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domenica 8 maggio 2022

Teorie della comprensione profonda delle cose – Alfredo Palomba

 


«Alla fine si fallisce tutti. Siamo fisiologicamente destinati al fallimento»

Un aspirante poeta accecato dall'invidia e dal rancore per i successi dell'ex-amico, un blogger "estremo" e disturbato, un donchisciotte mezzo tossico che si improvvisa cavaliere errante, un trentacinquenne con problemi relazionali che finirà a fare il combattente islamista, un piccolo genio dodicenne (topos letterario un po' abusato), questa è la variopinta compagnia di giro che anima le pagine del libro di Palomba, un'opera che si aggira dalle parti del postmoderno e che – a mio avviso – alterna buone idee ad altre meno buone.
Ottimo il titolo, ottima l'idea di base che regge la trama e lo sviluppo della stessa attraverso il racconto di come ognuno dei protagonisti non riesca a rapportarsi con il mondo se non attraverso un filtro che finisce per interpretare la realtà in maniera personale costringendoli, di fatto, a vivere all'interno di una bolla.
Quello che non mi convince è invece il mancato sviluppo dei caratteri: non c'è evoluzione dei personaggi e la storia sembra svilupparsi in modo orizzontale con rari approfondimenti (che peraltro, quando presenti, risultano anche interessanti). Sembra che l'autore voglia dimostrare di saper fare tante cose, forse troppe, con il rischio che non tutto risulta allo stesso livello: eccellente, ad esempio, e ben inserita nel contesto la parte dove viene citato Athanasius Kircher (una tecnica che mescola la finzione con aneddoti storici e che mi ricorda quella di Énard), ma francamente sciatto e al limite del ridicolo il capitolo nel quale Toni e l'editore discutono al tavolino del bar di Paesone.
Ecco, forse è proprio la chiave ironica verso cui vira il romanzo la cosa che mi ha convinto di meno, come se Palomba stesso ad un certo punto scegliesse la strada più semplice, decidendo di non prendersi troppo sul serio, di non crederci fino in fondo.

sabato 9 aprile 2022

Rogozov – Mauro Maraschi


 

«Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti» (Cit.)


Con Ruggero Gargano, il protagonista di Rogozov, Mareschi tratteggia perfettamente la figura dell'antieroe contemporaneo. Ne fotografa lo smarrimento, le contraddizioni tra pensiero e azione, l'accettazione di ideologie estemporanee. Ne segue il percorso tortuoso, la parabola sghemba alla ricerca di punti di riferimento impossibili da trovare nella "liquidità" della società moderna. 
Un individuo ormai scisso in due, quanto scollato dalla realtà, questo è Gargano.
«Non tutti si possono salvare» ha detto. «Alcuni partono male, fin da subito, per cui non troveranno mai un equilibrio che non hanno mai avuto. Altri invece magari partono bene, ma poi gli succede qualcosa, […] la loro vita deraglia, cercano di sistemare le cose ma è on ogni caso la inutile, stanno sbagliando di nuovo, e da quel momento tutto quello che fanno non è mai un'azione in sé ma sempre un tentativo di riparare a un errore, un errore che è la conseguenza di un errore che è la conseguenza di un altro errore, e così via, all'infinito."
Gargano è uno strano individuo che abbina capacità di analisi e incapacità di passare dalla teoria alla pratica. Uno sconfitto abitato da un'aggressività che fatica a tenere a freno, una tensione auto-distruttiva che finirà per esplodere.
Una figura ingombrante, che finisce per trascendere il libro che la contiene e assumere una vita propria, dando l'impressione di andare oltre le intenzioni dell'autore, di scavalcare il recinto nel quale era stato confinato, come un Don Chisciotte del terzo millennio.
Rogozov è un'ottima opera prima, non priva di qualche difetto: la scrittura è forse troppo semplice, ho trovato eccessivo il tentativo di eliminare il più possibile aggettivi e avverbi per dare ritmo alla trama, così come troppo schematica mi è sembrata la costruzione dei singoli capitoli. Peccati veniali, che nulla tolgono alla grandezza di Ruggero Gargano.
«La vita è una sequenza di errori, e anche quando ci sembra di aver fatto la cosa giusta in realtà si è trattato di un errore fortunato».



sabato 23 ottobre 2021

Ebdòmero – Giorgio de Chirico



La letteratura come pittura con altri mezzi

Ebdòmero è un originalissimo libro fatto di immagini, nel quale il grande artista depone per un attimo il pennello per continuare a dipingere con le parole. Un monologo in bilico tra il ballo in maschera e la fuga, una passeggiata tra i quadri di una pinacoteca che è anche un'autobiografia sotto mentite spoglie dell'autore.

Sogni, ricordi, fantasie… immagini che mettendolo sulla carta danno realtà al mondo interiore di de Chirico e ci offrono il privilegio di entrare in contato più stretto con l'Arte del Maestro. Ebdòmero è uno spazio sospeso fuori dal tempo, un romanzo nel quale la trama non si sviluppa per collegamenti logici ma attraverso associazioni di idee, contrasti e analogie. Ad ogni passo dell'autore corrisponda un salto nel vuoto per il lettore, che deve stare attento ad afferrare al volo la liana che gli permetta di volare sopra l'apparenza.
Il protagonista è una via di mezzo tra Ulisse e Gesù, una specie di misantropo, in bilico tra ricordo del passato e voglia di scoperta, che lungo il cammino non manca di dispensare consigli ai suoi discepoli:

«perciò io vi dico, amici miei: metodizzatevi, non sprecate le vostre forze, quando avete trovato un segno, voltatelo e rivoltatelo da tutti i lati; guardatelo di faccia e di profilo, di tre quarti e di scorcio; fatelo sparire ed osservate quale forma piglia al suo posto i ricordo del suo aspetto.»

Un cammino accompagnato dalla nostalgia del passato e dal senso di solitudine, circondato da intellettuali «impotenti e stizziti che ignoravano l'ironia e il vero talento», individui nei quali «sentiva qualcosa di legati; sentiva che un nodo impediva loro di muovere liberamente le braccia e le gambe, di correre, di arrampicarsi, di saltare, di nuotare e di tuffarsi, di raccontare qualcosa con spirito, di scrivere e di dipingere, per dirla in poche parole di capire e di creare», attorniato da ostinati «cercatori metafisicizzanti», scettici che non riescono a vedere quello che vede lui «e pretendevano che i centauri non fossero mai esistiti».

 





domenica 8 agosto 2021

Tre orfani – Giorgio Vasta


Il 12 marzo 2020, giorno del suo cinquantesimi compleanno, lo scrittore Giorgio Vasta trova seduti alla sua tavola Bartleby e il capitano Achab.
Questo è l'inizio di Tre orfani, un racconto surreale che non ha paura di mescolare autofiction e metaletterario per raccontare il disagio dell'uomo (anche) al tempo della pandemia.
«tre figurine consunte, tre reduci non si sa da cosa e da dove: tre reietti: tre relitti»
I personaggi melvilliani sono trattati da Vasta in maniera fedele all'originale letterario, sia nei comportamenti che nel linguaggio: a un Achab che scruta inquieto il buio della notte palermitana credendo donchisciottescamente di vedere cetacei dietro ogni ombra, fa da contraltare un Bartleby silenzioso, impegnato a cancellare prima le mail dal computer dell'autore, poi gli impegni dalla sua agenda, quelli della rubrica telefonica e i contatti di whatsapp.
«Seduto sulla sponda del letto, mi ero reso conto di non essere attraversato da nessun sentimento», 
scrive Vasta, prima di andare in bagno a lavarsi le mani, gesto che in questi mesi abbiamo ripetuto tutti fino allo sfinimento facendolo diventare automatico, e sono parole e comportamenti che ben rappresentano lo straniamento dell'autore e di noi con lui, abitanti di un mondo che è diverso da come era prima.
Bartleby rimuove, Achab è il visionario, quello che cerca qualcosa di indefinito, e Vasta si trova nel mezzo delle due visioni, sospeso tra una e l'altra, sospeso tra il non fare e il fare (ma comunque senza saper oggettivare quel fare). Liberatorio, oltre che simbolico, risulta così il gesto con cui nelle ultime pagine scaglierà ina scopa diventata arpione non tanto nella realtà del giardino ma nel vuoto dell'immaginazione, della letteratura.
«era stato solo allora, dicevo, che indietreggiando ancora di un passo avevo rinsaldato a presa, sollevato il braccio e fatto ruotare la spalla fino a battere l'estremità arrotondata contro il pavimento dietro di me; poi avevo mosso qualche passetto in avanti – avrei dovuto darmi una spinta e avevo traballato, avrei dovuto giocare di gambe per ottenere slancio e avevo vacillato: il movimento era venuto fuori storpio, ma lo stesso, non so come, ero riuscito a disegnare con il corpo un arco ampio e poi a richiuderlo schiudendo il pungo: il bastone di scopa intagliato aveva lasciato la mia mano e lungo la sua traiettoria, prima verso l'alto e poi verso un punto il più possibile esatto e lontano, era diventato un rampone che trapassava senza suono, uno strato dopo l'altro, il cielo nero e i suoi arcipelaghi stellari, l'etereo e il subacqueo, una babele di silenzi, dirigendosi cieco verso il suo bersaglio – la balena di Achab, il muro di Bartleby, e ogni scrittura fatta di solchi e schegge, e i mio cinquantesimo anno pandemico e tutto il tempo chiuso dentro gli anni e dagli anni sprigionato, il tempo preso nelle camere, disperso nel mio corpo, quello che mi si scioglie alle spalle e quell'altro, se è un altro, che a ogni respiro mi brancola fuori dal petto, che sempre più piano balbetto con le labbra e con le dita – finché, no so più quando, avevo sentito l'impatto: la punta del rampone che con un rumore colmo, profondo, tenero e aspro, si conficcava nella carne del buio.»

domenica 25 aprile 2021

Hamburg. La sabbia del tempo scomparso – Marco Lupo



Libro di libri e sui libri, libro di lettori e sui lettori, Hamburg si sviluppa per vie originali: un gruppo di persone si ritrova per leggere storie scritte da loro e una serie di brandelli di manoscritti opera di uno scrittore sconosciuto che raccontano il bombardamento inglese di Amburgo durante la seconda guerra mondiale e i fatti successivi. "Lettura non come salvezza – dice Lupo in un'intervista – ma come scoperta, come abisso, come lotta interiore."
Lettura come resistenza, materiale parziale ed eterogeneo, storie degli scampati alla distruzione e di chi lavorò alla ricostruzione della città, frammenti di romanzo, fotografie e fonti diverse. L'intento è quello di ricostruire il ricordo attraverso una polifonia di voci e di esperienze.
Il ricordo che si mescola all'immaginazione creando qualcosa di nuovo, permettendo di ampliare lo sguardo e di vedere di più rispetto alla realtà, di andare in profondità, in una dimensione che è quella della letteratura.
Riscrivere il passato attraverso le voci di chi l'ha vissuto. Voci ma anche sentimenti, idee, storie. Una ricostruzione per frammenti che è solo una di quelle possibili, ponendo – di nuovo – al centro la letteratura che dimostra (se ce n'era bisogno) di essere viva e di godere ottima salute. Anche dalle nostre parti.

Bonus track
https://www.terranullius.it/terranullius/narrazioni/racconti/776-il-nostro-jean-marco-lupo

sabato 25 gennaio 2020

Corporale – Paolo Volponi



Cosa cerco dunque, secondo te, soltanto la felicità di adattarmi?

Corporale racconta la storia di Gerolamo Aspri, uno dei più grandi antieroi della letteratura italiana, dapprima dirigente d'industria, poi professore, quindi implicato tra Svizzera e Lombardia in traffici sporchi di droga e prostituzione e infine impegnato a progettare la costruzione di un bunker antiatomico nella campagna urbinate.
Corporale racconta la storia di un uomo deluso dalla passione politica, dal rapporto con gli altri e da se stesso, un uomo che giunto "nel mezzo del cammin della sua vita" si trova a dover ridefinire progetti ed aspirazioni, senza riuscire a trovare un punto fisso al quale ancorare le sue riflessioni e avendo come unica costante la paura della bomba H.
Corporale è la storia di un egocentrico narcisista che passeggia sull'orlo dell'abisso, incapace di stabilire rapporti umani che siano impostati su qualcosa di diverso da un possesso che però non riesce mai ad esercitare sino in fondo. Possedere per appagare i propri bisogni, e possedere è un verbo che nella grammatica di Gerolamo Aspri ha molte affinità con assassinare e infatti il professore è dapprima attratto dalla figura di un misterioso assassino che poi identifica nell'avvocato Trasmanati, finendo successivamente per teorizzare di uccidere lui stesso l'amico tedesco Overath, una sorta di contraltare che nella storia ha il compito di ricondurlo alla razionalità.
Difficile, e inutile, provare a mettere ordine in un libro che ha come motore proprio il caos, la confusione nella mente di un uomo che non riuscendo ad trovare il suo ruolo si trova ad interpretarne diversi, anche contrastanti. Aspri è un Ulisse moderno che ha smarrito la rotta e non sa più dove dirigere la propria barca. Il "progetto" del professore fatica a delinearsi, cambia lungo il percorso, imbocca mille direzioni diverse senza riuscire a prendere una forma definita finendo per implodere su se stesso riducendosi alla ricerca di un rifugio, un luogo solitario nel quale salvarsi dalla bomba ma soprattutto dagli altri. Obiettivo minimo rispetto alle ambizioni con le quali il professore era partito eppure destinato a non realizzarsi condannando Aspri al fallimento: partito per costruire qualcosa, si ritroverà in grado solo di distruggere.
Corporale è un libro difficile, che meriterebbe un'interpretazione psicanalitica, sperimentale nella forma, con parti diaristiche, elenchi di oggetti, coordinate geografiche; Volponi affida alla scrittura il compito di dare forma alla confusione del protagonista rappresentandone la frammentazione della psiche, pericolosamente in bilico tra borderline e bipolarismo.


sabato 30 novembre 2019

Il quinto evangelio – Mario Pomilio




"L'evangelio non è finito, questa è la verità."

Il quinto evangelio è un romanzo importante che mescola personaggi storici ed episodi di fantasia in una trama in cui si alternano materiali e registri narrativi diversi: novelle, lettere, leggende, testimonianze, frammenti di libri e addirittura un'opera teatrale che Pomilio ci propone restituendoci con grande eleganza la lingua e lo stile delle epoche a cui fa riferimento. Libro modernissimo quindi, nonostante sia stato scritto nel 1975 e ancora più moderno se consideriamo che si tratta anche di un elegante esercizio meta-letterario dato che il tema del romanzo è proprio un libro, il fantomatico quinto evangelio alla cui ricerca il protagonista finisce per dedicare la sua esistenza.
Si parte dagli appunti di un prete anonimo, dal suo arrovellarsi tra dubbio e speranza e dalla sua ricerca di Dio, per arrivare ai Vangeli, l'opera con la quale il Padre ha parlato agli uomini attraverso il Figlio. Dai Vangeli al quinto evangelio del quale il protagonista scopre le tracce nelle carte del prete il passo è breve, un quinto evangelio che  si rivela da subito qualcosa di più di una curiosità, di uno dei tanti apocrifi opera di discepoli e pseudo-discepoli di Cristo, perché pone al centro la carità, laddove gli altri mettevano la legge.
Un ritorno alle radici, alla spiritualità, ad un Gesù "francescano" da opporre alla secolarizzazione della Chiesa (ed anche in questo il romanzo di Pomilio risulta non solo modernissimo ma quasi profetico).
Al centro del libro c'è la Parola: le sue interpretazioni e il suo travisamento, che ci hanno allontanato dal suo significato originario portandoci in tutt'altra direzione. Il quinto evangelio rappresenta così il tentativo di sfrondare la Parola dalle sovrastrutture che l'hanno appesantita nel corso del tempo, dalle analisi capziose e spesso sterili che hanno finito per tradire il messaggio che essa voleva rappresentare quando fu pronunciata.
Quinto evangelio non come un vangelo nuovo ma come modo nuovo di rileggere i Vangeli canonici per recuperare la potenza anche eversiva di una Parola che è senza fine perché si rinnova in continuazione, mantenendo però inalterato  il messaggio che essa sottende, l'invito a passare dalla dottrina all'azione, ad operare per i poveri, per gli umili, per gli ultimi.

sabato 28 settembre 2019

Gabriele Pizzuto – Si riparano bambole


Siribambole

I libri. E i loro strani, stranissimi, percorsi.
Arrivi a Frasca seguendo chissà quali tracce e quando riparti ti ritrovi su una strada che porta a Pomilio; pochi passi e subito scopri un bivio dal quale si diramano due sentieri poco battuti, uno che conduce a Le strade che portano al Fùcino di Tommaso Ottonieri (suo figlio) e l'altro, ridotto a poco più che una traccia nel bosco, che arriva dalle parti di Gabriele Pizzuto, uno scrittore finito da tempo nel dimenticatoio. Decidi d'impulso di prendere la seconda deviazione ed ecco che ti ritrovi tra le mani Siribambole.
Leggi di paragoni arditi: c'è chi parla di sperimentalismo come reazione al realismo del tempo, chi cita Gadda, chi scomoda addirittura Joyce, chi ci vede echi del Gattopardo… può essere, pensi poco convinto, perché in realtà più lo leggi e più a te Pizzuto sembra solo Pizzuto, un outsider, un fuoriclasse misconosciuto, uno la cui parabola letteraria merita di essere riscoperta ed esplorata con attenzione.
Sì, perché Siribambole è una pietra preziosa, un'(auto)biografia sghemba che racconta le vicende di Profi, un bambino goloso di quella vita che vede scorrere davanti ai suoi occhi senza mai riuscire ad afferrarla davvero. Fotografie di un'epoca passata che nella penna dell'autore si dilatano fino a diventare uno spazio dove fatti e fantasia si mescolano. Fotografie, di quelle che ti rigiri lentamente tra le mani e poi avvicini agli occhi per esaminare con attenzione particolari e oggetti ma soprattutto per scrutare nelle espressioni di volti che ti guardano da un'altra epoca, sperando che possano aiutarti a ricostruire la loro storia ma anche perché ti aiutino a immaginarne una.
Pizzuto descrive le cose con un linguaggio nuovo che colora la pagina utilizzando tutta la tavolozza dei colori. Non si accontenta di riprodurre le immagini in maniera fedele, ma si sforza di coglierne ogni particolare, ogni singola sfumatura nel tentativo di sottrarre il ricordo all'oblio per farlo vivere ancora un po'.
La lingua di Siribambole è una lingua nuova alla quale non è semplice abituarsi (e parliamo di un libro pubblicato nel 1960), vedere le cose con gli occhi di Profi è come assistere ad un film senz'audio e presuppone da parte del lettore un ruolo attivo perché è lui che deve costruire la trama partendo dai fotogrammi che scorrono sullo schermo.
Scoprire un autore del valore di Pizzuto è sempre una bella soddisfazione, soprattutto se si arriva a questa scoperta attraverso i sentieri accidentati e affascinanti della letteratura.

domenica 22 settembre 2019

Gabriele Frasca – Dai cancelli d'acciaio


Difficile comprendere come Dai cancelli d'acciaio sia potuto passare quasi inosservato da parte dei critici e soprattutto dei lettori, considerato che si tratta di uno dei più importanti romanzi italiani (e non solo italiani) del nuovo millennio, sicuramente il migliore tra quelli che ho letto.
Probabilmente perché è un libro difficile, faticoso, che nulla concede a chi gli si avvicina, una lenta e tortuosa salita (anche se in realtà si tratta piuttosto di una specie di discesa agli Inferi) verso un traguardo che in realtà non esiste perché qui lo scopo non è arrivare da qualche parte ma stimolarci a riflettere utilizzando le parole dei protagonisti come punto di partenza per altri lidi. Un romanzo 'aperto', che si potrebbe rileggere mille volte ritrovandoci sempre qualcosa di nuovo che c'era sfuggito in precedenza.
Che il viaggio non sia dei più semplici è evidente sin dall'inizio. Frasca ci butta giù dalla barca senza avvertirci, precipitandoci subito in media res e per di più con un'ipotassi che non rappresenta certo un invito alla lettura: vediamo se sai nuotare in questo mare - sembra dirci con aria di sfida - così che, una volta in acqua, non ci resta altro che sbracciare goffamente per stare a galla.
È crudele questo libro, perché le difficoltà sembrano non finire mai e proprio quando cominciamo a credere di riuscire a comprendere un po' la trama, ecco che andiamo a sbattere violentemente contro un muro imprevisto: un ipertesto denso e coltissimo con tanto di dotta esegesi dei Vangeli gnostici davanti al quale è facile gettare la spugna. Eppure si procede. A fatica, tra analessi che disorientano e citazioni che spaventano, senza comprendere bene in quale direzione stiamo andando, quali siano le figure di riferimento e soprattutto gli assi portanti della storia, perché, come detto, questo romanzo ha una forza centrifuga straordinaria e dalle sue pagine sembrano gemmare riflessioni continue.
Piano piano comprendiamo che il centro di tutto è "il Cielo della Luna", un'enorme discoteca simile al girone infernale dei lussuriosi all'interno della quale è possibile, in cambio di alte somme di denaro, essere legati ad una croce ed innalzati davanti ad una serie di schermi che proiettano immagini di sesso violento che sembrano uscite da un dipinto di Bosch e che a volte culminano con l'uccisione di uno dei partecipanti alla scena. A questa croce sceglieranno di farsi legare anche il Cardinale Bruno e successivamente il suo segretario padre Saverio Juvarra, il primo per guardare in faccia il Male assoluto, il secondo per espiare il tradimento ordito su ordine delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del Cardinale al fine di impedirgli la propagazione del microfilm di un sorprendente Vangelo di Giuda.
Proprio il tradimento è uno degli assi portanti del romanzo ma ce ne sono anche innumerevoli altri: il male inteso come l'altra faccia del bene, tappa necessaria per poter aspirare all'assoluto, il dualismo carne/anima con quest'ultima che cerca di affrancarsi dall'involucro del corpo, di uscire dai cancelli d'acciaio della materia per raggiungere uno stadio superiore. E ancora: le diadi, i rapporti a due che si rompono con l'arrivo di un terzo, così come la relazione diretta e personale uomo/Dio che rappresenta la fede pura è resa impossibile dall'intrusione della rigida organizzazione della Chiesa.
Dai cancelli d'acciaio è anche un libro sulla nostra società, sul complottismo, sulla mancanza di ideologie e sulla crisi della religiosità, sui cambiamenti degli ultimi quarant'anni e sul cosiddetto mondo virtuale, un libro che apre a riflessioni sulla comunicazione che parte dall'ascolto, sulla parola e la sua trasmissione (tradurre è tradire) e sull'immagine, soprattutto un libro nel quale Frasca ci propone una sua idea di realtà intesa non come qualcosa di assoluto e condiviso ma come un processo individuale, un sogno solitario ad occhi aperti.


sabato 10 agosto 2019

Guido Mazzoni – La pura superficie



La pura superficie è una raccolta di testi in prosa e in poesia che già dal titolo si richiamano al Wallace Stevens di Dalla superficie delle cose.
Quello dell'autore è un punto di vista controcorrente, che dichiara fin dalla prima poesia di voler rinunciare a scavare nel profondo per comprendere la natura intima delle cose ("Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti. / Ho scritto un testo che rimane in superficie."), anche se questo non significa rinunciare a descriverle.
Si vive – dice Mazzoni – di precarietà, luoghi comuni e soluzione preconfezionate con le quali cerchiamo di scavalcare la complessità di un mondo che non riusciamo a comprendere, si vive cercando di uscire dall'impasse, esorcizzando con il movimento l'impossibilità di dare un senso alle nostre azioni. Galleggiamo cercando di costruirci piccole isole intime di conforto, anime alla deriva in un mare nel quale stabiliamo relazioni temporanee ("una schermatura, una costruzione fatta per incapsularsi e coesistere senza attrito, prevedibilmente") nascondendo nel profondo un Io fragile, incerto. Chiusi in noi stessi guardiamo la vita attraverso un vetro che ci separa dagli altri, incapaci di rompere quel diaframma che ci permetterebbe di entrare davvero in contatto. Anche le parole non riescono più ad aiutarci perché hanno assunto un significato diverso per chi le pronuncia e per chi le riceve e l'unico viaggio nel quale possono assisterci è quello in verticale, all'interno di noi stessi, non in orizzontale, verso l'altro.

"Da qualche tempo gli eventi scivolano sopra di me,
non mi toccano. Su questo lato
sono con voi, un altro scorre dentro,
è invisibile e mi sovrasta.
Ho proseguito oltre l'ultima fermata,
Étoile, senza una ragione,
guardavo gli altri, volevo distruggere o capire."

sabato 4 maggio 2019

Emanuele Trevi – Qualcosa di scritto




Con Qualcosa di scritto  Trevi affronta Petrolio, l’opera incompiuta di Pasolini, e lo fa dicendo fin da subito che a suo avviso si tratta di un libro spartiacque per la storia della letteratura che da quel momento in poi subirà un vistoso cambiamento di prospettiva:
“Fino alla fine, insomma, P.P.P. lavorò da perfetto rappresentante dell’età moderna, senza sapere che era uno degli ultimi. […]
Finché è durata, la modernità ha convinto tutti di essere eterna. Ogni generazione alzava l’asticella, come un saltatore che si mette alla prova, e trovava la maniera di scavalcarla. Poi, all’improvviso, proprio nel periodo in cui lo scartafaccio di Petrolio aspetta nell’ombra il suo momento, questa prodigiosa macchina si arresta – forse per sempre. Non che la letteratura «muoia», come da più di cent’anni si sperava o si temeva (o tutte e due le cose insieme). Rimane – ahimè – più viva e vegeta che mai: semmai restringe drasticamente, una volta per tutte, le sue potenzialità e le sue prerogative. […]
A metà degli anni Ottanta, lo scrittore più significativo della sua epoca è sicuramente Raymond Carver. Artista tutt'altro che modesto rappresenta alla perfezione lo straordinario cambiamento che si è verificato. Nei suoi libri, noi assistiamo allo sconcertante spettacolo di una letteratura che non pensa più nulla. L’unico compito che lo scrittore si assegna è quello di essere uno storyteller. L’unico mondo di cui parla, è quello che conosce empiricamente – la porzione di gabbia che gli è toccata in sorte. L’unica sua speranza, è che quelle storie piacciano a un buon numero di lettori.”
Insomma: Trevi ci va giù duro, tanto per mettere le cose in chiaro su come la pensa.
Di più: in Qualcosa di scritto, Petrolio travalica l'ambito del romanzo, finendo per costituire una sorta di "iniziazione", il libro sacro del culto del dio Pier Paolo Pasolini, al quale veniamo introdotti dalla figura della sacerdotessa pazza Laura Betti.
Entriamo in una dimensione mistica che comprende anche un pellegrinaggio ad Eleusi: Petrolio si dilata fino a diventare un "rito", un tentativo di andare oltre la realtà nella quale viviamo e il doppio (la metamorfosi sessuale, ma anche il binomio violenza/pietà) diventa lo strumento per avventurarsi in territori inesplorati alla ricerca della visione suprema:
"P.P.P. ha scoperto l’orrenda verità che si nasconde dietro le apparenze, e bussa alle porte dei suoi simili per comunicare le sue scoperte prima che arrivi qualcuno a farlo fuori. Bisogna insistere sul modo della conoscenza, che è corporeo prima che intellettuale, ed è la diretta conseguenza di uno stile di vita, non di un sistema di pensieri e definizioni. L’intellettuale, lo scrittore, in genere è un individuo che possiede un corpo come tutti gli altri, e ne può godere come tutti gli altri, ma al momento di conoscere, conosce solo con la sua mente, mentre P.P.P. butta nella mischia ogni centimetro, ogni grammo della sua carne."

domenica 28 aprile 2019

Emanuele Trevi – Sogni e favole: un apprendistato



Come un sasso nell'acqua

Questo libro mi ha fatto subito pensare all'immagine del sasso che da bambini gettavamo nell'acqua e a come osservavamo affascinati le onde concentriche che generava la sua caduta.
Un andamento a spirale che si nota già a partire dalla scrittura, che non è quello che sembra, nel senso che il libro parte come un romanzo, ma un romanzo "ibrido", che si allarga man mano verso altri generi letterari, come il saggio e l'(auto)biografia.
Ma è un sonetto del Metastasio il nucleo forte, il "sasso" che da il là alla formazione dei cerchi nell'acqua: si tratta di versi che fanno riferimento a come l'immedesimazione dell'autore sul suo mondo interiore generi in lui emozioni vere e che si espandono in anelli sempre più ampi coinvolgendo non solo lo scrittore ma anche il lettore e i suoi sentimenti, in una carrellata che collega Metastasio, Puskin, James, Kafka e Pessoa.
Quelle di Trevi sono riflessioni che partono dalla solitudine dell'uomo e si allargano al suo bisogno di finzione, di qualcosa che lo aiuti a sopportare la realtà, anzi a crearne un "credibile surrogato". C'è necessità di storie – dice l'autore – di una narrazione in cui credere, di indossare maschere che sappiamo essere una menzogna ma che pure ci servono a vivere, a conferirci un'identità, perché "dietro questa apparente infinità di maschere c'è un vuoto uniforme, uno smarrimento universale, nessuno si orienta, nessuno se la cava veramente".
La narrazione, la poesia, la pittura, la fotografia (il ritratto) rappresentano così altrettante finzioni, ma necessarie, perché è solo attraverso l'Arte che l'uomo può aspirare al passaggio dal particolare all'universale, all'assoluto, "quella porzione irriducibile di vita concreta che si sottrae ad ogni forma di genericità, che vale solo per chi la vive, e che fa di ogni essere umano il primo e l'ultimo della sua specie, senza colleghi, senza fratelli, senza nessuno dietro cui ritirarsi al momento decisivo, quello in cui tutte le regole si dissolvono nell'eccezione che sei tu, solo tu."
Si torna così al punto di partenza, alla solitudine dell'uomo, che chiude l'ennesimo cerchio di un viaggio colto e ricco di spunti di riflessione.

sabato 8 settembre 2018

Franco Stelzer – Cosa diremo agli angeli




Vedere è un processo che parte dagli occhi ma arriva al cuore.

Cosa diremo agli angeli è romanzo indubbiamente originale. Il racconto in prima persona di un addetto al controllo dei passaporti d’aeroporto che osserva la gente passare e intanto fantastica su quello che dirà agli angeli quando sarà il momento. Il lavoro manuale (un vano che sta costruendo nella sua casa) è il legame che tiene ancorato il protagonista alla vita reale, il resto è immaginazione, una sorta di voyeurismo delicato, immaginare le vite degli altri come modo per guardare (anche) dentro se stesso.
Cosa diremo agli angeli è un libro breve, frasi corte, sincopate, ma cesellate come strofe di una poesia. Ma al tempo stesso è anche un fiume tranquillo, con Stelzer che dilata il tempo della narrazione per permetterci di godere della bellezza di ogni singolo istante, per aiutarci a recuperare il “nostro” ritmo, quello scandito dai grani della clessidra e non dal cronometro dell’epoca che viviamo. La lentezza è la vera misura, sembra indicarci l‘autore, quella che ci permette di vedere davvero le cose, quella che ci consente di fermarci senza provare sensi di colpa, di lasciare da parte la fretta per apprezzare ogni momento, ogni singolo gesto, di perderci nel mondo e di perderci dentro l’immaginazione.
Stelzer invita il lettore a rivedere le sue priorità, a cercare la bellezza nelle piccole cose, nei particolari secondari, in quello che rimane nell’ombra. Quello che ci propone è un universo nel quale la realtà si allunga verso il sogno e viceversa, un vivere languido ma anche malinconico perché il protagonista è consapevole di quanto la sua esistenza sia sbilanciata verso la contemplazione del mondo, sul pensiero più che sull’azione, anche se si tratta di un pensiero in grado di aprire porte su mille mondi diversi.
Come detto, è una vena lirica quella che attraversa le pagine di questo libro e che accompagna lo sforzo dell’addetto al controllo passaporti di avvicinarsi al cuore delle cose accontentandosi però di rimanere sulla soglia, di guardarle come si guarda un fiore che si teme di rovinare cogliendolo, di vivere rimanendo sempre un passo indietro per paura della delusione, per paura che lasciarsi toccare dalla felicità possa illuderci di possederla per sempre.

domenica 13 maggio 2018

Walter Siti – Troppi paradisi



Chi la scatterà la fotografia?”

Così cantava Raf alla fine degli anni ’80. Già, la fotografia. Quella degli anni ’80 ma anche degli anni ’90. Gli anni della televisione, di Sua Emittenza, dell’effimero, del rampantismo… gli anni di plastica e della Milano da bere, trascorsi a ballare sulla tolda del Titanic senza curarsi dell’iceberg in arrivo.
Quella fotografia l’ha scattata Walter Siti e per essere precisi si tratta di un selfie. Troppo comodo mettersi dall’altra parte dell’obiettivo, sport troppo praticato quello del sottrarsi alle responsabilità perché sono altri che hanno detto, fatto… Siti ci mette la faccia ed è impietoso anche verso se stesso. Attenzione però: la fotografia è solo la facciata, la superficie sotto la quale c’è il lavoro dello scrittore. Siti non si accontenta di descrivere un fenomeno, ma lo analizza con un’attenzione e un’intelligenza che mi hanno fatto pensare, mutatis mutandis, a certe pagine di David Foster Wallace.
Un’intelligenza della quale lo scrittore è consapevole ma che confessa fin da subito gli serve solo per evadere. Il protagonista della storia infatti si definisce “campione di mediocrità”, un uomo animato non tanto dalla pretesa di cambiare il mondo quanto da quella di passarci attraverso con il minimo dei danni. Un uomo sereno e mediocre, che considera la serenità una specie di equilibrio che gli permette di allontanarsi dal dolore del passato e la mediocrità una forma di “impermeabilità alla disperazione e al rischio”, lo scegliere sempre la strada più facile.
È la televisione uno dei motori narrativi del romanzo, televisione che il protagonista considera il suo “centro di calore, la distributrice di emozioni”, televisione che non chiede niente allo spettatore e dalla quale lui può prendere quello che vuole. Evasione, comodo rifugio, droga legale e apparentemente innocua, “surrogato inoffensivo della realtà”, artefice di un mondo rassicurante, di una “realtà depotenziata” (ma forse sarebbe meglio dire mistificata), priva di picchi emotivi ma che mescolando vita e anti-vita finisce per confonderle tramite una sorta di “pantografatura dei sentimenti”. La televisione rappresenta emozioni e stereotipi, tutto quello che mostra deve essere evidente e di facile accesso e lo spettatore deve adattarsi ai modelli proposti.
Dalla descrizione all’analisi: secondo il protagonista del romanzo la televisione è il mezzo utilizzato dall’Occidente  per costruire una nuova forma di religione che pone al centro il consumismo, spostando il paradiso in terra e conferendo alla merce il ruolo di surrogato di felicità. Anche l’Arte è stata travolta da questo ciclone e ha dovuto abdicare al suo ruolo di strumento per trascendere la realtà, finendo ingabbiata, ridotta in cattività: poco a poco tutto è stato trasformato in immagini così che ora anche nel campo del pensiero si maneggiano immagini di idee invece che idee vere e proprie. È la televisione (di nuovo) che traccia la rotta, regolando tempi e modi di questa distribuzione di immagini, proponendoci una realtà finta, edulcorata, manipolata, che finisce per soddisfarci ma che, abituandoci al procedimento per cui l’immagine è la realtà, ci trasforma in un mondo di spettatori e di consumatori, interessati solo al possesso probabilmente perché non più attratti dalla conoscenza.
Scenario desolante, nel quale non si capisce più cosa è vero e cosa falso, territorio in cui il protagonista del libro sceglie di muoversi con atteggiamento di distacco, convinto che l’ipocrisia che manifesta sia preferibile a un cinismo che sarebbe troppo impegnativo. Inutile combattere battaglie di retroguardia, più semplice riconoscere la sconfitta e ritirarsi nel privato limitandosi a una sopravvivenza dedicata al tentativo di appagare pulsioni e sentimenti e di tenere a freno quel ribollire di demoni e delitti che agitano il suo animo.
Pur non proponendosi a modello di nulla, forse è proprio quello privato l’ambito  nel quale l’autore suggerisce di organizzare ognuno la propria forma di resistenza, se è vero che quelli che il suo protagonista ci propone con (eccessiva?) dovizia di particolari sono amori eccessivi, malati, estremi è anche vero che sono reali, che muovono da un sentimento forte, sicuramente più veri dei modelli proposti dalla televisione.

sabato 28 aprile 2018

Giorgio Falco – Ipotesi di una sconfitta



Con Ipotesi di una sconfitta Falco firma un buon romanzo, da ascrivere a quel filone “sociale” nel quale si sono cimentati recentemente Trevisan, Maino ed altri, affrontato dal versante autobiografico ma fortunatamente ben lontano da certo autobiografismo di maniera stile Grande Fratello televisivo (alla Knausgård, per intenderci).
Un romanzo (anche) di formazione, sull’Italia contemporanea e soprattutto sul rapporto dell’uomo con il lavoro e su tutto quello che da questo rapporto consegue. Attualità, prima persona singolare, alienazione dell’individuo… sono un terreno particolarmente insidioso, sabbie mobili nelle quali l’autore riesce a non rimanere invischiato facendo leva su una narrazione quanto mai onesta, che evita i luoghi comuni per privilegiare l’esperienza diretta. Falco trova la sua misura mantenendosi alla larga dalle secche dell’autocompiacimento o dell’indulgenza verso se stesso, guardando in faccia la propria confusione senza la pretesa di elevarla a confusione generazionale ma rappresentandola per quello che è, senza proporre scorciatoie o improbabili vie di fuga. Con Ipotesi di una sconfitta l’autore conferma quanto di buono  aveva già fatto vedere con L’ubicazione del bene e La gemella H.. Scrittore da seguire.

sabato 7 aprile 2018

Cesare De Marchi – La furia del mondo



La Grande Letteratura.

Libro alto. Quasi di altri tempi. Una scrittura rotonda, controllata, lenta e che a tratti appare anche un po’ impolverata, perché questo è un libro pubblicato nel 2006 ma che potrebbe tranquillamente essere stato scritto cento anni prima. 
La furia del mondo è un grande romanzo italiano, uno di quelli dei quali andar fieri e che contiene un sacco di cose: trama e ordito, scrittura e intreccio e poi arte, storia, filosofia, musica… Da Tasso a Giordano Bruno, dalla Divina Commedia a Shakespeare a Lutero, al padre di Bach, e tutto tenuto insieme meravigliosamente bene.
Un libro sull’inesplicabilità della vita, sulla ricerca vana di Rupprecht Radebach di trovare ad essa un senso. Un libro sulla “volontà intorpidita” di Abel (nomen omen), uccello troppo fragile per resistere alla furia del mondo. Ma anche un libro sulla vita di Uli e di Annette e di Christa e della malmaritata e di mille altre figure che faticano, che si adattano o provano a farlo, cercando un equilibrio che è fatto anche di rinunce o rimpianti e che si porta dietro il dolore e la fatica di una vita che rimane sempre troppo lontana da quella che avrebbero voluto. 
Con La furia del mondo De Marchi sceglie la strada della continuità, con una prosa che rinuncia al mito del post-qualcosa e del meta-qualcos’altro per inserirsi nella scia della tradizione e sfoderare un romanzo di grande spessore, uno dei grandi romanzi italiani del nuovo millennio.

sabato 10 marzo 2018

Paolo Zanotti – Bambini bonsai




"È solo dopo, quando bambini non si è più, che si capisce come vanno davvero le cose."

Bambini bonsai è uno strano racconto nel quale si intrecciano le voci di una prima persona  e quella di Pepe, il protagonista della storia. Siamo all'interno di una favola sull’infanzia ambientata in un futuro prossimo quasi distopico, nel quale gli animali si sono estinti, il clima è cambiato, il mare è una superficie oleosa e sui resti del cimitero genovese di Staglieno sorge  una specie di baraccopoli. All’inizio il bambino è una specie di pupazzo carnoso costretto a stare dentro un secchio d’acqua per il rischio di disidratarsi; il padre, un androide con parti sostituite da protesi meccaniche, è un uomo fallito perso nella bottiglia di carrubo e nei sogni musicali e sottomesso alla moglie, una donna dominante e lontana, una bellissima spagnola sempre pronta a civettare con chiunque. La figura di adulto con la quale Pepe ha un rapporto privilegiato è zia Incarnazione, che gli regala modellini di animali e soprattutto la scatola con il ritratto della bimba dagli occhi di albicocca, regalo che apre a Pepe le porte del sogno e della fantasia.
Sarà una grande pioggia a segnare il punto di svolta nella vita del ragazzino, pioggia come rito di passaggio che porta i bambini  staccarsi dagli adulti per entrare nella vita vera come protagonisti. Rito di passaggio anomalo però, perché gli adulti la temono e si rintanano al chiuso incapaci di fronteggiarla, rivelandosi i veri immaturi della situazione.
Inutile riassumere ulteriormente la trama, meglio lasciare al lettore il piacere di scoprire la teoria di personaggi che animano le pagine del libro: la piccola Primavera, Petronilla (una specie di Alice nel Paese delle Meraviglie) con la sua variopinta compagnia di amici e Sofia, soprattutto. Da gustare sono anche gli episodi poetici e surreali dei quali Zanotti dissemina il percorso: i sogni premonitori di Pepe, i suoi strani incontri, il lamento del mare morente, l’utilizzo fantasioso degli animali nelle metafore, i denti di memoria...
Bambini bonsai è stata una lettura sorprendente. La descrizione fedele del mondo poetico e insieme crudele dei bambini, una parabola moderna sull’Eden perduto dell’infanzia e sulla rinuncia dolorosa ai sogni che comporta il passaggio all’età adulta ("mi ero illuso che crescere significasse solo accumulare cose nuove. Ma ecco che dovevo aprire gli occhi. Prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente").

Se ripenso oggi a quel periodo me lo ricordo tutto affollato di fantasmi, simulacri, nebbie di immagini. Del resto cosa c’è di concreto nell’infanzia? Persino gli adulti non sono altro che un sogno che si fa da bambini: è solo dopo, quando bambini non si è più, che si capisce come vanno davvero le cose, e che non c’è poi tutta questa differenza.

sabato 26 agosto 2017

Primo Levi – Se questo è un uomo

Ragione e sentimento

Ci sono libri della cui importanza sei perfettamente consapevole. Eppure li hai sempre evitati. Sono i libri che parlano del male, del dolore che l’uomo infligge a se stesso. È come quando incontri qualcuno che ha appena subito un lutto e non sai cosa dirgli, perché qualsiasi parola suonerebbe inadeguata. Ti senti a disagio, come a disagio ti senti davanti a quest’opera. Perché l’Olocausto è un lutto troppo grande per pensare di poterlo avvicinare con le parole.
Levi, che pure quell’esperienza l’ha vissuta, le parole le ha trovate. E sono parole sorprendenti: non c’è odio in queste pagine, ma precisione chirurgica, voglia di comprendere i misteri dell’animo umano, analisi accurata dei comportamenti.

Se questo è un uomo è un’opera in equilibrio perfetto tra ragione e sentimento, un asse sospeso nel vuoto sul quale Levi cammina con passo sicuro, sfidando i venti impetuosi dell’emotività che accompagnano il ricordo. Una passeggiata pericolosa ma necessaria, perché è fatta nel in nome della Verità. 

sabato 15 aprile 2017

Luigi Serafini – Codex Seraphinanus


 “Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione.“

E non solo. Dopo la lettura del Codex, potremmo integrare la definizione di genio data dal grande Perozzi in questa maniera: genio è (anche) capacità di inventare qualcosa di nuovo partendo da un materiale strausato.
Parliamo del materiale-libro in una delle sue varianti più noiose: l’enciclopedia.
Già, il Codex è più di un triplo salto mortale senza rete, più di una scalata di un ottomila, più di un salto dalle cascate del Niagara dentro ad una botte, più…, più. Con il Codex  Serafini sfida le leggi della narrativa e le stravolge scrivendo un libro stranissimo, nel quale l’iconografia mescola immagini di fantasia con altre riconoscibili ma usate fuori dal loro contesto abituale e la scrittura è in una lingua asemica, fatta di segni che si ripetono, di maiuscole e minuscole, di tratti in grassetto, quasi a indicare la presenza di regole che pure sono destinate a rimanerci sconosciute.
Non comprendete le tavole che vi propongo? – sembra dirci l’autore – Nessun problema, ecco in calce la spiegazione. Peccato che anch’essa rimanga fuori dalla nostra portata, in una specie di gioco che da una parte ci attira e dall’altra ci rimbalza, ci spinge a cercare di comprendere e poi ci nasconde gli strumenti necessari.  
Uno scherzo? Forse, ma non solo.
Un passatempo per bibliofili un po’ snob? Sicuramente.
Un modo di épater le bourgeois? Possibile.
Il Codex è tutto questo e anche molto di più: un libro da leggere con il cuore di un bambino e la testa di un adulto, camminando in bilico tra sonno e veglia, fantasia e ragione. Forse quello che ci chiede il Codex non è capire, spiegare, dare un senso, trovare una trama, procedendo in linea retta dall’inizio alla fine… ma lasciarci andare, seguire il ritmo, la nostra musica, aggirandoci tra le pagine del libro come tra i fiori di un prato, lasciandoci colpire da una figura, da un accostamento di immagini, da un gesto.
Rimettere il lettore al centro. Suscitare emozioni, ricordi, pensieri. Far vivere un’immaginazione troppo spesso tenuta controllata da mille regole, questo credo sia lo scopo del Codex

domenica 29 gennaio 2017

Giorgio Manganelli - Centuria

 Non solo esercizi di stile.

Piccoli quadri surreali (à la Magritte, verrebbe da dire) di raffinata eleganza formale. Finestre aperte sugli abissi dell’anima, brevi scene apparentemente senza peso, rarefatte, che muovono dalle banalità del quotidiano e che sotto l’aspetto di una finta innocenza celano un attacco alle strutture del reale, all’ordinario, al consueto. Tentativi di riappropriarsi dell’incerto, delle zone d’ombra; piacere dell’attesa per l’attesa.

Al centro c’è l’uomo, ripiegato su se stesso. La sua ricerca di ordine, di coerenza, di logica, che si scontra con l’elemento esterno, l’imprevisto, l’emozione. Appuntamenti mancati, ipotesi che potrebbero spiegare, tentativi di razionalizzare… e che finiscono con l’andare in tutt’altra direzione.

Protagonisti che sembrano chiusi in scafandri di ferro, personaggi anaffettivi che d’improvviso si trovano davanti i sentimenti e faticano a decifrarli, perché per leggerli usano gli strumenti della razionalità. Uomini descritti come viandanti ciechi che si aggirano smarriti in un mondo di domande senza risposte.