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sabato 8 giugno 2024

Saša Sokolov – Trittico

 


Saša Sokolov – Trittico
(trad. Martina Napolitano)
Miraggi Edizioni, 2024

Sperimentale.

Già da tempo erano evidenti i segnali di un cambio di rotta nel percorso letterario di Sokolov e Palissandreide in questo senso risulta paradigmatico, con il tentativo di contenere tutto: prosa alta e bassa, citazionismo, utilizzo di registri diversi, salti temporali… il passo successivo era nell'aria e ora possiamo dire che la bolla, dopo essersi tanto gonfiata, è scoppiata.
Dall'esplosione è saltato fuori Trittico, un esperimento di "proezia", insieme di prosa e poesia che sembra essere la nuova isola verso la quale lo scrittore russo ha puntato le vele. Si tratta di tre testi non strettamente legati tra loro se non sul piano ideale, che vanno letti senza cercare di seguire una trama che non c'è ma concentrandosi sulla forma più che sul contenuto, sulla scrittura che cerca di avvicinarsi alla musica. Testi che semplificando possiamo riassumere a riflessioni sul Bello, sull'Arte come unico strumento in grado di elevare l'uomo portandolo verso una dimensione superiore.
Dispiace che Sokolov abbia deciso di interrompere la sua esperienza nel campo della narrativa dopo solo tre romanzi, soprattutto perché dava l'impressione di avere ancora tanto da dire, e nutro un po' di apprensioni per quello che ci riserverà in futuro perché il rischio che si avventuri in uno sperimentale troppo "spinto", ai limiti dell'illeggibile (almeno per me), sembra reale.

Link
https://www.esamizdat.it/ojs/index.php/eS/article/view/23/15

sabato 10 dicembre 2022

Punto di fuga – Mikhail Shishkin

  

La vita è antinomia.

L'epistolario, Pismovnik nel titolo originale, è un genere letterario ampiamente usato. In questo caso sono lettere d'amore che intercorrono tra Volodja, giovane scrittore arruolatosi come volontario nella rivolta dei Boxer del primo Novecento e Saška, l'innamorata che vive nella provincia russa. Sentimenti, progetti, sogni di felicità. ricordi ed esperienze di vita… nella corrispondenza tra i due ritroviamo tutto quanto ci si attende dalla narrativa di genere ma Shishkin ha la capacità di rivitalizzare una forma narrativa un po' consunta inserendo la trama all'interno di un raffinatissimo progetto nel quale adotta costruzioni della geometria descrittiva: prospettiva e punto di fuga (da qui il titolo dell'edizione italiana, per una volta migliore dell'originale) diventano così strumenti letterari attraverso i quali l'autore riesce ad imprimere profondità e vitalità a una storia che altrimenti correrebbe piatta, uguale a mille altre.
Punto di fuga è un gioiello di abilità formale nel quale però la tecnica sopraffina è sempre al servizio del messaggio che deve veicolare. Aprire lo spazio narrativo a vie di fuga che corrono in direzioni diverse e non coincidenti comporta però il rischio di amplificare le eventuali sbavature della trama e di perdere per strada il lettore, Shishkin invece governa con penna sicura il materiale che dispone sulla pagina: amore/morte, realtà/fantasia, presente/ricordo, superfluo/necessario… il romanzo è costellato da coppie di concetti che contrastano l'uno con l'altro e che indicano i punti lungo i quali corrono le linee della vita ( "Guarda, la prospettiva tiene insieme il mondo, come una corda appesa a un chiodo tiene un quadro. Se non fosse per quel chiodo e quella corda, il mondo cadrebbe a pezzi." E ancora "E all'improvviso ho distinto chiaramente le linee che collegano tutti gli oggetti a quel punto di fuga, come fili. O meglio, come elastici tesi allo stremo").
Vivere è inevitabile, le cose succedono, ma all'interno di questa cornice tutto è relativo, anche il tempo che corre a una velocità diversa per ogni persona ("il tempo siamo noi. Forse che il tempo esiste senza di noi?") e così anche le lettere che i due innamorati scrivono si perdono nel mare dell'asincronia risultando in realtà messaggi in bottiglia, missive scritte più a se stessi che all'altro. Ma anche la scrittura si proietta verso due punti di fuga divergenti e così si deve scrivere perché "solo le parole giustificano in qualche modo l'esistenza delle cose, anno un senso all'attimo, rendono reale l'irrealtà, mi rendono me stesso" ma contemporaneamente "le parole sono ingannatrici. Ti promettono di portarti in viaggio, poi se la svignano a vele spiegate, mentre tu rimani a terra. E soprattutto, il reale non sta in nessuna parola. Il reale ti ammutolisce. Tutto ciò che di importante accade nella vita è al di sopra del reale".
Mikhail Shishkin è il nome che aggiungo a quelli di Lobo Antunes, Cărtărescu, e Krasznahorkai nel mio gotha degli scrittori contemporanei.

domenica 2 ottobre 2022

Capelvenere – Mikhail Shishkin



Oltre il postmoderno (verso il postrealismo?)

Capelvenere è un grande e raffinato romanzo polifonico articolato su tre macro-storie, quella raccontata dall'interprete che traduce le parole dei migranti che arrivano in un ufficio svizzero, il diario della cantante lirica Bella Dmitrievna e quella di una coppia in crisi, tre storie che costituiscono la trama sulla quale si intrecciano i fili di un ordito ricchissimo espresso con una pluralità di stili, generi letterari e citazioni davanti alle quali il lettore rischia di sentirsi come un guscio di noce in balia delle onde. Trovare la rotta diventa un imperativo per non affogare nelle pagine di Shishkin e seguire le voci dei personaggi è la strada che può aiutarci ad entrare un po' alla volta in sintonia con il romanzo.
Si parla di guerra, di ricordi, di ricerca della bellezza e della felicità e soprattutto – tema ricorrente dell'autore russo – dell'importanza della parola, del potere della narrazione. "Le persone diventano le cose che raccontano", dice uno dei protagonisti: le storie per essere vere, per esistere, devono essere raccontate. Non importa chi sia il narratore, non importa chi siano i personaggi, né che le storie abbiano una logica o che si sviluppino secondo un andamento temporale preciso, perché la parola permette anche di sfuggire alla tirannia del tempo ("liberi di ritornare in qualsiasi punto in qualsiasi momento. E la libertà più dolce è la libertà di ritornare dove sei stato felice").
La parola diventa ancora più importante perché non sappiamo vedere: "noi siamo ciechi dalla nascita, non vediamo niente e non riusciamo a cogliere il nesso degli eventi, l'unità delle cose, come le talpe". Scrivere "perché rimanga almeno qualcosa", perché ciò di cui non si scrive è condannato all'oblio. Scrittura quindi con funzione non solo di testimonianza ma anche salvifica, perché le parole hanno il compito di traghettare i fatti verso "il mare dell'immortalità".

Links
http://www.culturactif.ch/livredumois/mars07shishkin.htm
http://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2019/05/Violazione-dei-confini-del-postmodernismo-Capelvenere-di-Michail-%C5%A0i%C5%A1kin.pdf

 

sabato 30 luglio 2022

Lazzaro e altre novelle – Leonid Andreev

 


La sontuosa traduzione di Rebora restituisce con la sensibilità del poeta la cura nella scelta delle parole – in passato, a torto, rubricata a "sterile estetismo" (Borgese) – di un grande scrittore del primo Novecento russo troppo presto dimenticato. 
Lazzaro è un racconto narrato dal punto di vista del resuscitato. Lazzaro ha conosciuto la morte, ne ha fatto esperienza e per questo non può tornare al mondo dei viventi che profondamente cambiato. Si è affacciato sul bordo, ha visto l'orrore dell'infinito e ora lo porta dentro di sé per trasmetterlo attraverso gli occhi alle persone con cui viene in contatto. Assistiamo a un originale e raffinato cambiamento di prospettiva: Andreev trasforma la resurrezione in condanna invece che in miracolo e Lazzaro in un morto-vivente, una dimostrazione della grandezza della morte più che un inno alla vita o, per meglio dire, una dimostrazione dell'impossibilità dell'uomo di comprendere il Grande Mistero.
Notevoli sono anche gli altri racconti della raccolta che oltre a non comuni capacità di scrittura, si segnalano per l'attenzione alla psicologia dell'uomo, spesso vittima di sistemi più grandi di lui che finiscono per schiacciarlo. L'uomo, con il suo carico di debolezze, dubbi e meschinità, è al centro della riflessione di Andreev, un autore da recuperare quanto prima.

domenica 12 giugno 2022

La presa di Izmail – Mikhail Shishkin

 


Il Giudizio Universale.

Romanzo difficile da approcciare. Sin da subito si ha l'impressione di infilarsi in un ginepraio e di perdere l'orientamento, al punto che dopo le prime ottanta pagine sono dovuto tornare all'inizio per cercare di ricostruire pazientemente la trama, provando ad entrare in sintonia con la penna di Shishkin.
Si parte con un'arringa di tribunale che mette in dubbio i concetti di colpa, giustizia e verità e che costituisce il tema narrativo principale del romanzo, ma che subito si complica coinvolgendo il pantheon delle divinità slave in una specie di teoria della creazione attualizzata alla scopo di individuare il senso della vita. Di qui in poi la trama esplode, si frammenta in salti temporali e cambi di prospettiva, con la voce narrante che cambia nome lasciandoci nel dubbio se sia sempre la solita. Si alternano citazioni e riferimenti colti, personaggi mitologici, storici e di fantasia, la trama risulta spezzettata in una serie di episodi, descrizioni che a volte rimangono in sospeso e a volte sono riprese da un altro punto di vista. La presa di Izmail è una matassa di fili colorati, orchestrata con una pluralità di registri e stili in un'interpretazione personale del post-moderno dove la disgregazione della struttura narrativa sembra aprire nuove vie alla forma romanzo.
A Shishkin non interessa spiegare e nemmeno dare continuità alla storia, si limita a fornirci i materiali su quali riflettere, mostrandoci una teoria di situazioni alle quali i personaggi del romanzo provano ad attribuire un significato, cercando colpevoli per morti e sofferenze che risultano tanto inutili quanto inevitabili.
Cos'è la giustizia? E cos'è la verità? Impossibile da dire, soprattutto quando la realtà del sogno finisce per confondersi con quella della vita. Siamo in un territorio strano, dominato da uno straniamento esistenziale venato da un'ironia amara. Tutto è instabile, provvisorio, mutevole, al punto che il solo appiglio per questo viaggio dentro la coscienza (individuale e collettiva) sembra essere la scrittura. Unico porto franco diventa, forse, quello dell'immaginazione con la quale è possibile disegnare un mondo che soddisfi le nostre regole, quelle stesse regole che nella vita vera diventano inapplicabili perché la realtà è fatta di interpretazioni, punti di vista e la verità una chimera che continua a farsi beffe dell'uomo.
La presa di Izmail è un lungo processo alla Russia, per non dire all'umanità tutta.

«è proprio quella la grandezza della letteratura che si rispetti: non solo svelarci ciò che non esiste, ma anche ciò che non potremmo arrivar a concepire.»
[Augustin Fernández Mallo: Teoria della guerra]

domenica 20 giugno 2021

Memoria della memoria – Marjia Stepanova

 


«il libro sulla mia famiglia alla fine non è affatto sulla famiglia, ma su qualcos'altro. In realtà è sul meccanismo della memoria e su ciò che vuole da me.»

Memoria della memoria è un'opera sorprendente tra saggio e romanzo in cui, in una sovrapposizione di piani narrativi, letterario e meta-letterario finiscono per trarre linfa uno dall'altro. Stepanova riprende i fili di un tema che attraversa la letteratura europea e russa dal dopoguerra ad oggi, che sviluppa in maniera personale corredando i suoi pensieri con un intertesto ricchissimo.
I ricordi personali, quelli della scrittrice e della sua famiglia, diventano il pretesto per sviluppare una riflessione ad ampio raggio che parte dai materiali della memoria (oggetti, fotografie, lettere…) per affrontare il canone della memoria in senso lato. Stepanova individua i trabocchetti di cui è costellato il percorso, dai falsi ricordi ai rischi della post-memoria e si confronta con punti di vista diversi: quello di Mandel'štam di "seppellire il tempo passato in una bara di pino", quello di Charlotte Salomon di affrancarsi dal passato descrivendolo, quello di Joseph Cornell di salvare attraverso le sue scatole la memoria del passato e quello di Sebald – il più vicino alla scrittrice russa – che intende il tempo "come una caverna porosa, simile a certi monasteri scavati nella roccia, nelle cui celle ciascuno svolge il proprio lavoro parallelo".

In questo libro l'autrice lavora su due livelli, familiare e nazionale. Su quello familiare si propone di mettere ordine nei propri ricordi nonostante la consapevolezza che si tratta di un ordine illusorio. L'impresa merita comunque di essere intrapresa perché ha il potere taumaturgico di "farla stare meglio" e anche perché raccontare il mondo dei ricordi le consente di strapparlo per un attimo dall'oblio.
Sul piano nazionale invece, prova ad affrontare e superare la fissazione del mondo letterario russo per il passato, specchio di una crisi ideologica caratterizzata dal rifiuto di confrontarsi con il presente e di pianificare una prospettiva per il domani.
Memoria della memoria è un grande libro sul bisogno e insieme sull'impossibilità della memoria.

Sapevo che il vero aleph di questa narrazione l’avevo già in tasca. Era una statuina minuta, circa tre centimetri di lunghezza, di porcellana bianca e fattura piuttosto convenzionale, un putto nudo e riccioluto che sarebbe potuto passare per un cupido, se non fosse stato per i calzini. L’ho comprato su una bancarella di antiquariato a Mosca, dove si sono resi conto tardi che gli oggetti del passato sono costosi. Ma non mancavano quisquilie da due soldi, e infatti in una vaschetta colma di ogni genere di bigiotteria intravidi una scatola che conteneva un mucchietto di cosini bianchi. Stupiva che non ce ne fosse almeno uno tutt’intero, bene o male ostentavano tutti qualche mutilazione: chi niente braccia, chi niente testa, e tutti quanti senza eccezione scheggiati e ammaccati. Li rigirai a lungo tra le dita in cerca di uno un po’ più grazioso, finché non trovai il più bello. Era quasi intero ed emanava un luccichio da regalo. Ricci e fossette al loro posto, e anche i calzini lavorati a maglia, e né la macchia scura sulla schiena né l’assenza delle braccia impedivano di deliziarsene. Naturalmente chiesi alla signora della bancarella se per caso ne avesse uno ancora più integro, e in risposta mi raccontò la storia che decisi di approfondire. Queste statuine da due soldi sono state prodotte in una città tedesca per mezzo secolo, mi disse la signora, dalla fine degli anni ottanta del XIX secolo. Le vendevano un po’ dappertutto, nelle drogherie e nei negozi di casalinghi, ma la loro funzione principale era un’altra: semplici ed economiche, venivano usate nel trasporto delle merci come paracolpi friabili, affinché le cose pesanti non si sbeccassero urtandosi nel buio. In pratica queste statuine venivano prodotte apposta per essere mutilate; ma poi, prima della guerra, la fabbrica chiuse. I magazzini, pieni di queste piccole porcellane, rimasero dismessi finché non finirono sotto un bombardamento, e parecchio tempo dopo, quando le casse vennero aperte, dentro non rimanevano che pezzi monchi. Così comprai il mio putto senza prendere nota del nome della fabbrica o del telefono della signora della bancarella, sapendo però che probabilmente mi portavo in tasca il finale del mio libro: la soluzione del problema che si ha l’abitudine di cercare nelle ultime pagine. Diceva già tutto. E che non esiste storia che arrivi integra fino a noi, senza piedi malconci e teste penzoloni. E che lacune e strappi sono l’immancabile compagno di viaggio dello stare al mondo, il motore recondito, il meccanismo della futura accelerazione. E che solo il trauma ci trasforma da prodotti di massa in un noi inequivocabile, un noi al dettaglio. E che naturalmente anch’io sono una di quelle statuine, un oggetto di larga produzione, frutto della catastrofe collettiva del secolo andato, suo survivor e involontario beneficiario, al mondo per miracolo e tra i vivi.
[…]
Una sera piovosa la statuina mi cadde di tasca e si ruppe sul pavimento di piastrelle della vecchia casa, come l’uovo d’oro nella favola della gallina pezzata. Si ruppe in tre pezzi, la gamba nella calzina volò sotto la pancia della vasca da bagno, il corpo da una parte, la testa dall’altra. Ciò che illustrava alla meno peggio l’integrità della storia propria e famigliare d’un tratto divenne allegoria: dell’impossibilità di raccontarla e dell’impossibilità di conservare almeno qualcosa, e della mia totale incapacità di rimettere insieme me stessa dai frantumi di un passato altrui o almeno appropriarmene in modo convincente.

sabato 8 agosto 2020

Eugenio Onegin – Aleksandr Sergeevič Puškin

L'Eugenio Onegin è uno dei capisaldi della letteratura mondiale, l'equivalente della nostra Divina Commedia.

Siamo al cospetto di un romanzo in versi che prende le mosse dal romanticismo byroniano (il modello a cui Puškin fa riferimento sembra essere il Don Juan) per reintepretarlo in chiave personale e nazionale, finendo per aprire una strada che porta verso il realismo. Un progetto così ambizioso da apparire sulle prime "troppo poco politico" a chi si attendeva un maggior impegno sociale da parte dell'autore e mi riferisco soprattutto agli ambienti vicini ai decabristi che probabilmente non capirono quanto l'orizzonte dello scrittore fosse più vasto rispetto al loro. Quello che Puškin si propone con l'Onegin è infatti realizzare un'opera di ampio respiro, che non lasci fuori nessuno degli aspetti della vita russa, un poema epico sugli usi e i costumi nazionali visti in rapporto alla cultura occidentale. Politica quindi, ma non solo politica.

E centra perfettamente il suo obiettivo, componendo un testo di valore inestimabile, una vera e propria enciclopedia dell'anima russa nella quale troviamo tendenze culturali differenti, aspetti sociali e tipi psicologici contrastanti che convivono fianco a fianco armonizzati in maniera sublime.

Inutile entrare nello specifico, basti dire che personaggi come Onegin e Tatiana sono diventati nel corso del tempo veri e propri stereotipi.

L'Onegin è un'opera così ricca che diventa per me difficile sviluppare un ragionamento organico: basta tirare uno qualsiasi dei fili che compongono il tessuto del romanzo per andare in direzioni diverse, come hanno fatto tanti scrittori che in maniera più o meno consapevole hanno preso spunto dall'opera di Puškin (penso ad esempio a come cambiano i caratteri dei protagonisti, alla loro evoluzione nel corso del romanzo che non può non far pensare a Dostoevskij). 

Tutto nell'Onegin è originale: a partire dalla scelta dell'autore di scrivere in prima persona ma senza identificarsi direttamente nel protagonista e scegliendo di rivolgersi direttamente al lettore per esprimere le sue opinioni, per arrivare alla capacità di inserire nella trama digressioni liriche di struggente bellezza senza per questo appesantire una narrazione che procede per contrapposizioni: campagna/città, giovani/adulti, arte/vita, ragione/sentimento e, soprattutto occidentalismo/slavofilia, la madre di tutte le  contrapposizioni russe.

 " Puškin è un fenomeno straordinario, e forse un fenomeno unico dell'anima russa, come ha detto Gogol': Aggiungo, da parte mia: un fenomeno anche profetico."

[Fëdor Michajlovič Dostoevskij]

 

 


domenica 19 luglio 2020

Breve storia dei russi – Aleksandr Herzen




Herzen scrive questa Breve storia dei russi subito dopo il fallimento della primavera dei popoli del 1849, quando in Russia è viva la disputa tra occidentalisti e panslavofili, la sua è quindi un'analisi fatta dal dentro, mentre cioè le cose stanno accadendo e priva quindi di quella distanza temporale dai fatti che permette agli storici di giudicare con migliore precisione. Eppure, nonostante l'influenza romantica, quella che sviluppa è un'analisi interessante della storia sociale russa, nella quale gioca un ruolo di primo piano anche la letteratura (con pagine importanti sul ruolo di Puškin, Polevoj, Senkovskij, Belinskij, Ciadajev, Lermontov e Gogol').
Herzen vede la Russia del 1848 come un "cantiere" che affonda le radici nella guerra patriottica (Отечественная война) del 1812 e considera gli avvenimenti precedenti come un antefatto. Nella sua trattazione parte dalla Rus' di Kiev e dagli elementi estranei che nei secoli si mescolarono alla civiltà russa, a partire dai normanni (i vareghi) che dal IX al XVII secolo rappresentarono le famiglie sovrane, ai bizantini (con la conversione all'ortodossia greca nel 1600), fino alle devastazioni dei mongoli e alla creazione dei khanati. La rivolta che ne seguì portò all'affermazione dell'assolutismo moscovita invece che al successo delle istituzioni comunali che proponeva il principato di Novgorod, con l'avvento degli zar e la divisione in classi sociali sotto Pietro I.
Per Herzen, si diceva, una data fondamentale è quella della Campagna napoleonica del 1812, quando il popolo prese le armi per difendere l'impero dal nemico francese, senza ricevere alcuna ricompensa in cambio del sangue versato in nome della patria. Questo (e non solo questo) aprì le porte ai moti decabristi, alla repressione di Nicola I ma anche, negli anni successivi al 1840, al ritorno alle idee nazionali con il confronto di idee tra panslavismo moscovita ed europeismo russo. Nella ricerca di  un "ordine di cose più conforme al carattere slavo", gli slavofili commisero secondo l'autore l'errore di rifugiarsi sotto la croce della chiesa greca predicando "il disprezzo dell’occidente, l’unico ancora atto a gettare luce nel buio baratro della vita russa e il passato, da cui appunto ci si sarebbe dovuti liberare.
Quella che Herzen propone sembrerebbe così una "terza via", che persegue con convinzione esortando i suoi connazionali a fare un passo avanti per liberarsi dai sistemi di potere del passato cercando di coniugare il bisogno di istituzioni forti con la libertà dell'individuo, nella speranza che la forza del suo popolo unita al bisogno di stabilità possa trainare anche gli altri popoli europei nella rivolta contro l'assolutismo:

"Si rimprovera all’Europa che non può staccarsi dalle sue istituzioni; però gli slavofili non solo non sanno dire come essi pensino di risolvere la contraddizione fra stato e libertà dell’individuo, ma evitano persino di entrare in particolari dell’organizzazione politica slava, di cui non smettono di cianciare. Essi non hanno occhio se non per il periodo di Kiev, e per la comunità rurale. Ma il periodo di Kiev non impedì il sopravvento del periodo di Mosca, né salvò dalla perdita di tutte quante le libertà; la comunità rurale non salvò dalla servitù i contadini. Non vogliamo certo negare l’importanza della comunità, poiché essa è una accolta di uomini liberi, e senza la libertà personale non v’è nulla di solido e durevole. L’Europa, che non conosce quell’istituzione, o l’ha perduta nel corso dei secoli, ne ha compreso l’importanza, e la Russia, che la possiede da un millennio, se ne rende conto solamente da quando l’Europa ha diretto la sua attenzione sul tesoro che nasconde nel suo seno. Si è cominciato ad apprezzare la comunità slava solo da quando il socialismo la sta propagando. Invitiamo gli slavofili a provare il contrario. L’Europa non ha risolto il contrasto fra individuo e stato, ma almeno l’ha messo in discussione. La Russia s’è affacciata al problema dal lato opposto, ma non l’ha risolto neanche lei. La nostra parità comincia solo per l’esistenza di questo problema. Le nostre speranze sono più vive, perché siamo all’inizio; ma una speranza è tale unicamente perché è possibile che non s’avveri mai."

sabato 6 giugno 2020

Tutti i racconti – Clarice Lispector



"La coerenza non la voglio più. Coerenza vuol dire mutilazione."

Il mio scrittore preferito è brasiliano ma è nato in Ucraina.
Il mio scrittore preferito è una scrittrice.
Il mio scrittore preferito è Clarice Lispector.

Scrive sempre la stessa storia, una storia di solitudine, un'introspezione letteraria sempre nuova e sempre uguale,  una discesa nelle profondità dell'Io. È un percorso tra zolfo e incenso, un furioso attorcigliarsi alla ricerca della natura dell'uomo e delle cose. Un viaggio affascinante eppure impossibile, perché destinato ad arrestarsi sulla soglia della conoscenza.
Clarice Lispector è una scrittrice cerebrale. Il suo ambito di ricerca è limitato, limitatissimo: parte dall'oggetto e si ferma al pensiero dell'oggetto. Alla parola spetterà poi il compito di tradurre quel pensiero ma Lispector si ferma allo stadio precedente, a quello che avviene dentro alla persona, a quel calderone nel quale si agitano idee, sentimenti, esperienze contrastanti e che poi, solo poi, si esprimeranno in qualche modo. È in quel calderone che Lispector ha scelto di gettarsi, novello Ulisse che decide di imbarcarsi in un'impresa irrealizzabile ma alla quale non sa sottrarsi.
E così, anche questi racconti non fanno altro che inserirsi nella scia delle altre opere della grande scrittrice brasiliana. Non tutti, ovviamente, sono di pari valore, spesso globalmente rimangono al disotto del livello eccelso dei romanzi, anche perché il limite imposto dalla forma racconto impedisce loro quell'approfondimento esasperato che è il marchio di fabbrica di Clarice Lispector. Nonostante ciò, immergersi nel mare della sua prosa rimane per me un'esperienza unica, che ogni volta mi confonde e mi inebria perché mi stimola ad arrampicarmi sugli stessi specchi, a seguirla su un terreno che sembra crollare ad ogni passo.
Parliamo, di nuovo, di un viaggio, di una discesa degli abissi dell' anima:
"Adesso so tutto su coloro che cercano di sentire per sapere che sono vivi. – scrive in Ossessione – Intrapresi anch'io questo viaggio pericoloso, così povero per la nostra terribile ansia. E quasi sempre deludente. Imparai a far vibrare la mia anima e so che, mentre ciò accade, nel più profondo del proprio essere si può restare vigili e freddi, appena a osservare lo spettacolo che abbiamo creato per noi stessi."
Per aggiungere più avanti:
"avevano risvegliato in me la sensazione che nel mio corpo e nel mio spirito palpitasse una vita più profonda e più intensa di quella che vivevo.".
Si scende sempre più giù, alla ricerca della natura più vera, alla ricerca di un assoluto inconoscibile eppure irrinunciabile.
"Lui mi aveva permesso di intravedere il sublime e aveva imposto che anch'io mi bruciassi nel fuoco sacro".
E siamo solo a pagina 30 di oltre 500…

Il cammino che intraprendono i personaggi di questi racconti è un percorso iniziatico irto di ostacoli. Devono saper schivare le passioni e contemporaneamente non fare troppo affidamento sulla razionalità, recuperare la parte più istintuale del loro essere e continuare a cercare senza mai arrendersi, spogliandosi delle false convinzioni e delle verità transitorie di cui si sono vestiti durante il percorso, consapevoli che la strada deve essere percorsa da soli e che anche le parole non sono in grado di aiutarli in questa impresa.
Un cammino impervio, lungo il quale, prima o poi, tutti i personaggi finiscono per arrestarsi. Perché è difficile accettare la solitudine, perché i sentimenti, l'amore, l'odio, la sofferenza, il possesso…li portano fuori strada, perché credono di essere arrivati quando invece sono ancora lontani dalla meta, perché si accontentano di un succedaneo di verità e non vogliono o non sanno andare più in profondità.
Un cammino che è un lento apprendistato nel quale la conquista della consapevolezza è solo una tappa, per quanto importante, lungo il percorso di avvicinamento all'essenza delle cose, un viaggio nel quale non sempre realtà fa rima con verità e la verità e sempre un po' più in là di dove la cerchiamo, nascosta nel cuore delle cose, un cuore al quale ci si può avvicinare solo spogliandosi degli strumenti tradizionali che usiamo per arrivare alla conoscenza. "Era solo bravo a 'comprendere'. – dice Angela Pralini ne La partenza del treno – Quella sua intelligenza che la affogava". E ancora: "Ad Angela Pralini venivano pensieri talmente profondi che non c'erano parole per esprimerli. Non era vero che si poteva formulare solo un pensiero alla volta: a lei ne venivano molti che si incrociavano l'uno con l'altro ed erano vari. Per non parlare dell' 'inconscio' che esplode dentro di me, che tu lo voglia o meno." E prosegue: "La coerenza non la voglio più. Coerenza vuol dire mutilazione. Voglio il disordine. Riesco a intuire solo attraverso una veemente incoerenza. Per meditare mi sono prima distolta da me stessa, e allora percepisco il vuoto. È nel vuoto che passa il tempo."

sabato 30 maggio 2020

47 poesie facili e una difficile – Velimir Chlebnikov



Considero la pubblicazione di questa raccolta da parte di Quodlibet e Nori un'opera meritoria ma insufficiente. Meritoria perché ha tolto un po' di polvere al nome di Chlebnikov prendendo le sue poesie dal fondo della pila e riportandole alla posizione che meritano, insufficiente perché chi come me non ha una preparazione specifica in quest'ambito rischia di doversi accontentare di cogliere brandelli di bellezza tra le righe, rischiando di perdere la maggior parte del significato.
Quello che manca sono le note (essenziali per una poetica così complicata), un'introduzione alle opere dello scrittore ed un impianto critico che guidi il lettore. Troppo poco, a mio avviso, il commento finale di Nori (più autoreferenziale che altro) per fare da guida a chi decida di avventurarsi tra i testi di un poeta non semplice ed a tratti francamente criptico. Avanguardia, lingua "transmentale" (zaum), immagini frammentate e ricostituite in diversa maniera… difficile, almeno per me, venire sempre a capo del significato o anche lasciarsi illuminare da tanta luce in maniera più consapevole.

Link
https://iris.uniroma1.it/retrieve/handle/11573/918307/329049/Tesi%20Moretti.pdf

domenica 22 marzo 2020

Zoo o lettere non d'amore – Viktor Borisovič Šklovskij


"Un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo tradizionale."

"Mio caro, mio amato. Non scrivermi d'amore. Non devi. […] Io non ti amo e non ti amerò."
Così si rivolge Alja a Viktor Šklovskij nella Lettera terza di questo libro e lo scrittore russo emigrato a Berlino la prende in parola costruendo con Zoo (il riferimento è a quartiere della capitale tedesca dove vivevano gli espatriati russi) uno strano gioco letterario in cui si impegna a scrivere di tutto tranne che d'amore, se non fosse che in realtà ogni argomento trattato sottende in maniera più o meno esplicita il sentimento che l'autore prova per la donna.
Un non-romanzo ricco di metafore, uno zibaldone di pensieri in forma di lettere all'amata. Šklovskij veste con l'ironia il dolore dal quale nasce la sua ispirazione, con un procedimento simile a quello che Cervantes ha riservato a Don Chisciotte utilizzando l'eroe parodistico "non solo per il compimento di imprese caricaturali, ma anche per pronunciare discorsi saggi". E come se non bastasse ad ingarbugliare una matassa già sufficientemente intricata, proprio nell'ultima delle Lettere che compongono il libro l'autore compie un'imprevista giravolta dichiarando che in realtà il tema dell'amore è solo una metafora perché Zoo è "un libro sull'incomprensione, su persone estranee, su una terra straniera. Voglio tornare in Russia."
In realtà che l'amore per Alja sia il fuoco che incendia quest'opera è evidente, così come è evidente che un altro amore, quello di Šklovskij per la Letteratura, sia la seconda fiamma che alimenta il braciere della sua ispirazione.
Da questo punto di vista, emblematica è la Lettera quarta, nella quale l'autore dichiara di voler palare del tempo e poi, passando dal suo amore per Chlebnikov arriva a parlare dell'"amaro calice dell'amore che è come i chiodi con i quali ci crocifiggono".
Amore e Letteratura riuniti quindi in un abbraccio nel quale finiscono per confondersi, e non poteva essere altrimenti, considerando che "tutta la letteratura russa è consacrata agli insuccessi amorosi" (Lettera quattordicesima dell'edizione del 1924).
Belyj, Pasternak, Chagall, Il'ja Erenburg… diversi ed interessanti sono i bozzetti di grandi artisti che ritroviamo tra le pagine di Zoo, così come le riflessioni sul ruolo dello scrittore, sulla "necessità della forma letteraria", sul bisogno dell'artista di essere libero e di realizzare qualcosa di nuovo.
"Il caso più interessante" – scrive nella Lettera ventiduesima – " è costituito dal libro che sto scrivendo ora. Si chiama Zoo, lettere non d'amore o La Terza Eloisa; qui i singoli momenti sono uniti; infatti tutto è collegato dalla storia d'amore di un uomo per una donna. Questo libro è un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo tradizionale."

Links
https://www.enotes.com/topics/zoo-viktor-shklovsky

sabato 14 marzo 2020

Il burrone – Ivan Aleksandrovič Gončarov


Pubblicato nel 1869, Obryv, Il burrone, risulta il terzo degli "Ob" per data di pubblicazione (Obyknovennaja istorija, Una storia comune, è del 1847 e Oblomov  del 1859) e, nell'opinione comune, anche il terzo per importanza.
Si potrebbe dire che anche un Gončarov minore è pure sempre un Gončarov e quindi vale la pena di una lettura, ma il punto è che non sono così sicuro che quest'opera possa essere rubricata con tanta semplicità come "minore", anche se a tratti può risultare eccessivamente manierata e disomogenea nella struttura.
Il burrone, infatti, riveste un ruolo notevole nella bibliografia gončaroviana perché chiude un'ideale ambiziosa trilogia che descrive la faticosa transizione della società russa da un feudalesimo di stampo medievale ad un Mondo Nuovo  ancora tutto da disegnare.
Il filone al quale appartiene questo romanzo è è quello del realismo psicologico e la storia è quella di Boris Pavlovich Raysky, un nobile annoiato, un artista "oblomoviano" che vive tra scrittura, pittura e scultura senza mai applicarsi veramente ad alcuna di queste arti. Un amante del bello, un uomo volubile guidato dall'istinto e che rifugge le responsabilità. Il pretesto di controllare certi suoi possedimenti lo porta dalla grande città alla campagna,  dove si innamora, non ricambiato, di Vera, una cugina di secondo grado, a sua volta invaghita di Mark Volokhov, un giovane rivoluzionario nichilista e iconoclasta che è sotto la sorveglianza della polizia.
La storia d'amore sul triangolo Raysky-Vera-Volokhov è solo un pretesto, non solo e non tanto per parlare d'amore (tema che comunque l'autore declina in diverse sfumature e secondo il sentire di ognuno dei personaggi, confermando la sua assoluta capacità nella descrizione dei caratteri) ma per portare in scena il conflitto sociale di cui si diceva.
Il passaggio da una società patriarcale ad un mondo nuovo è rappresentato da Gončarov da un lato attraverso il tentativo de protagonisti di affermare la propria personalità anche andando in rotta di collisione con gli stereotipi dell'epoca e con la morale comune, dall'altro mostrando le incertezze ed i limiti di ognuno di loro. È la perfetta immagine di quello che rappresenta ogni cambiamento: si identificano difetti e limiti del sistema corrente e poi ci si divide su come modificarlo, c'è univocità sulla diagnosi e confusione sulla terapia.
Le idee nuove sono, appunto, idee. Opinioni da verificare alla prova dei fatti e soprattutto numerose e contraddittorie almeno quante sono le teste che le esprimono. Per questo Gončarov sembra voler fare un passo indietro preferendo tornare al porto sicuro della tradizione piuttosto che affidare la barca alle insidie di una navigazione verso l'ignoto, con il rischio di precipitare da quel burrone richiamato nel titolo e sul filo del quale si articola la trama del libro.
Raysky diventa così nel corso della storia una figura positiva, un uomo con limiti evidenti ma anche un portatore di idee democratiche che non arriva all'integralismo ed agli eccessi di un Volokhov. Il Nuovo sembra essere per Gončarov una via mediana tra Rivoluzione e Restaurazione: apertura alla democrazia e al liberalismo ed ai bisogni del singolo ma nel solco della storia e della cultura russa.

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domenica 9 febbraio 2020

Underground. Ovvero un eroe del nostro tempo - Vladimir Makanin


Ecco perché ci è stato dato così tanto: per poter perdere quel piccolo unico nonnulla. Per ricordarcene, per rimpiangerlo. Per esserne consapevoli. E per recuperarlo col vivere. Ogni giorno. Ogni ora. A poco a poco.

E Petrovič è uno che quel piccolo nonnulla l'ha perso.
Scrittore fallito e custode d'appartamenti in un'obščaga (casalbergo), l'antieroe di questo romanzo nominato solo con il patronimico, è sostanzialmente un aghé, un underground, uno dei figli del sottosuolo che abitano la Mosca di fine Novecento, quella del passaggio dal Comunismo al Grande Vuoto.
L'aghé non crede a niente, non si impegna a fondo in nulla che possa essere duraturo, è un individualista che sfugge la massa e vive nella provvisorietà, e Petrovič incarna alla perfezione queste caratteristiche. Cinico, disincantato, diffidente, caustico ed indolente, è un personaggio senza ambizioni, un tipo i cui sentimenti non vanno al di là della compassione e che crede più nella bottiglia che negli uomini. Non riconosce alcun giudice all'infuori del suo Io e della Letteratura russa: non gli altri e neppure Dio. Anche l'assassinio di due uomini è per lui un fatto personale, qualcosa da giustificare con la propria coscienza e che ha a che fare solo con un (discutibile) senso dell'onore.
In mezzo al disfacimento di idee e valori che la Russia sta vivendo, l'Io è la zattera alla quale Petrovič si aggrappa per non andare a fondo, un guscio di noce che pur imbarcando acqua da tutte le parti rappresenta il suo unico possesso: da preservare e al tempo stesso imbrigliare e disciplinare perché non si prenda troppa autonomia. Nella sua grammatica dei sentimenti l'amore occupa un posto a parte e un nome ben preciso: Venedikt (Venja) Petrovič, fratello del protagonista del libro, artista e genio incompreso che il KGB ha provveduto ad internare sin da ragazzo in una psichuška (clinica psichiatrica) in maniera da spegnerne da subito la potenziale carica eversiva privandolo del suo Io. Venja vive così nel passato e nel disinteresse per quello che accade e rappresenta per un Petrovič saldamente ancorato al presente, la memoria.
Quello che manca a Petrovič, scrittore fallito, è proprio la parola: la capacità di dire, di parlare agli altri e che lo costringe a tenere il dolore dentro di sé, proprio come succede ai pazienti della clinica psichiatrica che vivono rinchiusi nei loro silenzi, proprio come è successo all'umanità che ha imparato "a vivere facendo a meno del Verbo, perché è rimasta priva della parola".
L'underground è il subconscio della società, secondo Petrovič e lui è un eroe del suo tempo, proprio come il Pečorin lermontiano lo fu del suo, e come Lovjannikov, un altro personaggio del libro, lo è dei tempi nuovi.
Petrovič e Lovjannikov, rappresentano così il confronto tra due epoche: la generazione "letteraria" degli anni Sessanta-Settanta e quella del business degli anni Novanta, epoca che per la Russia ha rappresentato il fallimento della transizione dal vecchio al nuovo, culminato con la restaurazione del potere di un tempo attraverso forme diverse.
Nuove gerarchie ma vecchie logiche, che Makanin descrive in maniera tanto precisa quanto impietosa, attraverso un campionario di figure emblematiche di varie realtà. Lo psichiatra Ivan Emel'janocič è ad esempio, un uomo "Franco. Onesto. E moderno, in linea con i tempi, di quelli che non nascondono niente.", eppure non mostra pentimenti per aver ordinato le iniezioni che hanno distrutto Venja, Lesja Dmitrievna raffigura invece tutti i voltagabbana, ex-brezneviani duri e puri pronti a saltare sul carro dei democratici nella speranza di salvaguardare i loro privilegi ed altrettanto pronti a scendervi quando la transizione non arriva a compimento. Un'analisi che non risparmia neppure gli intellettuali, incarnati dallo scrittore Zykov, un amico di Petrovič rappresentativo di tutti i prosivendoli, un tempo aghé  ed ora organici al potere.
"La mediocrità dei sentimenti s'è trasformata sul piano storico in  meschinità dell'anima" Questa è l'amara conclusione, "In fondo la modernità non è altro che una cornice (Un proscenio, come a teatro. Ed è sempre piacevole interpretare un ruolo alla moda)."

Underground è il libro simbolo di un'epoca, un'enciclopedia dell'anima russa figlia di quella di Arcybašev e sorella di quella di Erofeev.

domenica 10 novembre 2019

Nikolaj Gogol' – Taras Bul'ba e gli altri racconti di Mirgorod



Poema epico di carattere storico-romantico alla quale Gogol' mise mano più volte nel corso degli anni, Taras Bul'ba è un'opera che per certi tratti si potrebbe definire un romanzo omerico ambientato sulle rive del Dniepr, in quella regione (la Rus' di Kiev) che costituirà la base su cui prenderà forma la Russia moderna.
Una terra abitata da cosacchi ortodossi, polacchi, tartari, musulmani ed ebrei, ognuno con costumi e leggi diverse, una polveriera etnica sempre pronta ad incendiarsi, un territorio nel quale la pace era una chimera senza diritto di cittadinanza, sostituita al massimo da qualche tregua estemporanea. L'attenzione di Gogol' è rivolta alla descrizione dello stile di vita delle popolazioni e dei singoli personaggi: patria, identità e onore come capisaldi di una mentalità tribale e istintiva dominata dall'odio per il diverso e dal tentativo delle varie popolazioni di sopraffarsi a vicenda. E poi la folla e le sue dinamiche: il bisogno di un capo, la facilità del gruppo ad infiammarsi e l'attrazione per la violenza, l'agire del gruppo che annulla la responsabilità individuale.
Interessante notare come nell'Ucraina di oggi, per analoghi conflitti, l'uomo non sembra trovare soluzioni diverse, come se la violenza sia una parte così potente della nostra natura che cultura, etica, religione ed intelligenza non riescono a fronteggiare adeguatamente.

sabato 2 novembre 2019

Michail Lermontov – Un eroe del nostro tempo e altre prose



Un eroe del nostro tempo è forse il primo romanzo psicologico russo, costituito da cinque parti distinte che fotografano altrettanti momenti della vita del protagonista, ognuno dei quali è raccontato da una voce diversa e senza seguire una cronologia regolare.
Pečorin, il protagonista dell'opera, è una delle grandi figure della letteratura russa, un antieroe byroniano fratello di Onegin e predecessore di Oblomov che per certi aspetti rappresenta il paradigma di un'intera generazione, quella post-decabrista che ha visto tramontare l'idea della ribellione contro lo zar.
La disillusione è il grande tema di questo libro, la disillusione e come essa cambia in peggio le persone, il loro modo di pensare e poi di agire. Un eroe del nostro tempo è un'opera importante, una di quelle in grado di far sentire la loro influenza anche a distanza di tempo, se è vero che partendo dal realismo romantico ha saputo puntare la sua luce fin sulle soglie dell'esistenzialismo.

sabato 26 ottobre 2019

Isaak Babel' – L'armata a cavallo



Notizie dal fronte

Episodi della guerra sovietico-polacca del 1919-21, raccontati da un cronista d'eccezione, il ventiseienne Isaak Babel' aggregato all'armata a cavallo cosacca.
Storie crude, che non coinvolgono personaggi di primo piano e non parlano dell'andamento dei combattimenti ma che sono focalizzate su episodi minori, piccoli drammi privati, su vittime e carnefici senza nome o i cui nomi non hanno alcuna importanza per la Storia.
La voce di Babel' sembra risentire dell'influsso di correnti letterarie diverse, perché se il tratto stilisticamente dominante di questi racconti è il realismo, caratterizzato da una scrittura votata all'esposizione nuda dei fatti per cui i racconti dell'Armata a cavallo ci appaiono come resoconti di stampo quasi giornalistico/autobiografico con il tentativo di caratterizzare i personaggi anche in base al loro lessico, non mancano però momenti in cui questo realismo si scontra con la ricchezza del mondo interiore dell'autore e allora il tono sembra diventare quasi lirico, non lontano da un 'ornamentalismo' che ricorda il Pil'njak de L'anno nudo (senza trascurare certe atmosfere di stampo simbolista che non possono non far pensare a Belyj).
A questi aspetti contraddittori presenti sul piano formale corrisponde un gioco di contrasti che Babel' evidenza anche nei contenuti dei racconti, alternando ironia e violenza, crudeltà e tenerezza, riferendosi alla Rivoluzione in toni volutamente ambigui non arrivando mai a condannarla apertamente senza nemmeno esaltarla, in modo che forse proprio l'ironia risulta essere lo strumento utilizzato da Babel' per minare le fondamenta della costruzione bolscevica.


sabato 12 ottobre 2019

Boris Pil'njak – Mogano



Pil'njak è uno scrittore difficilmente collocabile nel panorama letterario russo del primo Novecento come testimoniano anche i racconti e i povesti (romanzi brevi) di questa raccolta, eterogenei sia per forma che per contenuti, nei quali si notano aspetti che richiamano ancora ad un certo 'ornamentalismo' dell'Anno nudo ed a un simbolismo che discendono direttamente dalla prosa di Belyj, mescolati ad un realismo che rappresenterà per Pil'njak un approdo (politicamente) obbligato.
Al centro della narrazione non sono più le grandi capitali, Mosca e Pietroburgo, ma la periferia della Russia. Nella querelle tra occidentalisti e slavofili Pil'njak si schiera dalla parte di quelli che guardano ad Oriente, alle campagne, ad un oltre-Volga nel quale è più facile cercare la vera anima russa ed evidenziare le contraddizioni esplose con la rivoluzione bolscevica. I racconti di Mogano ben sottolineano la confusione e d i contrasti di un'epoca che l'autore cerca di rendere anche dal punto di vista stilistico, attraverso l'assenza di un protagonista 'forte'; flashback, digressioni liriche, narrazione di episodi che avvengono contemporaneamente in luoghi diversi… il racconto diventa con Pil'njak un collage di fatti, documenti, ricordi e pensieri frammentari e sconnessi (figli della confusione del tempo) che vanno a costituire una trama che procede più per 'accumulazioni' che in maniera lineare.
Sullo sfondo di una Natura che si oppone all'uomo, metafora di quelle forze istintive che si oppongono alla razionalità, Pil'njak riflette sull'incomprensibilità della vita e sullo smarrimento della gente provocato da una Rivoluzione dalla quale i contadini sembrano essere stati colpiti più che salvati, una Rivoluzione che viene vista anche dagli occhi dei nobili e dei lavoratori ma che rimane qualcosa di difficilmente comprensibile, della quale la gente riesce ad apprezzare solo le conseguenze immediate, vale a dire disordine, violenza ed anarchia.

domenica 15 settembre 2019

Saša Sokolov – Palissandreide



Sokolov è probabilmente il più interessante degli autori russi contemporanei e con Palissandreide (opera del 1985 e che arriva da noi con colpevole ritardo) firma una sorprendente e scoppiettante incursione nel postmoderno.
Inutile avventurarsi in una descrizione della trama, talmente ricca di episodi e personaggi da risultare difficilmente riassumibile. Diciamo che si tratta di un memoriale tra il picaresco e il distopico (è ambientato nel 2757, periodo del Nontempo) che narra le vicende di Palisandr Dal'berg, pronipote di Berija e nipote di Rasputin, da orfano del Cremlino e maestro di chiavi alla Casa dei massaggi governativa a capo dello stato e gran maestro dell'ordine supremo; semplificando rozzamente potremmo dire che si tratta di una presa in giro della gerontocrazia sovietica (il protagonista è una specie di satiro gerontofilo) che finisce vittima di un curioso contrappasso con gli eredi dei perseguitati di un tempo che si ritrovano talora a tiranneggiare i discendenti dei loro aguzzini.
Detto questo, è bene aggiungere che la trama è la cosa meno importante del libro e che con Palissandreide Sokolov continua il percorso iniziato con La scuola degli sciocchi, 'smonta' cioè il romanzo spostandone la centralità dalla trama alla scrittura, sviluppando una ricerca sulle possibilità della parola che a tratti definirei charmsiana. Quella che ci propone è una lingua ricca, scintillante, con una serie infinita di doppi sensi, allusioni, citazioni, metonimie e soprattutto con un intertesto sconfinato che finisce per tracimare dalle pagine e travolgere il testo vero e proprio, una lingua sulla quale tutto si regge e va da sé che si tratta di un equilibrio altamente instabile.
Sì perché Sokolov non si accontenta di giocare solo con lo stile, ma mette in discussione ogni singola parte del romanzo: gioca con i generi, alternando letteratura alta e popolare, citando ad esempio pensatori importanti e subito dopo distorcendone il credo fino a storiella da pettegolezzo, mescola tradizione e innovazione, ortodossia e folclore, prosa e poesia (è Sokolov stesso ad usare per le sue opere il neologismo di 'proesia'), passa senza preavviso dalla prima alla terza persona e dal discorso diretto a quello indiretto, fa saltare il continuum narrativo con ripetute divagazioni che finiscono per portare il lettore lontano dal punto di partenza, gioca con le coordinate spazio-temporali e ed anche con i canoni che definiscono i personaggi al punto che nel corso del romanzo Palisandr si comporta prima da uomo, poi da albero ed infine da ermafrodito, in piena sintonia con il pensiero espresso dall'autore che "è il linguaggio che definisce il carattere dei personaggi", tornando così al punto iniziale, al linguaggio che regge tutta la costruzione del romanzo.
Palissandreide è un'opera complessa di un autore importante, speriamo solo di non dover attendere altri trent'anni prima che qualche editore illuminato decida di pubblicare altro di Sokolov.


sabato 3 agosto 2019

Michail Nikolaevič Kuraev – Storie senza morale



Kuraev è uno di quegli autori che sembrano voler passare inosservati, che scrivono in punta di penna dando l'impressione di non voler mai affondare il colpo e pure, nonostante il tono lieve e lo stile semplice, risultano estremamente efficaci e raffinati.
Il suo è un punto di vista non banale sull'Unione Sovietica del secondo Novecento e quello che ci propone in questo libro è un dittico di racconti che dicono molto su quell'epoca.
Il primo (Zolotucha, detto 'fiato corto') è del 1997 e narra la storia di un ragazzino sullo sfondo dell' 'affare' di Leningrado degli anni '50. Come Pëtr Popkov, uno dei politici più influenti dell'epoca, cerca vanamente di difendere un gruppo di esponenti del partito locali dei quali i vertici moscoviti temono la scalata ai vertici dello Stato, così il piccolo semi-orfano, malaticcio, solitario Zolotucha si carica di una colpa non sua, altrettanto vanamente convinto di poter riscattare con tale gesto la sua esistenza sfortunata ed acquisire benemerenze agli occhi di compagni e professori. Ma per l'adolescente innocente che crede di vivere nel migliore dei mondi possibili il risveglio dal mondo dei sogni non potrà essere più traumatico e da un piccolo gesto compiuto in buona fede vedrà rovinata la sua intera esistenza.
Kuraev trasforma una storia minima in un apologo sulla logica perversa del regime sovietico di quegli anni, un sistema costruito su regole ferree che non ammetteva deroghe di sorta alla linea stabilita e che si trattasse di episodi strategici o goliardate di bambini non faceva alcuna differenza. Il singolo doveva confondersi e annullarsi nella massa, l'individualità non era consentita e per i gesti eroici, piccoli o grandi che fossero, non esisteva spazio, anzi l'eroe rappresentava una minaccia all'ordine costituito.

Fateci provare la nostra maturità!... è un racconto del 2000 nel quale i protagonisti sono degli studenti dell'Istituto teatrale di Leningrado. Qui il tema è l'ideologia e i rischi che possono derivare dalla deviazioni dalla strada maestra ed è affrontato con un registro ironico che tende a sfociare quasi nel surreale soprattutto nell'originale finale del testo, quando l'autore ci mostra come Doglatov, il protagonista, dopo essere stato miracolosamente salvato dall'espulsione dal corso degli studi inizia a lavorare per il teatro, entra nei quadri del partito ma poi, inspiegabilmente, commette un furto che gli costa una condanna. Non esiste un motivo che possa spiegare il suo comportamento, si affretta a dire Kuraev disorientando il lettore quasi con uno sberleffo gogoliano, si tratta di un fatto che non ha rapporto con il resto della storia, semplicemente non è detto che alla fine i conti debbano sempre tornare ("E se il benevolo lettore si aspetta comunque una morale dall'autore, allora sono obbligato a confessare la mia impotenza, che mi costringe a lasciare il lettore da solo con la storia com'è successa, e confessare che una morale in questa storia non c'è. E il bello sta proprio qui!")