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sabato 8 aprile 2023

Il capolavoro sconosciuto – Honoré de Balzac



Il capolavoro sconosciuto – Honoré de Balzac
(trad. Carlo Montella)
Passigli editore 1990 – I ed. 1831

Ci sono libri la cui importanza trascende la volontà dell'autore; viaggiano attraverso il tempo come un fiume la cui portata aumenta man mano che scorre, fino ad uscire dall'alveo naturale per tracimare nei territori vicini e renderli più feritili. Questo potrebbe essere il caso de Il capolavoro sconosciuto, romanzo breve e dalla trama sottile solo in apparenza, perché in quella settantina scarsa di pagine è racchiusa una storia dalla profondità di un dialogo platonico, un diamante la cui luminosità è ancora in grado di colpire il lettore a quasi duecento anni di distanza.
L'incontro del giovane pittore Nicolas Poussin con il collega Porbus e il vecchio Frenhofer è un pretesto per discutere sullo scopo dell'arte: riprodurre la realtà o superarla nell'aspirazione a raggiungere una dimensione diversa, come si propone l'anziano maestro?
"La missione dell'arte non è copiare la natura, ma esprimerla!" dice Frenhofer a Porbus a proposito di un suo quadro che raffigura la Maria Egiziaca. "noi dobbiamo cogliere lo spirito, l'anima, l'immagine profonda degli oggetti e delle creature.". E ancora: "Una donna, voi la disegnata, ma non la vedete! Non è così che si arriva a violare l'arcano della natura. […] Voi fate alle vostre donne delle belle vesti di carne, dei bei drappeggi di capelli, ma dov'è il sangue che suscita la calma o la passione e che è causa di ogni effetto particolare? […] cosa manca? Un niente, ma quel niente è tutto: avete l'apparenza della vita, ma non esprimete la sua pienezza traboccante, quel qualcosa che forse è proprio l'anima e che fluttua nebulosamente sopra l'involucro."
Frenhofer, dunque, come unico depositario del segreto per accedere alla vera arte, ma il castello crollerà nel momento in cui mostrerà ai due amici il dipinto alla cui realizzazione ha dedicato anni, nel quale ha trasferito tutte le sue capacità e che dovrebbe elevarlo a un livello al quale nessuno è mai giunto. I due amici non vedranno nessuna grandezza in quel dipinto ma solo un'accozzaglia di colori e linee confuse e ciò spingerà il vecchio a riconsiderare la sua opera e il suo lavoro, precipitandolo in una spirale senza ritorno.
Tutto qui, eppure è proprio quando il romanzo finisce che comincia a vivere: difficile dire se Balzac fosse consapevole della portata dei temi che con il suo romanzo metteva in gioco, di certo Il capolavoro sconosciuto è un'opera senza tempo che continuerà a interrogarci con domande per le quali non esistono risposte assolute. L'arte non potrà mai superare la natura perché priva del suo slancio vitale? Frenhofer ha fallito davvero o sono stati Poussin e Porbus a non riconoscere la sua grandezza? Quale rapporto si crea tra l'opera d'arte e il pubblico che ne fruisce? Che collegamento c'è tra la realtà e la sua rappresentazione?

sabato 28 maggio 2022

Zona – Mathias Énard



«A volte ci sono istanti sospesi, tra due momenti, nell'aria, nell'eternità, una danza spalla contro spalla, il movimento di una mano, la scia di una barca, l'umanità alla ricerca della felicità, e poi tutto ricade, tutto ricade»

Un viaggio in treno tra Milano e Roma. L'ultimo viaggio di Francis Servain Mirković alias Yvan Deroy, un combattente e poi una spia e un trafficante che ha preso parte in maniera diretta o indiretta alle ultime guerre combattute nella zona compresa tra i Balcani e il Medioriente. La Zona: uno spazio geografico ma anche ideale, "la zona grigia, quelle delle ombre e dei manipolatori".
Un viaggio a ritroso tra le guerre che hanno insanguinato il Mediterraneo, dai tempi di Omero ai giorni nostri. Le guerre, la guerra. Tutte diverse e tutte uguali, con il loro carico di orrori e di inutilità. La guerra come destino, stigma, vizio del quale l'uomo non riesce a fare a meno.
Un racconto che è un lungo monologo, un viaggio nella memoria di un uomo figlio del suo tempo, che ha fatto quello che ha fatto spinto dalla sete di denaro, sesso, potere, "la santa Trinità del case officer".
L'inevitabilità sembra essere la cifra del romanzo, una descrizione di fatti, misfatti e bestialità ai quali il protagonista ha partecipato e per i quali non sembra provare particolare pentimento, al punto da commuoversi solo per le vicende del libro che sta leggendo, perfetta rappresentazione della liquidità di un'epoca in cui fiction e vita reale sembrano sfumare una nell'altra. "Mi inoltravo nella Zona senza passione ma senza disgusto, con una curiosità crescente per gli intrighi degli dèi irati" – dice Francis Mirković, come se il fatto di essere una pedina di un gioco che si ripete da sempre fosse sufficiente ad assolverlo dai suoi peccati, perché oggi come ieri – sembra dire Énard – siamo alla mercé dei capricci di Zeus, di Era e di Ares, perché ogni guerra è la guerra di Troia che si ripete.
Se la trama di Zona scorre per mano all'Iliade, lo stile è invece derivato direttamente da Sebald, con riferimenti e casualità (le "strizzatine d'occhio della storia", le definisce Énard), incroci che richiamano altri avvenimenti e costruiscono un percorso narrativo che mescola vicende accadute in tempi diversi.
Zona è una danza macabra, un girotondo intorno alla morte e all'inutilità per cui si muore, perché alla fine di ogni guerra arriverà sempre la ramazza del Tempo a cancellare il ricordi dei morti e i motivi per cui si sono sacrificati.

domenica 6 febbraio 2022

Il banchetto annuale della confraternita del becchini – Mathias Énard

Cerchi nell'acqua


Scrittura piana e scorrevole, registro colloquiale, trama sottile (un etnologo in trasferta nella campagna francese per una tesi di dottorato)… tutto farebbe pensare di trovarsi davanti a un romanzetto come mille altri, una storiellina che strizza l'occhio all'ecologismo e alla vita bucolica, l'ennesimo libretto che ci parla del "logorio della vita moderna" (cit. Cynar), magari condendo il tutto con una spruzzata di citazioni colte che di questi tempi non fa mai male.
Errore: queste considerazioni posso essere applicate al massimo al primo capitolo del libro, e rappresentano la superficie, la strategia adottata da Énard per attirare il lettore nella sua ragnatela. Quel primo capitolo, e le storie che abbozza, sono solo il sasso che cade nell'acqua e cadendo crea una serie di cerchi concentrici che si dilatandosi finiscono per portare la trama in mille direzioni diverse, soprattutto temporali.
D'altra parte lo scrittore ci aveva già avvertito nell'esergo: qui si parlerà di vite che si rincorrono nella ruota del tempo, di morte intesa come passaggio dell'anima da un corpo all'altro, da un'epoca all'altra, in modo da far diventare – miracolo della scrittura – il Marais Poitevin, una piccola zona nel sud della Vandea, il centro di un mondo immaginifico.
I cerchi si allargano e le acque si increspano: la scrittura prende a scorrere in maniera impetuosa a da lieve si fa rabelaisiana, la trama diventa un fiume in piena che si ramifica in mille rivi: sono i racconti dei componenti della confraternita dei becchini che si succedono con un procedimento simile alle novelle delle Mille e una notte. La scrittura si impenna e noi siamo costretti a rincorrere Énard che si infila lesto in un vagabondaggio letterario che non può non far pensare a Sebald: Gargantua e Lucrezio, Clodoveo e Alarico, Enrico di Navarra e Severino Boezio diventano non più i protagonisti della Storia ma gli interpreti di piccole storie che interessano la regione della Francia al centro del racconto.

Occhio lettore a Mathias Énard, è un nome da tenere d'occhio perché una delle direzioni della narrativa contemporanea passa da qui.

domenica 5 agosto 2018

Antoine Volodine – Gli animali che amiamo




Non sei tu, sono io…

Sbaglierò, sicuramente sono io a non aver compreso il valore dell’opera, il suo intento, il disegno che c’è dietro e le intenzioni dell’autore… ma questo libro proprio non mi è piaciuto.
Peccato perché la copertina è bella, il progetto grafico accattivante ma l’impressione è che alla fine il pacchetto sia migliore del contenuto, che Volodine sia rimasto prigioniero della sua creatura e che a forza di teorizzare sul post-esotismo si sia dimenticato per strada la trama o non l’abbia supportata a sufficienza.
Ma chi sono io per criticare l’autore di Angeli minori e di Terminus radioso, uno che è pubblicato da Gallimard e che ha vinto il Prix Médicis nel 2014? Nessuno, proprio nessuno. E allora, scusa tanto Volodine se non ho capito questo libro. Non sei tu, sono io.

domenica 10 giugno 2018

Mathias Énard – Bussola




 Gli orientali non hanno alcun senso dell’Oriente. Il senso dell’Oriente siamo noi occidentali ad averlo.”

Énard è considerato uno dei nomi più interessanti della narrativa contemporanea e con Bussola ha vinto il premio Goncourt nel 2015. Autore da leggere quindi, anche se di non facilissimo impatto.
In effetti ho impiegato oltre un centinaio di pagine per riuscire ad entrare in empatia con la sua scrittura, ma devo dire che nel mio caso la perseveranza è stata ripagata.
Non è certo l’intreccio a creare problemi, la trama di questo libro è quanto di più sottile si possa immaginare: Énard racconta le vicende di un amore che non decolla, quello di Franz, studioso austriaco di musica classica, per Sarah, un’orientalista francese, tutto qui. In realtà la trama è poco più di un pretesto per raccontare un’altra storia, quella dei rapporti tra oriente ed occidente negli ultimi duecento anni. Da Istambul a Theran, da Vienna a Damasco, passando anche per Palmira, Tubinga, Parigi, Bandar Abbas. Da Listz a Szymanowski, da Henri Rabaud a Wagner, a Schumann a Beethoven e Bizet. Ma anche da Kafka a Balzac, da Annemarie Schwarzenbach a Félicien David, da Marga D’Andurain a Edward Said, senza dimenticare Benn e Trakl, Alois Musil, Charles Mardus e Lucie Delarue-Mardus, Proust, Henry Levet, Rimbaud, Pessoa, Thomas Mann, German Nouveau, Nietsche, Goethe, Freud… per limitarci agli occidentali, perché mettersi a citare anche gli autori arabi sarebbe troppo lunga. Un bel po’ di luoghi, un bel po’ di artisti. Troppi? Probabilmente sì, eppure tanto sfoggio di erudizione non è sterile, perché se sulle prime spaventa, col procedere della storia si rivela interessante e mai fine a se stesso, rappresentando il tentativo dell’autore di far dialogare due mondi, di trovare una lingua comune, un terreno di incontro fra culture diverse, le cui diversità però risultano sfumate da mille contaminazioni e influenze reciproche, due mondi che finiscono per essere permeati da un “troppo” che ne ha eroso l’identità, quel vuoto che è ricerca, indagine, spazio da riempire.
Ma Bussola non è solo un libro su come Oriente e Occidente siano definizioni difficili da scindere e ridurre ad archetipi, sfrondandole dalle interpretazioni che ne sono state fatte, ma è anche un romanzo “aperto”, nel senso che non si limita a seguire una trama uniforme ma che apre la riflessione in direzioni diverse: il sentimento amoroso come viatico per “schiudere le difese del sé”, i collegamenti tra le cose, la malinconia per i sogni giovanili e soprattutto il ricordo, la memoria intesa come l’unico argine per resistere alla piena del tempo che cancella tutto.

sabato 22 luglio 2017

Antoine Volodine – Terminus radioso


Viaggio alla fine del mondo

L’umanità immaginata da Volodine in questo libro è abitata da morti che camminano, personaggi inconsapevoli della loro condizione che si aggirano straniati tra le macerie di quel che resta. Post-capitalisti, post-comunisti… post-vivi probabilmente o peggio, perché il dramma del personaggi di Terminus radioso nasce non solo dal fatto di essere morti, ma di essere morti che non riescono a morire completamente, uomini e donne che vivono nei sogni e negli incubi di altri e che neppure lì riescono ad essere liberi, simili per certi versi ai dannati dell’Inferno, condannati ad espiare all’infinito le loro colpe. Burattini, li definisce a un certo punto l’autore, chiamati a recitare a comando una parte. Simulacri che vagano come ubriachi per un mondo deserto, esseri senza regole e principi, con in tasca solo qualche vaga reminiscenza di ideali egualitari.
Nessuna redenzione né lieto fine: quelle di Terminus radioso sono pagine cupe, claustrofobiche, che a tratti riecheggiano l’eco della Strada McCarthiana. Il tempo sembra scorrere senza senso, la vita sembra scorrere senza senso. Gli ideali sono diventati illusioni e le illusioni rimpianti: tutto è perso e l’unica cosa che rimane sono i ricordi, quei ricordi ai quali Kronauer, il protagonista, cerca di attaccarsi disperatamente ma che altrettanto inesorabilmente sente scivolare via.
Quel che resta sono manciate di sentimenti e soprattutto istinti e pulsioni, flebili segnali di una vita che corre via veloce in attesa che anche l’ultimo uomo si estingua e la natura riprenda il suo posto, una natura trasformata dalle radiazioni create dall’uomo, martoriata ma mai doma e che per tutto il libro rimane in paziente attesa, come una bestia ferita che attende solo il momento della vendetta.

Leggendo Volodine, l’impressione è che a volte paghi pegno al proprio dogmatismo, al fatto di aver costruito una letteratura (parlo del post-esotismo) un po’ troppo rigida nella sua architettura, con la conseguenza di essere ripetitiva negli argomenti, nel loro sviluppo e nelle finalità narrative. Da questo punto di vista ho trovato Terminus radioso molto simile ad Angeli minori, che per certi versi ho preferito.

P.S.: nella terza di copertina si legge che “Volodine firma un romanzo fosco e ironico che intona un inno all’umorismo del disastro, alla fuga dal reale, alle tecniche di resistenza di fronte al buio, alla notte, alla catastrofe”.
Ironico? Umorismo? Tecniche di resistenza al buio? Cioè: questo sarebbe un libro che fa ridere?
Se è così confesso che di Terminus radioso io non ho capito niente.

sabato 8 luglio 2017

Antoine Volodine – Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima



Resistere non serve a niente?

La storia del post-esotismo nel racconto di Lutz Bassmann, un uomo che attende la morte rinchiuso nel braccio di massima sicurezza da ventisette anni, guardando le fotografie dei suoi amici defunti mentre l’umidità avvolge ogni cosa e fuori piove incessantemente.
Bassmann è solo un portavoce, l’ultimo sopravvissuto di un gruppo che non esiste più, superstite senza speranze che attende di portare a termine la definitiva disfatta. A lui il compito di prolungare l’esistenza di quelli che l’hanno preceduto, a lui il compito di far vivere la loro memoria attraverso il colloquio con due cronisti della stampa organica al sistema che si interessano (o fingono di farlo) alla storia del post-esotismo.
La narrazione è resa farraginosa  da brevi “lezioni” sugli aspetti formali del post-esotismo che ne interrompono bruscamente il corso e il racconto di Bassmann è quello di un uomo consapevole della sconfitta che cerca di soffiare sulle braci della memoria per non lasciar spegnere il fuoco. Parla di un movimento avverso e ostile allo status quo, un movimento di resistenza che cerca di nascondere le sue intenzioni per non dare vantaggi all’avversario e che vede anche nel lettore un possibile nemico. Un movimento che tiene il mondo a distanza, attento a non fare commerci con la nostra realtà per non lasciarsi contaminare e corrompere da essa, così esterno da far diventare virtuale quello che per noi è il mondo reale.
Volodine è un visionario, un Pessoa a tratti più “strutturato”, che con il post-esotismo costruisce un luogo del pensiero dove non mancano le contraddizioni, considerato che è a un tempo nichilismo ma anche zona franca dove poter coltivare una deriva egualitaria. Un movimento che sembra una interpretazione in chiave letteraria di questi anni complicati: il post-esotismo come risposta allo sgretolamento degli ideali, al fallimento dell’utopia socialista e alla deriva capitalista.

Resistere non serve a nulla? No, resistere per Volodine sembra essere l’unica possibilità.

sabato 3 giugno 2017

Yasmina Reza – Babilonia



Il mestiere di scrivere

Libro dedicato, come Felici e felici, allo studio delle dinamiche di coppia, a cui si affiancano l’amicizia, la memoria, la fotografia e il ruolo degli oggetti nelle nostre vite. Come nel libro precedente, anche qui è l’alta borghesia (questa volta over-60) l’oggetto dell’indagine della scrittrice franco-iraniana, una borghesia della quale vengono messi alla berlina comportamenti, pensieri, tic e preferenze sessuali. Qualche esempio.
A proposito del matrimonio:
“Al Centro Studi sulla proprietà intellettuale di Strasburgo avevo un’amica, una ragazza un po’ schiva. Un giorno ha sposato un tizio taciturno e poco attraente. Mi ha detto, lui è solo, io sono sola. Trent’anni dopo l’ho incontrata sul Thalys, costruiva mongolfiere per parchi di divertimenti, stava ancora con lui e avevano avuto tre figli. Per la coppia Gumbiner-Manoscrivi il finale è meno piacevole, ma nonostante le infinite variazioni il motivo non è forse sempre lo stesso?”
 Sullo stile di vita:
“Ho buttato giù uno Xanax e sono andata a farmi bella con un nuovo trattamento anti-età consigliato da Gwyneth Paltrow. […] Di recente su internet ho ordinato il balsamo per labbra preferito di Cate Blanchett, con la scusa che tutte le australiane chic ce l’hanno nella borsetta.”
“Dai una botta di giovinezza all’esistenza. La donna dev’essere allegra. A differenza dell’uomo, a cui sono concessi lo spleen e la malinconia. A partire da una certa età, una donna è condannata al buonumore. Se tieni il broncio a vent’anni è sexy, se tieni il broncio a sessanta è una rottura di palle.”
 Sui rapporti familiari:
“Dieci giorni fa è morta mia madre. Non la vedevo spesso, nella mia vita non cambia molto, salvo che prima da qualche parte sulla terra c’era mia madre.”
“Con mio marito ci sto bene. Ci conosciamo a memoria. Io gli rimprovero il suo amore senza riserve. Non mi mette in pericolo. Non mi esalta. Mi ama anche brutta, il che non è affatto rassicurante. Tra noi non c’è nessuna elettricità – ce n’è mai stata?”
 Sul modo di pensare:
“ho lanciato il tema dei concetti vuoti. Ne abbiamo trovati una valanga, e tra questi è curiosamente spuntato quello di tolleranza.”
“Non sopporto più la parola raccoglimento. E neanche il concetto. Da quando il mondo corre verso un caos indescrivibile è diventata la grande moda. Politici e cittadini (ancora una parola ingegnosamente vacua) passano il tempo a raccogliersi. Preferivo prima, quando la testa del nemico veniva portata in punta di lancia. Nemmeno la virtù è seria.”
Insomma: un romanzo nel quale la società intera sembra uscire con le ossa rotte dal confronto con la penna al vetriolo della Reza, il tutto raccontato con uno stile formalmente ineccepibile, tanto che Babilonia mi è sembrato il libro scritto meglio tra quelli che ho letto di questa scrittrice.
Eppure c’è qualcosa tra queste pagine che mi è suonato stonato, che non mi ha convinto: è il modo di giudicare facendo intendere di non voler giudicare, che mi sembra una maniera di mettere le mani avanti (del tipo: “io mi limito a fotografare la realtà, non è colpa mia se le cose sono così…”), di tirare il sasso nascondendo la mano, qualcosa che ha a che fare con quel modo radical chic di guardare agli altri quasi con compatimento, con un sottinteso di superiorità nei loro confronti. Probabilmente (sicuramente) è solo una mia impressione, dovuta al fatto che la Reza sembra battere parecchio sullo stesso tasto, ma un po’ mi disturba.

sabato 1 ottobre 2016

Antoine Volodine – Angeli minori




Il mondo ai confini del mondo

Dopo Gospodinov e Cărtărescu ecco Volodine. Un altro messaggero degli dei mandato a dirci che il romanzo non è morto, ma gode di splendida salute.
Un romanzo diverso da quello che abbiamo conosciuto finora, meno chiuso in se stesso e più aperto in tutte le direzioni, un romanzo che mescola reale e visionario, che racconta senza sentire il bisogno di spiegare, che utilizza tutti i registri e le tecniche narrative che ritiene necessarie e magari inserisce nella narrazione note di biologia, scienza, religione e quant’altro possa risultare funzionale alla storia.
Una novità che parte da lontano, visto che già Kundera, nella prefazione de “I sonnambuli” di Broch scrive:

“Con un’euforica fiducia in se stesso Broch, durante la stesura dei Sonnambuli, afferma (in alcune lettere) che il suo romanzo rappresenta una nuova tappa della storia del romanzo. Dopo la lunga era del romanzo «psicologico», scrive, è giunto il tempo del romanzo «gnoseologico». Infatti, nell’epoca in cui le scienze si specializzano sempre di più, addentrandosi in un tunnel senza uscita, solo il romanzo può ancora cogliere l’esistenza umana in tutta la sua estensione, in tutta la sua totalità. Nel nostro tempo, afferma, «la conoscenza è la sola morale del romanzo».
Un tale ampliamento dell’orizzonte noetico esigeva un ampliamento formale altrettanto radicale. Broch ha saputo incorporare nel suo romanzo diversi generi letterari. Ciò è particolarmente evidente nella terza parte della trilogia: c’è una story che narra la vita di Huguenau (narrazione interrotta da una breve parte scritta come fosse un dialogo teatrale e da un’altra dall’andamento aforistico); c’è una novella che racconta la vita intima di una donna perduta; poi un reportage su un ospedale militare; poi uno strano racconto sull’Esercito della Salvezza (scritto per lo più in versi). E infine un saggio filosofico sulla «disgregazione dei valori» (che non disdegna il linguaggio scientifico). Tutte queste parti sono articolate in molti capitoli i quali, correlati e combinati, danno vita a un sorprendente insieme polifonico (il termine è di Broch) che l’arte del romanzo non aveva mai conosciuto.

Quando Sartre, nel dopoguerra, parla della necessità di cogliere non i caratteri e la loro psicologia, ma le situazioni fondamentali nelle quali si rivela l’esistenza umana, definisce così, nei termini che gli sono propri, la grande svolta compiuta vent’anni prima da Broch. Ma è soprattutto il grande romanzo latinoamericano che dagli anni cinquanta e sessanta continua sulla strada aperta da Broch. Penso a Ernesto Sabato che, nel 1974, afferma, in modo assolutamente brochiano, che «nel mondo moderno abbandonato dalla filosofia, frazionato in centinaia di specializzazioni scientifiche, il romanzo resta l'ultimo osservatorio da dove si può abbracciare la vita umana come un tutto»”

Novità formali e di contenuti, che Volodine interpreta con una scrittura non semplice, ma che pretende attenzione costante da parte del lettore che assiste ad una narrazione frammentaria, affidata alle voci di quarantanove personaggi (gli “Angeli minori” a cui allude il titolo) impegnati a raccontare brandelli delle loro vite che cucite insieme vanno a costituire la trama del romanzo. Questi frammenti, “narrat” li chiama l’autore, sono istantanee, fotografie di un momento, tasselli che Volodine getta sul pavimento lasciando al lettore il compito e il piacere di ricomporre il puzzle.
Compito non semplice, visto che siamo in un territorio di confine, a cavallo tra apocalittico e distopico, una zona dove reale e immaginario si mescolano e i punti di riferimento diventano pochissimi. Qui il tempo e lo spazio che siamo abituati a conoscere non hanno cittadinanza, le coordinate temporali sono confuse (sembra di essere in un eterno presente o meglio in un continuum atemporale) e le distanze si misurano in ettametri o in migliaia di chilometri che i personaggi sembrano percorrere in pochi attimi.
Quello di “Angeli minori” è un mondo ai confini del mondo, un’umanità post-umana, fatta di vecchie immortali impegnate a soffiare la vita su un fantoccio di stracci per far rinascere quegli ideali egualitari che sembrano scomparsi. Le vecchie riusciranno nell’impresa di creare dal nulla un essere in grado di incarnare queste idee, una creatura che non è più umana ma non si sa bene che cosa sia, che però finirà per tradire il suo mandato riportando in vita il capitalismo e le sue degenerazioni.
Detto questo, è bene aggiungere che questo libro è molto più di una trama più o meno lineare, i “narrat” attraverso i quali si snoda pescano nel fondo della coscienza dei personaggi e quello che viene alla superficie è un misto di memoria, sogni, fantasie, illusioni, ambizioni, incubi, associazioni di idee e pensieri frammentari. Il risultato è un materiale difficile da maneggiare e impossibile da scomporre, un magma indistinto che probabilmente è anche l’unico modo di dar voce all’inconscio di ognuno, perché cercando di tradurlo con l’alfabeto della ragione finiremmo per tradirlo. I “narrat” sono dunque quello che rimane dell’inconscio quando viene portato alla luce, quel misto di vero e falso che ci portiamo dietro, che ci confonde ma che ci aiuta a vivere.
Di nuovo torniamo a Broch, al romanzo come unico strumento in grado di cogliere l’esistenza umana in tutta la sua estensione, in tutta la sua totalità.

domenica 31 gennaio 2016

Annie Ernaux – Gli anni



Dopo Knausgård, Ernaux. Torna di moda l’autobiografismo? Sembrerebbe di sì, anche se le differenze tra i due sono evidenti.
Ernaux evita il monologo torrenziale da Grande Fratello televisivo e procede per immagini, vecchie fotografie, ricordi personali, elencazioni (cliché invero, un po’ usurato), finendo per costruire un racconto frammentato in episodi che corrono prevedibili lungo i binari del trascorrere degli anni. Ecco, forse proprio nell'aspetto monocorde di una narrazione senza scatti, che non “evolve” mai, mi sembra di individuare un tratto che accomuna Knausgård ed Ernaux.
Ne Gli anni ho apprezzato l’eleganza della scrittura, l’originalità nell'alternare presente e imperfetto ed anche il continuo cambiamento del punto di vista, con gli avvenimenti che vengono raccontati usando ora la prima e ora la terza persona, sia singolari che plurali. Artifici che probabilmente avrebbero dovuto aiutare a movimentare la trama, eppure – ripeto – la mia impressione è quella di una narrazione “bloccata”, nella quale anche la partecipazione emotiva mi sembra molto molto ridotta.
Ci sono pagine di bella prosa, osservazioni acute su certi aspetti della società, espresse stilisticamente in maniera efficace ed elegante, ma sono poche. Prevalgono (o magari sono io che le ho trovate particolarmente disturbanti) certe banalità in forma di analisi sociologiche,  qualche spruzzata di politically correct e un pizzico di anti-americanismo radical chic che magari potevano essere evitate, anche considerando che sul passato recente francese in Algeria e Centrafica Ernaux ha sorvolato tranquillamente.

Qualche esempio:
quello che scrive a proposito della scuola come istituzione, non mi sembra brillare per originalità:
"Pubblica, privata, la scuola si assomigliava, luogo di trasmissione di un sapere immutabile nel silenzio, nell'ordine e nel rispetto delle gerarchie, la sottomissione assoluta: indossare un grembiule, mettersi in fila alla campanella, alzarsi in piedi se entrava in classe la direttrice ma restare seduti se entrava una bidella"
E ancora:
"Soltanto gli insegnanti avevano il diritto di fare domande. Se non si capiva una parola o una spiegazione la colpa era solo nostra."
"I programmi non cambiavano mai,"
"Un blocco compatto di conoscenze trasmesso a una minoranza che vedeva così confermata, di anno in anno, la propria intelligenza e superiorità."

Segue un bell'esempio di cerchiobottismo:
"La condanna a morte da parte dell’imam Khomeini di uno scrittore di origine indiana, Salman Rushdie, accusato di aver offeso Maometto in un suo libro, faceva il giro del mondo e ci lasciava di stucco. (Anche il papa condannava a morte proibendo il preservativo, ma quelle erano morti anonime, in differita.)"

A proposito di antiamericanismo:
"il campo del nostro immaginario, ormai occupato tutto dagli americani, anche nostro malgrado, come un gigantesco albero che dispiegava i suoi rami sull'intera superficie della terra. Ci davano sempre più fastidio con quei loro discorsi moralizzatori, gli azionisti e i fondi pensione, l’inquinamento planetario e il disgusto per i nostri formaggi."
"Conquistatori senza altri ideali oltre ai dollari e al petrolio. I valori e i principi di cui si facevano portatori – contare solo su se stessi – davano speranza soltanto a loro, mentre noi sognavamo «un altro mondo»."

Chiudo con qualche perla a proposito dell’Undici Settembre tra sentimenti di rimozione e rifiuto di condividere quel dolore:
"Si rievocava un altro 11 settembre e l’assassinio di Allende. Dei conti venivano saldati. Il tempo per provare compassione e pensare alle conseguenze sarebbe arrivato più avanti."
"L’obbligo di far propria la paura degli americani raffreddava i sentimenti di solidarietà e di compassione. Ci si beffava della loro incapacità di catturare Bin Laden e il mullah Omar, volatilizzatosi in motocicletta."

sabato 11 ottobre 2014

Michel Houellebecq - Estensione del dominio della lotta


Poche settimane della vita di un trentenne analista-programmatore. Incontri e colloqui con colleghi, clienti, amici. Un protagonista apatico, indifferente al mondo che attraversa la vita senza farci caso, senza uno scopo (non si può non ricordare il Solitario di Ionesco). Dialoghi sempre sull'orlo dell'abisso, la sensazione che ad ogni passo la terra rischi di franarci sotto i piedi. 
Houellebecq divide e io fatico a metterlo a fuoco. 
Mi ispira, da subito, un'antipatia spontanea, ma non capisco se la scelta di dire cose sgradevoli, che vanno contro l'opinione corrente sia di forma o di sostanza, se cioè sia veramente convinto di quello che scrive o non voglia piuttosto provocare, andare contro l'opinione corrente e accreditarsi come principe del contro-pensiero, interpretare il ruolo del "diverso", del lupo solitario fuori dal coro. 
Differenza non da poco, quella che corre tra uno vero e uno furbo, tra uno che lo è e uno che lo fa, tra spontaneità ed artificiosità. Magari ci stanno tutti e due gli aspetti. 
Per ora: giudizio sospeso.