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domenica 19 maggio 2019

Olga Tokarczuk – I vagabondi



"Muoviti, vai. Beato è colui che parte."

I vagabondi è un romanzo molto sui generis, costituito da frammenti più o meno eterogenei legati tra loro dalla voce dell'autrice che spesso racconta in prima persona e dall'argomento trattato che è quello del nomadismo. Attenzione, però: il libro è del 2007, qui si parla di un vagabondare per scelta e non per necessità, questo per dire che la questione dei migranti non sembra essere uno degli obiettivi della Tokarczuk.
La narrazione per episodi era già stata sperimentata dalla scrittrice polacca in Casa di giorno, casa di notte ma lì era giustificata dalla volontà di fare emergere l'anima del villaggio di Nowa Ruda attraverso le vicende dei suoi personaggi, brandelli di vita vissuta che andavano a cucire insieme un tessuto quanto mai colorato, qui invece la frammentarietà sembra essere elevata a sistema, quasi fosse l'unico modo per raccontare la complessità e la pluralità di voci che caratterizzano i nostri tempi.
I vagabondi è il racconto di mille viaggi: nel tempo e nello spazio, nella realtà e nella fantasia e anche all'interno del corpo umano, ma è anche un viaggio tra le pagine del libro, un girovagare sulle ali della curiosità senza uno scopo preciso, senza una meta da inseguire. Certo, per viaggiare sono necessarie le mappe e Tokarczuk non dimentica nemmeno queste: tentativi di schematizzare, di rappresentare la realtà, di collegare un punto ad un altro illudendosi che dare un nome a cose e luoghi significhi conoscerli, uno strumento per approssimarsi all'intero senza mai raggiungerlo perché i collegamenti tra le cose sono casuali, inesplicabili e allora la mappa che ci ritroviamo in mano sembra creata dal cartografo Zenone «secondo cui ogni distanza è in sé infinita, ogni punto apre un nuovo spazio impossibile da percorrere e ogni movimento è un'illusione, ciascuno di noi viaggia sul posto.»
Il viaggio come fine e non come mezzo, muoversi non per arrivare da qualche parte ma per sfuggire al controllo, per non dare punti di riferimento a che vuole controllarci:
«Dondola, continua, muoviti.» diceva con tono apocalittico la Fuggiasca Intabarrata «É l'unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarai partita. Lui regna su ciò che è immobile e congelato, su ciò che è passivo e inerte.
Quindi vai, dondola, cammina, corri, scappa perché il momento che ti dimenticherai e ti fermerai, le sue grandi mani ti afferreranno e ti trasformeranno in un burattino. […] Lui trasformerà la tua anima scintillante e colorata in una piccola anima piatta, ritagliata dalla carta, dal giornale, e ti minaccerà con il fuoco, con la malattia e la guerra, ti spaventerà fino a quando perderai la pace e smetterai di dormire. Ti contrassegnerà e ti iscriverà nel suo registro, ti darà un documento della tua caduta. Ti occuperà la mente con cose poco importanti, cosa comprare e cosa vendere, dove conviene di più e dove è più caro. Da questo momento ti preoccuperai di inezie. […]
Per questo i tiranni di ogni tipo, servitori infernali, hanno nel sangue l'odio per i nomadi – per questo perseguitano i gitano e gli ebrei, per questo costringono a diventare sedentarie tutte e persone libere, marcandole con un indirizzo che diventa la nostra sentenza.
Quello che vogliono è costruire un ordine solido, rendendo il trascorrere del tempo soltanto un'apparenza. Vogliono che i giorni si ripetano tutti uguali e non si distinguano e costruire una grande macchina nella quale ogni creatura dovrà occupare un proprio posto ed eseguire movimenti apparenti. […]
Vogliono bloccare il mondo con l'aiuto di codici a barre, etichettare ogni cosa, che sia chiaro di che prodotto si tratti e quanto costa. Che questa nuova lingua straniera sia illeggibile agli uomini, che la possano leggere soltanto le macchine e i distributori; così che di notte, nei grandi negozi sotterranei, possano organizzare letture delle proprie poesie in codici a barre.
Muoviti, vai. Beato è colui che parte.»

sabato 13 ottobre 2018

Olga Tokarczuk – Casa di giorno, casa di notte




L’unica cosa che posso dire di me stessa è che mi lascio vivere, scorro attraverso un luogo nello spazio e nel tempo e sono la somma delle proprietà di questo luogo e di questo tempo, niente di più.

Si, si può fare buona letteratura senza squilli di tromba o trovate sensazionalistiche e questo libro ne è la limpida dimostrazione. Con Casa di giorno, casa di notte, Olga Tokarczuk confeziona un ottimo piatto fatto con ingredienti poveri. Poveri ma genuini, veri, non sofisticati.
L’autrice ci porta a spasso per le strade di Nowa Ruda, una cittadina al confine tra Polonia, Germania e Repubblica Ceca e ci presenta le storie sgangherate di un’umanità variegata, composta da personaggi di paese, uomini e donne che sembrano trascinare a spasso le loro esistenze senza vedere oltre il proprio naso. Attenzione però a non trarre conclusioni affrettate, perché questa è solo l’apparenza. Come avverte la voce narrante all’inizio del libro: “l’immobilità di quanto vedo è apparente. Basta che lo voglia e posso penetrare l’apparenza”.
Pensieri, parole ed opere di una piccola comunità persa nella campagna polacca dunque, per un progetto narrativo che, mutatis mutandis, sembra avere parecchie analogie con quello di Jón Kalman Stefánsson: scrivere per non dimenticare, raccontare per continuare a far vivere un mondo che altrimenti sarebbe destinato all’oblio (che poi è la conclusione alla quale giunge anche Paschalis, l’incaricato di scrivere la vita della santa: “lo scopo della sua opera era conciliare tutti i tempi possibili, tutti i luoghi e i paesaggi in un’unica immagine, che sarebbe stata immobile e non sarebbe mai invecchiata né cambiata”).
Impossibile dar conto dei mille personaggi che incontreremo lungo il corso di questo viaggio stralunato: c’è Marta, la vecchia fabbricante di parrucche, convinta che i capelli crescendo assorbano i pensieri degli uomini, che parla solo degli altri e mai di se stessa e che immagina gli animali che Dio si è dimenticato di inventare. C’è Tal dei Tali, che “raccontava l’inverno” e che riusciva a vedere gli spiriti e c’è Marek Marek, un tipo la cui “sofferenza non veniva dall’esterno ma dall’interno” e che “nasceva per la stessa ragione per cui la mattina sorgeva il sole e la notte le stelle”, un’anima in pena che a causa del dolore che portava dentro di sé “non poteva portare a conclusione nessun pensiero, doveva cancellarli e scacciarli, così che smettessero di significare qualcosa”. Ci sono, intrecciate, la storie di Kummernis di Schonau, la santa barbuta e quella di Paschalis, che ne scrisse la biografia. Seguendo la voce narrante capiterà di imbatterci in ricette culinarie a base di funghi velenosi e turisti tedeschi che fotografano spazi vuoti e tra questi turisti Peter Dieter, venuto per rivedere il villaggio nel quale aveva vissuto e destinato a morire proprio sulla metà del confine. Incontreremo Agnieszka con le sue profezie e Franz Frost che vive di certezze, convinto che tutto ciò che è stato e che sarà esiste già ma che sarà messo in crisi dalla scoperta di un nuovo pianeta, al punto da diventare pazzo. Se riusciremo ad entrare in sintonia con la trama, non ci stupiranno certo la comparsa di un mostro nello stagno e neppure le profezie di Lew il veggente. Sarà bello lasciarsi affascinare dalle storie dell’uomo di seconda mano (convinto di essere la copia di qualcun altro), da quelle di Ergo Sum (anche nella sua seconda vita come Bronek), dei Von Goetzen e dei Coltellinai, senza trascurare quelle dell’uomo con la sega, di Gertrude Nietsche, di Lui e Lei e anche quella del misterioso R….
Insomma: storie, tante storie  cui star dietro, tante vite da rincorrere con il rischio di perdere l’orientamento. Sarebbe un peccato però, perché questo libro ha un’architettura che poggia su architravi solide: una sono i sogni, quei sogni che ricorrono costantemente e che secondo la voce narrante costituirebbero la parte più vera della vita, l’unica davvero autentica mentre la nostra realtà di esseri umani sarebbe una specie di stato di sospensione dal nostro vero ruolo. L’altro pilastro è la ricerca di un punto di equilibrio perfetto, aspirazione che sembra rintracciabile all’interno di molti degli episodi narrati, una specie di armonia superiore, uno stato quasi di immobilità, fuori dal tempo e dalle passioni, un distacco quasi atarassico dalle cose del mondo.
Casa di giorno, casa di notte è un libro che consiglio, soprattutto a quei lettori che non si sono ancora stancati di cercare storie curiose.

sabato 17 marzo 2018

Kazimierz Brandys - Lettere alla signora Z.



I “tre pazzi” per la narrativa e un’altra triade (Herbert, Miłosz e Zagajewski) per la poesia: così si potrebbe riassumere la grande letteratura polacca del Novecento.
In realtà si tratta è una semplificazione eccessiva e Konwicki, Andrzejewski e Szymborska sono i primi nomi che mi verrebbero in mente per rimpolpare la lista.
E Kazimers Brandys, aggiungo ora.
Lettere alla signora Z. è un originale zibaldone di pensieri di un grande polemista, uno strano Grand Tour nel quale il Bel Paese è utilizzato come pretesto per riflettere sull’identità dei polacchi ma anche su molto altro. La forma è quella dell’epistolario, una serie di lettere indirizzate appunto alla signora Z., una conoscente dell’autore; i temi trattati sono la vita, i cliché, il tema dell’identità polacca, ma si tratta di riflessioni di ampio respiro e che possono essere facilmente allargate all’uomo in generale.
La seconda parte del libro è relativa a lettere che l’autore indirizza all’amica dalla Polonia e risulta, a mio avviso, più debole, incentrata prevalentemente su considerazioni relative a costumi, abitudini e comportamenti della società del tempo.

“Cara Signora, sono profondamente convinto che non sia possibili descrivere ciò che si è visto. Si possono registrare dei dettagli, si può fare un inventario, stabilire i fatti e basta. Ma per ricreare la realtà, per darle lo stesso valore nella descrizione c’è solo un mezzo: inventare. In effetti vale la pena di ricordare certe cose, anzi, qualche volta è indispensabile per legittimare la finzione (ci vuole un chiodo su cui appendere il quadro); ma i veri bugiardi, i bugiardi per pura passione, si servono della verità come di un male indispensabile. Circondato da fatti, oggetti e persone, lo scrittore deve essere un fanfarone, altrimenti è perduto. Deve badare ai suoi fatti interni, la sua verità è sempre una verità su se stesso. La letteratura impegnata, della quale sono un sostenitore, consiste nell’includere se stessi nelle questioni del nostro tempo. Dicendo “se stessi” intendo l’individualità, le esperienze private, la difesa del proprio io da tutto quel che lo annienta. La letteratura è fatta di questioni centrali dello scrittore tra le quali a volte si trovano anche questioni centrali dell’umanità.”

domenica 20 novembre 2016

Bruno Schulz – Le botteghe color cannella




Libro di una bellezza struggente, che testimonia la superiorità della (grande) letteratura sulla realtà. Di fronte all’angosciante situazione personale, politica e sociale che si trovava a vivere, Schulz reagisce rifugiandosi nell’immaginazione, costruendo una cosmogonia che ha al centro il padre-demiurgo, personaggio dai tratti donchisciotteschi, al quale fa da contraltare la domestica Adela, figura che incarna il potere della ragione che si oppone e schiaccia la fantasia.
Le botteghe color cannella è un viaggio sorprendente, una cavalcata attraverso i tentativi del padre e poi anche del figlio di rompere le maglie di una realtà che ha imprigionato gli uomini nel ruolo di attori per farsi protagonisti, creatori di un loro mondo. Si tratta di tentativi attuati in maniera diversa ma accomunati dal carattere della provvisorietà, dal fatto che entrambi non si propongono di arrivare per forza a un risultato concreto; proprio perché sono giocati nel campo della fantasia, questi tentativi devono rimanere sul lato del possibile e non su quello del certo, in maniera da poter sempre essere alimentati da nuova linfa, da nuove idee. 
Il tentativo prometeico del padre è ben esplicato nell’esposizione del “Trattato dei manichini”, teoria con la quale egli dichiara di voler diventare creatore “in minore”, di una sfera più piccola rispetto a quella del divino, ma con una sua identità ben definita:
Troppo a lungo abbiamo vissuto sotto l'incubo dell'irraggiungibile perfezione del Demiurgo, diceva mio padre, troppo a lungo la perfezione della sua opera ha paralizzato il nostro slancio creativo. Non vogliamo competere con lui. Non abbiamo l'ambizione di eguagliarlo. Vogliamo essere creatori in una sfera nostra, inferiore, aspiriamo a una nostra creazione, aspiriamo alle delizie della creazione, aspiriamo, in una parola, alla demiurgia.
Il tentativo del figlio invece è affidato  al racconto dell’”Epoca geniale”, periodo della vita del protagonista in cui egli si proporrà di perseguire gli stessi scopi del padre con strumenti diversi (il disegno) e soprattutto con la ricerca di simboli, quali il Libro, l’Autentico, il depositario del sapere universale, che prende vita e vigore dalla natura mortale degli altri libri, mentre lui non può finire, ma si espande durante la lettura.
I racconti de Le botteghe color cannella sono un caleidoscopio di colori, odori, sapori, un fluire di pensieri fantastici che si spandono in ogni direzione, un’esplosione di trovate alla quale si fatica a star dietro: dall’idea di far covare uova di uccelli esotici da galline locali con il risultato di ritrovarsi con strani animali per casa, alla Via dei Coccodrilli, grigio quartiere della città nel quale le carrozze circolano senza conducente, i tram sono sventrati e spinti da facchini e i treni non si sa quando passeranno e dove si fermeranno.
E poi ancora: la trasformazione del padre in scarafaggio e successivamente la sua ricomparsa in vita dopo la morte (se è davvero morto) sotto forma di gambero o di scorpione, la storia di Francesco Giuseppe I e di suo fratello (se è davvero suo fratello) e il richiamo in vita di una serie di personaggi storici con i quali il protagonista si imbarca in una strampalata avventura che non arriverà alla conclusione perché egli abdicherà al suo ruolo di guida. Ci sono gli studi di “meteorologia comparata” del padre che spiega il prolungarsi dell’estate nell’autunno con l’influenza della mielosità dell’arte barocca che finirebbe con l’influenzare anche il clima, e la possibilità di rallentare il tempo, sospenderlo, cancellarlo, fino ad avere tanti tempi individuali al posto di un tempo assoluto, c’è il “mesmerismo”, l’idea dell’uomo come stato transitorio della materia e la teoria della Natura che sfrutterebbe gli esperimenti dell’uomo per un fine che non conosciamo… Insomma: Le botteghe color cannella è un fiume che ha rotto gli argini e si spande in ogni direzione nel tentativo di sfuggire all’obbligo di correre all’interno di quelle sponde nelle quali è da sempre stato costretto, un fiume scosso dalla curiosità, animato dalla voglia di vedere cosa c’è dall’altra parte, in quei territori che gli sono sempre stati proibiti.

Nei Diari, Gombrowicz ha per l’amico (?) Schultz parole al vetriolo e lo definisce un masochista, impaurito dalla sola idea di esistere; respinto dalla vita, si muoveva di soppiatto ai suoi margini, aggiungendo poi che Schulz era l’autoannullamento nella forma: il pazzo annegato. Io (ça va sans dire…) ero l’aspirazione a raggiungere, attraverso la forma, il mio “io” e la realtà, il pazzo ribelle.
Sorprendente? Fino a un certo punto. Ovvio che una personalità strabordante ed egocentrica come Gombrowicz cercasse di sminuire l’importanza di Schulz: lui era un’ape regina e non tollerava che qualcuno potesse fargli ombra, tantomeno un amico, tantomeno uno che pescava nel suo stesso mare. Ingeneroso, certo, ma per quel che mi riguarda il suo posto nel Pantheon dei Grandi del Novecento Gombrowicz se l’è conquistato con i suoi romanzi più che con qualche rancoroso giudizio.

Tornando ab ovo: considero Le botteghe color cannella lettura consigliata a tutti ma necessaria a quelli che credono nel potere magico della Letteratura. Per loro questo sarà un libro iniziatico, il Libro, l’Autentico. E Schulz il Messia.

sabato 13 agosto 2016

Witold Gombrowicz – Trans-Atlantico




Trans-Atlantico è un libro originale, contraddittorio e provocatorio. Almeno quanto il suo autore.

Solo un provocatore come Gombrowicz poteva pensare di scrivere nel dopoguerra un libro che mettesse alla berlina la Polonia e i polacchi, per di più dopo essere praticamente scappato da quella guerra, e ancora di più facendolo passare per un libro che doveva fungere da pungolo, per stimolare la Polonia e i polacchi ad uscire da quegli stereotipi dei quali erano vittime più o meno volontarie!

Eppure, se proviamo a seguire l'autore e a passare dalla storia alla fantasia, dalla realtà alla letteratura, ecco che le cose cambiano. Nella retta ideale che collega i tre grandi romanzi di Gombrowicz, Trans-Atlantico si colloca dopo Ferdydurke e prima di Pornografia e di Cosmo. Rispetto al primo risulta in continuità per quanto riguarda lo stile parodistico e la lingua, che a tratti sembra un abito troppo stretto che fatica a contenere l'irruenza dell'autore e che finisce per frantumarsi in neologismi e costruzioni ardite, pile di parole che nello sforzo di arrampicarsi verso il concetto che vogliono rappresentare finiscono per crollare miseramente a terra. Degli altri due invece, Trans-Atlantico anticipa parecchie e importanti tematiche, basti pensare al dualismo Vecchio/Giovane che deflagrerà poi in Pornografia e all'impossibilità di individuare una realtà condivisa che sarà alla base di Cosmo.

Probabile che al successo di  Trans-Atlantico abbiano nuociuto le polemiche su Gombrowicz come anti-polacco, peccato perché si tratta di un libro meritevole, che offre più di uno spunto di riflessione. Già il tema al centro del romanzo, il figlio conteso tra un padre apprensivo e un pederasta innamorato, con il diritto del ragazzo di affrancarsi dal giogo del primo e il rischio di finire tra le grinfie del secondo,  sarebbe argomento da tragedia greca che l'autore decide invece di risolvere in farsa, come se le scelte di vita fossero alla fine poco importanti. Ma ci sono anche sono mille  altri aspetti che catturano l'attenzione nella lettura di questo romanzo: c'è (secondo me) la metafora della Polonia stessa, divisa tra nazismo e stalinismo e che come il ragazzo è preda contesa da entrambi, c'è il Vuoto (esistenziale?) che ricorre di frequente tra le pagine, e accanto ad esso il “camminare” del protagonista (Gombrowicz stesso), un camminare senza senso, una ricerca del significato nell'azione (quell'azione che ritornerà in Cosmo), c'è (addirittura) una trama che a tratti sembra ripercorrere, mutatis mutandis, la passione di Cristo. C'è, soprattutto, l'assurdo, una presenza soverchiante che incombe su tutto, rendendo vano ogni comportamento: assurde sono le conversazioni tra i personaggi, assurdi i loro comportamenti, i loro tentativi di soverchiarsi l'un l'altro, le sofferenze che si infliggono.

Perché la realtà per Gombrowicz non esiste, è una specie di prisma attraverso il quale ognuno vede il (suo) mondo, e il nostro affannarci per cercare di dare unità, per creare una visione condivisa e condivisibile  è simile al tentativo del bambino di costruire un argine di sabbia sulla riva. È solo questione di tempo, perché prima o poi l'onda del mare spazzerà via il frutto di tanto impegno,  eppure noi siamo destinati a non capire la lezione e a rimetterci all'opera con paletta e secchiello  e immutato impegno, per ricostruire in piedi una nuova diga destinata anch'essa a crollare sotto i colpi del mare, come quella che l'ha preceduta e come quelle che la seguiranno. Dietro di noi, seduto su una sdraio sotto un ombrellone, ci sarà il vecchio Gombrowicz, impegnato a guardarci di nascosto da dietro il giornale compatendo con un sorriso l'inutilità dei nostri sforzi.

domenica 8 maggio 2016

Witold Gombrowicz – Pornografia


“La bellezza stava tutta dall’altra parte, dalla parte dei giovani”

Le cose sono come ci appaiono. Guardando le interpreto, le faccio mie trasfigurandole. Questo, a grandi linee, è il pensiero che Gombrowicz sviluppa in quella ideale trilogia nella quale Pornografia si pone a metà strada tra Ferdydurke e Cosmo.
Seguendo l’assunto esposto, ne consegue che ognuno di noi “vede” un suo mondo e legge ogni fatto in maniera personale, con la conseguente scomparsa dell’oggettività, di una verità condivisa. Un mondo quindi per ogni persona, ma anche due mondi che si fronteggiano: quello degli adulti e quello dei giovani, due mondi che obbediscono a regole diverse.
La gioventù è l’età delle possibilità, non esistono ancora strade tracciate ma una miriade di sentieri da esplorare. È fuoco che cova sotto la cenere, età delle contraddizioni (innocenza/malizia, per dirne una) e delle contrapposizioni (istinto contro esperienza, leggerezza contro serietà, fantasia contro certezza), ma anche crudeltà e, soprattutto, incoscienza.
La gioventù è Bellezza, rifugio che l’autore sceglie per fuggire dalla normalità della vita adulta, ed essendo mondo adulto e mondo dei giovani due sistemi non comunicanti, l’immaginazione diventa l’unico strumento possibile per provare a stabilire una forma di contatto con un universo così lontano. L’opera a cui Gombrowicz si affanna a dar vita è una costruzione tanto affascinante quanto ardita, basata su fondamenta fragilissime, che vengono messe alla prova ogni volta che l’autore aggiunge una nuova carta al castello che sta faticosamente prendendo forma. Costruzione destinata a crollare irrimediabilmente, che da sempre costruire sui sogni è un po’ come scrivere sull’acqua…

Un doppio delitto, un “delitto a specchio”, sarà la conclusione che i due protagonisti del libro partoriranno per dare una logica al complesso di situazioni che si sono venute a creare, ottenendo però il risultato di accelerare ancora di più quel processo di frammentazione della realtà che Gombrowicz inizia a tratteggiare anche dal punto di vista stilistico (penso alla scrittura sincopata, con un sacco di puntini di sospensione) e che deflagrerà definitivamente con Cosmo.

domenica 7 febbraio 2016

Tadeusz Konwicki - Piccola apocalisse


 "Nessuno protestava, ci avevano fatto tutti l’abitudine."



Piccola apocalisse è un libro sull’approssimarsi della fine del mondo, tema che Konwicki finge di voler “sterilizzare” riconducendolo a una dimensione intima, quella del protagonista del libro, mentre nei fatti oggetto della sua attenzione è quel mondo che sembra andare (o essere già andato) in frantumi sia di qua che di là dal muro.

Protagonista del romanzo è uno scrittore che ha da tempo perso la fiducia nella parola scritta e guarda alla vita con disillusione: nulla sembra avere significato, agire è compiere azioni stereotipate, vivere è camminare sulle macerie di una guerra (la seconda guerra mondiale) che ha spazzato via tutto quello che ha incontrato sulla sua strada: cultura, moralità, principi, idee… precipitando l’umanità indietro di secoli, facendo regredire l’uomo a ominide. Si vive obbedendo ad un Destino che non si riesce a comprendere, accettando quello che accade con rassegnazione, magari concedendosi l’unico svago di giocare con l’idea della morte, assaporandone con la fantasia il gusto dolce e amaro, come fa lo scrittore al centro della trama.

Per questo quando una mattina bussano alla porta due suoi sodali, appartenenti agli ambienti dell’opposizione, e gli chiedono di farsi interprete di un gesto dimostrativo e darsi fuoco alle otto di sera davanti all’edificio del Comitato Centrale del partito, lo scrittore non trova ragioni valide per non farlo e da quel momento inizia la sua piccola apocalisse, una Via Crucis tra le strade di Varsavia in attesa che arrivi l’ora designata per immolarsi in nome di qualcosa nel quale probabilmente ha smesso di credere da tempo.

Attraverso le pagine di Piccola apocalisse, Konwicki ci restituisce l’immagine plastica della Polonia del dopoguerra: una nazione sottomessa al giogo sovietico con una popolazione incapace di alzare la testa davanti alle vessazioni quotidiane cui la sottopongono la casta di satrapi che la malgoverna. Una Polonia dove ci si abitua a tutto e tutto si accetta: non importa che ti stacchino acqua e gas da casa, che manchino latte e giornali, che si venga sottoposti a controlli dei documenti più volte al giorno e che un autobus passi ancora o meno per una determinata strada… Si vive sotto una cappa di nebbia che ammanta il quotidiano fino a rendere incerta pure la data: il giorno e il mese, per non dire l’anno.

L’analisi di Knowicki è lucida e senza sconti per nessuno: la società polacca è una palude e quelli che ci sguazzano felicemente non possono pretendere di farlo senza sporcarsi. Ce n’è, ovviamente, per l’intellighenzia che flirta con l’opposizione stando però ben attenta a non disturbare troppo il manovratore: conformisti vestiti da rivoluzionari, smidollati che vivono di sponda, vecchi tromboni interessati solo ad appagare gli appetiti di un ego smisurato. Tra gli aedi della resistenza e gli intellettuali organici che appoggiano il (e si appoggiano al) potere, non c’è poi molta differenza: sia in un caso che nell’altro si tratta di uomini senza carattere, che agiscono per pura convenienza, ad accomunarli è anche il fatto di considerare l’invasore sovietico esattamente per quello che è: un usurpatore gretto e volgare, dal quale però accettano di farsi mettere il morso con indifferenza.

Quello che manca è il carattere, quei carattere che “aveva fatto il suo tempo”.  Il problema non è (solo) la miseria, ma la monotonia di una vita senza speranza, l’accettazione pedissequa di quello che succede. Le persone che lo scrittore incontra sul suo cammino sembrano ripiegate su se stesse, capaci di vivere solo al loro interno, dentro un recinto privato, facendosi bastare quanto è loro concesso, consapevoli dell’inutilità delle loro vite.

Nulla desta più meraviglia, neppure il crollo di un ponte (“Non importa, - osserva un passante - sono rimasti ancora un paio di ponti.”). La vita è così priva di importanza che quando lo scrittore si accinge a fare testamento, le uniche cose che giudica meritevoli di essere tramandate ai posteri sono una ricetta per guarire dalla forfora, una per curare la stitichezza e dei consigli per cavarsela a “sette e mezzo”…

Non si può parlare neppure di un’umanità di “vinti”, perché gli abitanti della Varsavia che ci descrive Konwicki si sono arresi prima di combattere. Rassegnazione e disincanto dominano sovrani, non c’è più spazio neppure per l’indignazione o la rabbia: rassegnazione è quello che resta dopo aver messo la sordina anche alle emozioni e a dare la cifra del momento storico descritto dall’autore è l’indifferenza, quell’indifferenza che manifestano al protagonista tutti coloro i quali sembrano essere a conoscenza del suo progetto suicida (“Forse l’indifferenza, figlia della mediocrità, è quella materia volatile come la nebbia, che si pietrifica in rocce, si congiunge in macigni, cresce come massiccio montuoso fino al cielo schiacciando la nostra misera vita? Forse la trasparente, incolore, inodore, informe, svogliata, onnipresente, accogliente, gentile e innocente indifferenza è l’unico peccato che viene trattenuto dallo staccio della Provvidenza? Forse nel giorno del Giudizio Universale saremo giudicati unicamente per quel peccato- non peccato?”).

Tanta indifferenza da parte della gente per la propria sorte, fa sì che la tragedia si trasformi in certi momenti in farsa, come succede al Paradyz, quando un gruppetto composto da cuochi ed avventori finisce per banchettare con il pranzo destinato ai segretari del partito. Nulla importa, se non approfittare del momento, cogliere quello che si può senza preoccuparsi del futuro.

La società polacca presentata da Konwicki è un guazzabuglio dove convive tutto e il suo contrario, o – per meglio dire – dove ogni cosa si stempera in qualcos’altro, dove non esistono confini, dove tra potere e opposizione c’è una strana contiguità per cui l’uno giustifica l’altra e viceversa, proprio come la confusione che regna sovrana giustifica l’immobilismo, la passività della popolazione. La Varsavia (ma non solo Varsavia…) tratteggiata in Piccola apocalisse è un luogo in cui il peccato si confonde con la virtù, l’immoralità con la moralità, una melma maleodorante nella quale la gente galleggia più per abitudine che per convinzione.