio che cade e se ne va a danzare in abito da sera nei saloni del vicerè. Versi che non sappiamo quale significato possano avere per Alvaro de Campos, ma che a noi fanno pensare al sogno del giovane dottore ed alla povera mano di Marcenda. Ma non è tanto la lettura di una poesia quello che ci preme in questo momento, quanto quello che accade dopo che l’ingegner de Campos ha chiuso il libro. Si versa un bicchiere di aguardiente, da un’ultima tirata alla sigaretta prima di spegnerla, fissa per un attimo il soffitto e poi si china a scrivere su un pezzo di carta, e sembra proprio che siano versi di una poesia quelli che escono dalla sua penna, ma qui ci fermiamo, che non saremo così indiscreti da metterci a leggerli, un po’ di curiosità è lecita, ma c’è pur sempre una soglia di intimità che è giusto rispettare. Aggiungeremo solo che dopo aver riempito con grafia minuta il piccolo foglio, Alvaro de Campos lo rilegge due o tre volte, apporta qualche correzione di poco conto, poi lo arrotola con cura e lo infila dentro una bottiglietta che ha preso dal cassetto, stringe con forza il tappo per chiuderla ermeticamente, quindi infila in una tasca interna della giacca il piccolo contenitore con il suo prezioso contenuto e se ne esce dalla cabina. Strano, ricordiamo bene quando parlando con il poeta Ramon Jimenez aveva detto di non aver più scritto una sola riga dal giorno della morte di Pessoa, e ricordiamo anche la discussione sul piacere di rendersi invisibile che le sue parole sulla scelta di non esister più come scrittore avevano innescato. Sarebbe fin troppo facile montare in cattedra a fare i fustigatori dei comportamenti altrui ed osservare come il modo di agire di Alvaro de Campos si avvicini a quello di Jusep Torres Campalans, e come tutti e due non possano certo essere proposti come modelli di coerenza, ma il fatto è che ci sono simpatici e che per indole siamo propensi più a giustificare le debolezze umane che a denunciarle. In fondo ad essere debole non è solo la natura del pittore catalano o quella dell’ingegnere portoghese, ma quella di tutti gli uomini e come meglio si vivrebbe se trovassimo la forza di ammettere che la volontà è più fragile di quanto ci piacerebbe che fosse, se solo ci decidessimo a prendere atto che tutta quella processione di proverbi e modi di dire, che va dal semplice volere è potere al più articolato a buona volontà non manca facoltà, sino al perentorio la volontà è tutto, è una maschera che indossiamo per coprire le nostre insicurezze, un lenzuolo con il quale ci proteggiamo alla bell’e meglio per nascondere che il re è nudo, un po’ come il cane quando abbaia e mostra i denti per non far vedere che ha paura. E se avessimo voglia di giocare a fare i sofisti potremmo anche dire che non c’è neppure tanta contraddizione tra le parole che Campos e Campalans hanno pronunciato a cena ed i comportamenti che tengono nel segreto delle loro cabine, in fondo quegli schizzi su un taccuino e quei versi su un pezzo di carta non li vedrà mai nessuno, quindi in realtà è come se non dipingessero e scrivessero affatto, dato che, come si usa dire in questi casi, uno spettacolo senza pubblico è come se non fosse mai avvenuto. Al nostro giro notturno per curiosare tra le abitudini notturne dei partecipanti alla cena di questa sera, mancano ancora un paio di cabine, la più vicina delle quali è quella occupata dal dottor Jimenez e da sua moglie Zenobia, ci perdoni quindi la signorina Sampaio se la lasciamo per ultima, che a qualcuno deve pur toccare il compito di chiudere questa carrellata, non dubiti però che non ci dimenticheremo di lei e che fra breve saremo pronti a riferire anche di quello che sta facendo o sta pensando la ragazza dal collo lungo e sottile. Per adesso concentriamoci sui coniugi Jimenez, certi che nella loro cabina non ci saranno strane sorprese ad attenderci, considerata la stima incondizionata che godono queste due persone negli ambienti culturali di mezza Europa. Come previsto li troviamo intenti nei preparativi per la notte, lei in bagno alle prese con quel guazzabuglio di balsami, creme, pomate e quant’altro che fanno delle donne della nostra epoca l’equivalente degli alchimisti medioevali, e lui davanti all’armadio, mentre ripone nei cassetti le ultime camicie che ha tolto dalla valigia, i due discutono ad alta voce del piacere di essere considerati invisibili, argomento che evidentemente non è stato ancora del tutto digerito dalla fine della cena ad ora. Davvero non credevo che esistesse un Alvaro de Campos in carne ed ossa, dice lui, Mi da l’idea del tipo eccentrico, gli fa eco lei, quando parla sembra uno che butta lì le cose per il puro piacere di provocare, come se fosse un amante del paradosso, Non avevo mai sentito prima d’ora di uno scrittore che non cercasse di rendersi visibile, di far conoscere quello che scrive, E quel sorriso stirato, quasi un ghigno, quell’atteggiamento da snob, come se tutto gli fosse indifferente, Chissà cosa nasconde dietro quella maschera, se poi è una maschera quella che indossa, Magari non lo è, può darsi che sia proprio uno di quegli snob annoiati da tutto e da tutti, che non trovano più niente che li interessi. Con questi ed altri discorsi simili i due sono ormai a letto, e dopo aver terminato di chiacchierare dedicano i minuti che precedono lo spegnimento della luce alla lettura, riservando il momento di quando sarà buio per quello che seguirà, se ci sarà qualcosa che i due vorranno far seguire alle parole. E così Zenobia inforca un paio di occhiali ed apre il suo amato Tagore e Ramon Jimenez prende in mano un volumetto di poesie di Ruben Dario, ma se a lei sono sufficienti poche righe per lasciare la cabina e la nave e trovarsi per mano all’autore indiano ad esplorare un giardino fatto di spiritualità e buoni sentimenti, per il poeta di Moguer le cose non vanno di pari passo che questa sera non gli risulta tanto semplice tenere ferma la mente sulle pagine del libro, questa sera i suoi pensieri sembrano aver deciso di non lasciarsi portare per mano dove ha deciso la mente ma di provare a camminare con i propri passi in tutt’altra direzione. L’abbiamo già detto, quei discorsi sul piacere di non esistere agli occhi degli altri, tanto più se pronunciati da uno come l’ingegner de Campos che fino ad ora il dottor Jimenez credeva fosse un nome di fantasia inventato da Pessoa, devono ancora essere digeriti ed il tempo necessario per questo processo di assimilazione si annuncia abbastanza lungo. I pensieri di Ramon Jimenez, ci perdoni il poeta l’intrusione nel suo privato, ma non crediamo sia il caso di fare favoritismi proprio adesso e visto che poco fa ci siamo presi la libertà di leggere nei sogni di un dottore, non vediamo perché ora non dovremmo fare lo stesso sbirciando nella mente di un poeta, i pensieri di Ramon Jimenez dicevamo, sono rivolti ad una ragazza peruviana sua ammiratrice con la quale quasi trent’anni fa ha intrattenuto una corrispondenza epistolare. Un nome che emerge dal passato dopo un letargo che sembrava eterno, Georgina Hübner, una giovane saltata fuori dal nulla ed al nulla rientrata, Chissà dove sarà adesso, si chiede Jimenez, rammentando lo sconcerto con il quale aveva letto quelle righe scarne giunte dal Perù che ne comunicavano la morte improvvisa senza aggiungere particolari sulle circostanze della sua scomparsa e che avevano messo fine a due anni di lettere attraverso l’Atlantico, Chissà dove sarà adesso, si chiede rammentando lo sconcerto ancora maggiore con il quale aveva appreso nei mesi successivi le altre notizie, quelle che dapprima avevano messo in dubbio l’esistenza stessa di Georgina, fino a quelle voci insistenti che dicevano che tutta la storia fosse stata una specie di tragico scherzo, se non di truffa ai suoi danni e che sembravano proprio aver trovato più di una conferma. Con il tempo anche lui aveva accettato il fatto che quella Georgina Hubner a cui aveva dedicato anche alcuni versi fosse in realtà un personaggio di fantasia, inesistente, ma adesso non ne è più tanto sicuro, adesso i suoi pensieri hanno voglia di cancellare tutti i fatti e le informazioni raccolte su questa vicenda per essere liberi di correre dietro al fantasma della ragazza peruviana, adesso è notte, il momento migliore per i sogni, ed i sogni non hanno bisogno di confrontarsi con prove documentali per costruire le loro architetture. Ma lasciamo Ramon Jimenez alle sue fantasie per occuparci di altro, è arrivato il momento della signorina Sampaio, dulcis in fundo, come dicevano i latini, e con questa galanteria ci scusiamo con lei per averla trascurata sino ad ora, ma attenzione però, che la nostra galanteria finisce qui, che il rispetto per il genti sesso non ci esenterà dal riservarle lo stesso trattamento di chi l’ha preceduta e dal riferire al lettore quello che succede nella sua cabina. Eccola allora, la ragazza da collo lungo e sottile, che a tavola sembrava così preoccupata di non essere dimenticata e che ci teneva tanto ad essere considerata vera. Anche lei è a letto, ma sembra che in questo caso il dio Ipno, che con tanta facilità aveva chiuso le palpebre del giovane dottore, abbia il suo daffare per riuscire a farla addormentare. E’ la prima volta che Marcenda dorme su una nave e non è abituata al suo leggero basculamento, al brontolio del mare ed agli altri rumori di bordo, così diversi da quelli consueti, non è abituata all’idea di passere quindici giorni su un piroscafo in viaggio sull’Atlantico, non è abituata allo spazio angusto della cabina, e soprattutto non è abituata a stare sola. Non basta spegnere la luce per riuscire a dormire e neppure la stanchezza per una giornata così piena e faticosa è sufficiente per riuscire nell’intento, per far assopire una ragazza di venticinque anni ci vuole la tranquillità, tranquillità che è proprio quello che in questo momento manca a Marcenda. Si gira e rigira nel letto, in uno stato che non è più quello di veglia e non ancora quello di sonno, con una serie di immagini che si sovrappongono nella sua mente alla velocità di fotogrammi di un film. I commensali che hanno partecipato alla cena di questa sera, il dottor Jimenez con la moglie, il giovane dottore italiano e gli altri, il padre che la saluta sul molo di Alçantara e poi passa un braccio sulla spalla di Maria Madalena Simões, il dottor Ricardo Reis, i ricordi di Coimbra, la nave così alta sul pelo dell’acqua, il viso della madre, la folla dell’imbarco, l’imbarazzo del giovane dottore nel parlare, le cose da fare appena arrivata in Brasile, telegrafare a casa, contattare gli specialisti che le hanno indicato i dottori in Portogallo, la nonna mancata da poco, gli amici lasciati a casa e ancora il viso del giovane dottore.
E con Marcenda abbiamo terminato un tour notturno che magari non è stato molto rispettoso dell’intimità altrui ma che ci ha permesso di conoscere un po’ meglio le persone con le quali avremo a che fare per le prossime due settimane, un’ultima cosa ci rimane da dire e cioè che mentre tornavamo sul ponte di poppa, per lasciarci addormentare dal mare ascoltandolo cantare la sua canzone respirandone il salmastro, abbiamo incontrato l’ingegner de Campos che, sporgendosi dalla balaustra, lasciava cadere in acqua una bottiglietta. Mentre rientrava in cabina giureremmo di averlo sentito parlare a bassa voce come se stesse conversando con qualcuno, Fernando ci sembra che dicesse, ma questo non potremmo darlo per certo.