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domenica 7 ottobre 2018

Lezioni di letteratura argentina: Sabato su Borges



 Borges ha una sola fede e una sola coerenza: lo stile.
Mica cerca la Verità! Percorre l’universo del pensiero come un collezionista alle prime armi la galleria di un antiquario, e le sue stanze letterarie sono arredate con il gusto squisito e l’insensato disordine con cui è arredata la casa di quel dilettante.
Borges lo sa benissimo, anzi ce lo suggerisce. Ma il lettore che, con timore reverenziale, si genuflette appena legge la parola aporia, prende per profonda inquietudine quel che è solo un sofisticato passatempo. E invece di tenersi caro il Borges veramente valido corre dietro all’autore di quei giochetti.
Borges ha paura della dura realtà dell’esistenza e produce due atteggiamenti simultanei e complementari: inventa un mondo per gioco e fa suo il platonismo, teoria intellettuale per antonomasia. L’intelletto (puro, trasparente, schivo) lo affascina. E siccome vuol continuare a giocare, ha un motivo in più per non partecipare all’incessante e duro processo della verità. Prende dall’intelletto quel che avrebbe preso un sofista. Non cerca la verità, il suo godimento sta nel dialogo per il dialogo e, soprattutto, dialoga con le parole sulle parole. Lo attira l’intelligenza vacua, bipolare, scacchistica, disimpegnata, giocherellona, non comune, sofisticata, lo soggioga l’ipotesi che tutti possono aver ragione e, quindi, che nessuno ce l‘ha.
[…] Tlön, Uqbar, Orbis Tertius rappresentano al meglio il suo ecclettismo: desideri, errori stanno tutto lì, e ci costruisce un universo acutissimo. Né lui né noi crediamo in quel che afferma, ma ci incanta la possibilità metafisica che esprimono. E così in tutta la sua opera: il mondo è un sogno reversibile, è sempre possibile un ritorno, e anche raggiungere l’immortalità nella memoria degli altri perché l’immortalità non esista nell’eternità. Tutto vale e niente vale.
[…] Eppure c’è una costante che sempre si ripete, forse per paura della dura realtà: l’ipotesi che questa realtà sia solo un sogno. E l’ipotesi che il razionalismo ha sempre difeso, l’autentico patrono di Borges è Parmenide. […] Ecco perché, per Borges, è la ragione che governa il mondo, e persino i suoi sogni ed incantesimi devono essere armoniosi e intelligibili, e i suoi enigmi, come nei romanzi polizieschi, hanno alla fine una chiave.
[…] Potremmo quasi affermare che Borges è il simbolo letterario dell’illustre problema della razionalità del reale e della sua (temibile) conseguenza: la paralisi.

[…]L’arte – come il sogno – è quasi sempre un atto antagonista della vita diurna. La crudeltà del mondo che ci circonda affascina Borges, e insieme lo spaventa. E si rintana nella sua torre d’avorio sotto a spinta di quella stessa potenza che lo affascina. Il mondo platonico è il suo bellissimo e inattaccabile rifugio: lì può abbandonarsi; è pulito il suo rifugio, e lui odia la sporcizia della realtà; è senza sentimenti, e lui non sopporta coinvolgimenti sentimentali; è eterno, e lui è afflitto dalla fugacità del tempo. Per timore, disprezzo, pudore e per malinconia, diventa platonico.
Chiuso nella sua torre, dunque, architetta i suoi giochi. Ma il lontano rumore della realtà lo raggiunge: filtra dalle finestre e sale dalle profondità del suo essere. Dopotutto egli non è una figura ideale del museo di Meinong, ma un uomo in carne ed ossa che – nonostante i suoi tentativi di sfuggire – vive in questo mondo. Non c’è solo il mondo fuori, nella strada: quel mondo ce l’ha dentro, nel suo cuore. E come si fa a liberarsi del proprio cuore?
[…] E l’uomo, dal suo amato esilio, ricompare forse indistinto, fugace, equivoco, con tanto di passioni e sentimenti.
E il Borges nascosto, quello che come tutti ha le sue passioni e meschinità, ce lo immaginiamo dietro le sue astrazioni: contraddittorio e colpevole.
[…] Il gioco lenisce ma non annulla le su angosce, la sua nostalgia, la sua tristezza più profonda, i suoi risentimenti più umani. Gli incantevoli inganni teologici e la magia puramente verbale, in definitiva, non lo appagano. E così le sue più profonde angosce e passioni ricompaiono in una poesia o in un frammento di prosa in cui davvero si manifestano quei sentimenti troppo umani.

Ma quello di Borges è un ritorno alla realtà sempre ambiguo, parziale: basta una frase o una variante a smentirlo. Forse è vittima della sua passione verbale, del suo ingegno retorico.

[…] E Borges, il corporale Borges, il sentimentale Borges, ha cercato l’ordine nel caos, la calma nell’inquietudine, la pace nella tragedia, cerca dalla mano di Platone la via per accedere all’universo incorruttibile. […] Sembra che per lui l’unica cosa degna di una grande letteratura sia il regno dello spirito puro. Mentre la cosa degna di una grande letteratura è lo spirito impuro: cioè l’uomo; l’uomo in questo confuso universo eracliteo, non il fantasma, il cielo platonico.
[…] Dio non scrive romanzi.
Quella specie di oppio platonico non ci serve. Anzi finisce per farci apparire tutto un gioco, un simulacro, un’infantile evasione. E anche se quel mondo fosse vero, confermato dalla filosofia e dalla scienza, questo mondo è per noi l’unico vero, l’unico che ci provoca dolore, ma pienezza: questa realtà di sangue e di fuoco, di amore e di morte in cui vive quotidianamente la nostra carne e l’unico spirito che veramente possediamo: lo spirito incarnato.

[…] Il Borges che vogliamo riscattare e che è davvero riscattabile è il poeta che qualche volta ha cantato cose umili e fugaci, ma semplicemente umane: un tramonto di Buenos Aires, un cortile dell’infanzia, una strada di periferia. Questo è (oso profetizzare) il Borges che resterà. Il Borges che dopo il suo frivolo periplo per i territori della filosofia e della teologia, in cui non crede, torna in questo mondo meno affascinante ma in cui crede; in cui nasciamo, soffriamo, amiamo e moriamo.

[Ernesto Sabato: “Lo scrittore e i suoi fantasmi”]

sabato 7 marzo 2015

Lezioni di letteratura argentina: Piglia su Borges


Borges è uno scrittore del XIX secolo. Il miglior scrittore argentino del XIX secolo.
Uno della generazione dell'80 che ha letto  Paul Valéry. Questo da un lato. Dall'altro la sua narrativa si può intendere solo come un tentativo cosciente di concludere la letteratura argentina del XIX secolo. Chiudere e integrare le due linee basilari che definiscono la scrittura letteraria del XIX secolo.
Punto primo, l'europeismo, quello che inizia con la prima pagina del Facundo, testo fondatore della letteratura argentina. [...] Qui c'è la prima delle linee che costituiscono la narrativa di Borges: testi che sono concatenazioni di  citazioni ordite, apocrife, false, sviate; esibizione esasperata e parodistica di una cultura di seconda mano, tutta pervasa da una pedanteria patetica: di questo ride Borges. Esaspera e spinge al limite, mi riferisco a Borges, esaspera e spinge al limite, chiude mediante la parodia la linea dell'erudizione cosmopolita e fraudolenta che definisce  e domina gran parte della letteratura argentina del XIX secolo.
Ma c'è di più, c'è un'altra linea: quello che potremmo chiamare il nazionalismo populista di Borges. Il tentativo di integrare nella sua opera anche l'altra corrente, la linea antagonistica all'europeismo, che avrebbe come base la letteratura gauchesca e come modello il Martìn Fierro. Borges si propone di chiudere anche questa corrente, che in un certo senso definisce anch'essa la letteratura argentina del XIX secolo. Cosa fa Borges? Scrive la continuazione del Martin Fierro. Non solo perché gli scrive, con "La Fine" un finale, ma perché inoltre assume il gaucho trasformato in abitante della periferia come protagonista di quei racconti che, non a caso, Borges situa sempre tra il 1890 e il 1900.
Ma non è solo questo, non si tratta solo di una questione tematica. Borges fa qualcosa di diverso, qualcosa di centrale, ecco, comprende che il fondamento letterario della gauchesca è la trascrizione della voce, della parlata popolare. Non fa letteratura gauchesca con un linguaggio colto come Guiraldes. Quello che fa Borges è scrivere il primo testo della letteratura argentina posteriore al Martìn Fierro che sia scritto da un narratire che usa le flessioni, i ritmi, il lessico della lingua orale: scrive "Uomo della casa rosa".
Quindi i due primi racconti scritti da Borges, così diversi a prima vista, "Uomo della casa rosa" e "Pierre Menard, autore del Chisciotte", sono il modo in cui Borges si collega, si mantiene in contatto, e insieme la conclude, con quella duplice tradizione che divide la letteratura argentina del XIX secolo. A partire di qui la sua opera è divisa in due: da un lato i racconti dei cuchilleros, con le loro varianti; dall'altro i racconti, diciamo così, eruditi, in cui l'erudizione, l'esibizione della cultura si esaspera, si spinge al limite, i racconti nei quali Borges fa la parodia della superstizione culturalista e lavora sull'apocrifo, il plagio, la catena di citazioni ingannevoli, la falsa enciclopedia, ecc., e nei quali l'erudizione definisce la forma del racconto. Non è un caso che il miglior testo di Borges sia, a detta di Borges, "Il sud", racconto in cui queste due linee si intersecano, si integrano.

sabato 28 febbraio 2015

Lezioni di letteratura argentina: Piglia su Arlt


...Borges è anacronistico, mette un punto finale, guarda verso il XIX secolo. Quello che apre, che inaugura, è Roberto Arlt. Arlt ricomincia da capo: è l'unico scrittore veramente moderno che la letteratura argentina del XX secolo abbia prodotto.
[...] io ti dico che Arlt scriveva male, la verità è che scriveva con il culo, scriveva come se volesse rovinarsi la vita, screditarsi da sé. Il masochismo che gli derivava dalla lettura di Dostoevskij, quel gusto per la sofferenza alla maniera di Alesa Karamazov, lui lo riservava unicamente al suo stile: Arlt scriveva per umiliarsi, nel senso letterale dell'espressione. Scriveva male: ma nel senso morale della parola. La sua è una scrittura cattiva, una scrittura perverso.È uno stile criminale. Fa quello che non si deve fare, quello che sta male, distrugge tutto quello che per cinquant'anni si era inteso come scrivere bene.
Arlt scrive contro l'idea di stile letterario, ossia contro quello che ci hanno insegnato si deve intendere per scrivere bene, cioè scrivere in modo corretto, accurato. Perciò il miglior elogio che si possa fare di Arlt è dire che nei suoi momenti migliori è illeggibile; almeno secondo i critici è illeggibile: non possono leggerlo, in base al loro codice non possono leggerlo. Tutti i critici (salvo due eccezioni) si trovano d'accordo su una sola cosa: nel dire che scriveva male. È una delle poche concordanze unanimi che può offrire la letteratura argentina. Hanno ragione, dato che Arlt non scriveva dallo stesso luogo che occupavano loro, né in base allo stesso codice. In questo Arlt è assolutamente moderno: è più avanti di tutti quei citrulli che lo accusano.
[...] Lo stile di Lugones è uno stile impegnato a cancellare qualsiasi traccia dell'impatto , o meglio, della mescolanza provocata dall'immigrazione sulla lingua nazionale. Infatti quel bello stile ha orrore del miscuglio. Arlt, è evidente, lavora in un senso esattamente opposto. Maneggia ciò che rimane e si sedimenta nel linguaggio, lavora con i resti, i frammenti, il miscuglio, ossia con quella che è realmente la lingua nazionale. Non intende il linguaggio come un'unità, come qualcosa di coerente e liscio, come un conglomerato, una marea di gerghi e voci. Per Arlt la lingua nazionale è il luogo in cui convivono e si confrontano diversi linguaggi, con i loro registri e i loro toni. E questo è il materiale con cui si costruisce il suo stile. Questo è il materiale che lui trasforma, facendolo entrare nella "macchina versatile", per citarlo, della sua scrittura. Arlt trasforma, non riproduce. In Arlt non c'è una copia della lingua parlata. Capisce che la lingua nazionale è un conglomerato.

[Ricardo Piglia: "Respirazione artificiale"]