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sabato 11 gennaio 2025

Un nuovo nome. Settologia VI-VII – Jon Fosse

 


Un nuovo nome. Settologia VI-VII – Jon Fosse
(trad. Margherita Podestà Heir)
La nave di Teseo editore (I ed. 2021)

L'ultimo volume della Settologia è un lento approssimarsi alla fine.
Asle, che aveva dedicato la vita a dipingere per esorcizzare il dolore, senza però riuscire a eliminare davvero le immagini che gli facevano male ma solo a renderle più sbiadite e a farle parlare in maniera silenziosa, decide di abbandonare la pittura e convivere con la sofferenza perché ora aspira a scomparire nel vuoto e nel silenzio lasciando che le immagini che ha in testa si fondano in una sola che non può essere dipinta e che gli trasmette calma e pace, un'immagine interiore alla quale ha cercato di avvicinarsi negli anni in cui ha dipinto e che, come i sui quadri, resta inconclusa perché esprime una tensione verso un altrove indistinto.
Il dipinto come fusione di forma e contenuto che diventano spirito, immagine come anima e materia che unite insieme avvicinano l'uomo a Dio. Dio che è al tempo stesso lontano e vicino, "buio luminoso insito nel profonde dell'essere umano", "assenza che è presenza", un'unione degli opposti simile a quella che realizza l'Arte.

Asle, che ha dedicato la vita a dipingere per avvicinare quella luce dentro di sé e lentano da sé è Fosse stesso, che ha dedicato la vita a scrivere con il medesimo scopo, con la stessa fermezza nel perseguirlo e la stessa certezza di non poterlo raggiungere.

domenica 6 marzo 2022

L'altro nome. Settologia I-II – Jon Fosse



"Ciò che voglio mostrare ha a che fare con la luce, e con il buio, riguarda il buio luminoso così come è in tutta la pienezza del nulla"

Asle è un pittore, vedovo, che ha smesso di bere. E poi c'è un'altra possibilità di essere Asle: un pittore, semialcolizzato che si trascina tra la casa e il bar. Asle, Ales, Alise, Åsleik… nomi e altri nomi.
I primi due capitoli della settologia di Fosse sono un lunghissimo monologo senza punti che procede per accumulazioni e ripetizioni. Molte riflessioni, lunghi silenzi e pochi avvenimenti che si depositano sulle pagine portando acqua al mulino della trama, nella speranza – probabilmente vana – che possa macinare il grano della conoscenza. I dialoghi sono fili sottili, sincopati, frecce prive di velocità che cadono senza avvicinarsi al bersaglio, salvagenti che non raggiungono l'uomo che annaspa nel mare. I sentimenti sembrano qualcosa di distante, che se c'è stato ormai è passato, come la vita che scorre e va dove vuole. 
Un libro sul senso della vita e della morte, sul tentativo di descrivere (se non comprendere) come vanno le cose, un libro sulla presenza e sull'assenza di Dio.
Per il protagonista dipingere è un modo di cancellare le immagini, dimenticarle perché smettano di perseguitarlo. È il dolore che va allontanato, o almeno tenuto a freno, per provare ad avvicinarsi alla quiete interiore annullandosi nel vuoto del silenzio: dipingere e scacciare il dolore per far emergere la luce dal buio.

"e in ciò che dipingo deve esserci una luce, una luce invisibile, penso, […] e la cosa strana è che il modo più facile per fare splendere i quadri è quando sono scuri, sì, e neri, sì, più scuri e neri sono i colori e più brillano, e per me il modo migliore per vedere se un quadro riluce e rendermi conto di quanto sia forte e debole questa luce, e dove sia, è quando spengo tutte le altre, quando è scuro come la notte più buia, e ovviamente è più facile vedere quando all’esterno regna l’oscurità più assoluta, […] sì, a dire la verità per me il dipinto non è concluso fino a quando non l’ho visto nell’oscurità più totale, perché in un certo senso gli occhi si abituano al buio e osservo il quadro sotto forma di luce e buio, e vedo se emana una luce, dove e come, ed è sempre, sempre la parte scura del quadro a splendere di più e penso che forse è così perché è nella disperazione, nelle tenebre che Dio è più vicino."

I personaggi di Fosse trascinano le loro esistenze muovendosi lenti in mezzo alla neve, aggirandosi come spettri che hanno perso la via e vagano senza meta dal freddo della strada al vuoto dei loro appartamenti. Asle cade e si perde, mentre dalle finestre dei palazzi sembrano osservarlo i fantasmi di Ibsen, Strindberg, Beckett, e dall'ultimo piano pare di scorgere anche il profilo di Joyce.

domenica 30 settembre 2018

Jon Fosse – Melancholia




 “Penso che Lars è come il mare e il cielo, sempre cambia, dalla luce al buio, dal bianco al nero più nero.”

Melancholia è un dittico che ruota attorno alla figura di Lars Hertervig, paesaggista norvegese dell’Ottocento.
La prima parte del primo libro (quella principale) è focalizzata su un solo giorno nella vita del pittore, quello che rappresenta il punto di rottura, l’istante di non ritorno, il momento in cui la pazzia del protagonista si rende manifesta.
Una delusione amorosa è il primum movens della pazzia del protagonista (pazzia che, come scopriremo più avanti, era già in fieri ed aspettava solo di essere messa in moto), personaggio in bilico tra la convinzione di essere un grande pittore (“io so dipingere. Anche Gude sa dipingere. E pure Tidemann sa dipingere. Io so dipingere. Nessuno sa dipingere come me, solo Gude. E poi Tidemann.”) e la paura di sottoporsi al giudizio del suo maestro, che lo spinge a non presentarsi quella mattina all’Accademia delle Belle Arti per il timore che il suo quadro possa non piacere. Un personaggio senza equilibrio quindi, pericolosamente sospeso tra due assoluti (il cielo e la polvere), incapace di gestire i rapporti interpersonali, perché confonde i suoi pensieri con la realtà e non comprendendo ciò che lo circonda cerca rifugio nei ricordi e nelle allucinazioni condannandosi all’inazione.
Fosse dimostra di aver studiato a fondo la schizofrenia, perché nella figura di Hertervig che tratteggia ci sono tutte le caratteristiche della malattia: la vulnerabilità, la confusione spazio-temporale, la paranoia, le allucinazioni uditive e visive (“le vesti bianche e nere”), il rifugio in movimenti stereotipati auto-consolatori (“ E mi premo le mani contro la faccia, e comincio a dondolarmi con il busto, faccio dondolare il busto da un lato all’altro”)…
Originalissima la scelta dell’autore di raccontare Hertervig in prima persona e soprattutto di farlo dal punto di vista della malattia, la schizofrenia, che Fosse cerca di restituirci attraverso un corpo a corpo con la scrittura difficile da seguire, a tratti fastidioso, caratterizzato da frasi brevi e ripetizioni continue, pensieri e parole che il protagonista rimastica ossessivamente con l’intento di convincersi della veridicità dei suoi ragionamenti e finendo invece con il precipitarci dentro affondando sempre di più nella malattia. Sorprendentemente la scrittura con cui lo scrittore norvegese cerca di riprodurre la schizofrenia del protagonista, mostra anche parecchi tratti in comune con la pittura: le reiterazioni, i tentativi di definire, precisare, raccontare da capo quasi ininterrottamente, sembrano altrettante pennellate, strati su strati di colore, colate materiche versate sulla tela nel tentativo di riprodurre quella luce che in un gioco di rimandi sembra ossessionare tanto l’Hertervig del libro quanto l’Hertervig pittore, almeno a giudicare dai suoi quadri (Borgoya, uno dei principali, appare nella copertina del volume). La luce quindi come centro del libro proprio perché centro del dramma del protagonista, luce che vede provenire dagli occhi della sua amata e che lui sente essere la stessa luce verso la quale tendono i suoi dipinti e nella quale riesce ad entrare nei momenti, quasi mistici, di ispirazione.
“Io so dipingere, - dice ad un certo punto – perché infatti io so vedere, sì, io vedo tutto e vedo quello che altri non possono vedere e per questo so dipingere”. Ma più avanti aggiunge: “Vedo troppo. Vedo troppo per poter dipingere.”.

Una postilla, solo per aggiungere che purtroppo questo libro è costellato da un numero di refusi ed errori (soprattutto negli a capo) inusuale e piuttosto fastidioso.