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sabato 10 dicembre 2022

Punto di fuga – Mikhail Shishkin

  

La vita è antinomia.

L'epistolario, Pismovnik nel titolo originale, è un genere letterario ampiamente usato. In questo caso sono lettere d'amore che intercorrono tra Volodja, giovane scrittore arruolatosi come volontario nella rivolta dei Boxer del primo Novecento e Saška, l'innamorata che vive nella provincia russa. Sentimenti, progetti, sogni di felicità. ricordi ed esperienze di vita… nella corrispondenza tra i due ritroviamo tutto quanto ci si attende dalla narrativa di genere ma Shishkin ha la capacità di rivitalizzare una forma narrativa un po' consunta inserendo la trama all'interno di un raffinatissimo progetto nel quale adotta costruzioni della geometria descrittiva: prospettiva e punto di fuga (da qui il titolo dell'edizione italiana, per una volta migliore dell'originale) diventano così strumenti letterari attraverso i quali l'autore riesce ad imprimere profondità e vitalità a una storia che altrimenti correrebbe piatta, uguale a mille altre.
Punto di fuga è un gioiello di abilità formale nel quale però la tecnica sopraffina è sempre al servizio del messaggio che deve veicolare. Aprire lo spazio narrativo a vie di fuga che corrono in direzioni diverse e non coincidenti comporta però il rischio di amplificare le eventuali sbavature della trama e di perdere per strada il lettore, Shishkin invece governa con penna sicura il materiale che dispone sulla pagina: amore/morte, realtà/fantasia, presente/ricordo, superfluo/necessario… il romanzo è costellato da coppie di concetti che contrastano l'uno con l'altro e che indicano i punti lungo i quali corrono le linee della vita ( "Guarda, la prospettiva tiene insieme il mondo, come una corda appesa a un chiodo tiene un quadro. Se non fosse per quel chiodo e quella corda, il mondo cadrebbe a pezzi." E ancora "E all'improvviso ho distinto chiaramente le linee che collegano tutti gli oggetti a quel punto di fuga, come fili. O meglio, come elastici tesi allo stremo").
Vivere è inevitabile, le cose succedono, ma all'interno di questa cornice tutto è relativo, anche il tempo che corre a una velocità diversa per ogni persona ("il tempo siamo noi. Forse che il tempo esiste senza di noi?") e così anche le lettere che i due innamorati scrivono si perdono nel mare dell'asincronia risultando in realtà messaggi in bottiglia, missive scritte più a se stessi che all'altro. Ma anche la scrittura si proietta verso due punti di fuga divergenti e così si deve scrivere perché "solo le parole giustificano in qualche modo l'esistenza delle cose, anno un senso all'attimo, rendono reale l'irrealtà, mi rendono me stesso" ma contemporaneamente "le parole sono ingannatrici. Ti promettono di portarti in viaggio, poi se la svignano a vele spiegate, mentre tu rimani a terra. E soprattutto, il reale non sta in nessuna parola. Il reale ti ammutolisce. Tutto ciò che di importante accade nella vita è al di sopra del reale".
Mikhail Shishkin è il nome che aggiungo a quelli di Lobo Antunes, Cărtărescu, e Krasznahorkai nel mio gotha degli scrittori contemporanei.

domenica 2 ottobre 2022

Capelvenere – Mikhail Shishkin



Oltre il postmoderno (verso il postrealismo?)

Capelvenere è un grande e raffinato romanzo polifonico articolato su tre macro-storie, quella raccontata dall'interprete che traduce le parole dei migranti che arrivano in un ufficio svizzero, il diario della cantante lirica Bella Dmitrievna e quella di una coppia in crisi, tre storie che costituiscono la trama sulla quale si intrecciano i fili di un ordito ricchissimo espresso con una pluralità di stili, generi letterari e citazioni davanti alle quali il lettore rischia di sentirsi come un guscio di noce in balia delle onde. Trovare la rotta diventa un imperativo per non affogare nelle pagine di Shishkin e seguire le voci dei personaggi è la strada che può aiutarci ad entrare un po' alla volta in sintonia con il romanzo.
Si parla di guerra, di ricordi, di ricerca della bellezza e della felicità e soprattutto – tema ricorrente dell'autore russo – dell'importanza della parola, del potere della narrazione. "Le persone diventano le cose che raccontano", dice uno dei protagonisti: le storie per essere vere, per esistere, devono essere raccontate. Non importa chi sia il narratore, non importa chi siano i personaggi, né che le storie abbiano una logica o che si sviluppino secondo un andamento temporale preciso, perché la parola permette anche di sfuggire alla tirannia del tempo ("liberi di ritornare in qualsiasi punto in qualsiasi momento. E la libertà più dolce è la libertà di ritornare dove sei stato felice").
La parola diventa ancora più importante perché non sappiamo vedere: "noi siamo ciechi dalla nascita, non vediamo niente e non riusciamo a cogliere il nesso degli eventi, l'unità delle cose, come le talpe". Scrivere "perché rimanga almeno qualcosa", perché ciò di cui non si scrive è condannato all'oblio. Scrittura quindi con funzione non solo di testimonianza ma anche salvifica, perché le parole hanno il compito di traghettare i fatti verso "il mare dell'immortalità".

Links
http://www.culturactif.ch/livredumois/mars07shishkin.htm
http://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2019/05/Violazione-dei-confini-del-postmodernismo-Capelvenere-di-Michail-%C5%A0i%C5%A1kin.pdf

 

domenica 12 giugno 2022

La presa di Izmail – Mikhail Shishkin

 


Il Giudizio Universale.

Romanzo difficile da approcciare. Sin da subito si ha l'impressione di infilarsi in un ginepraio e di perdere l'orientamento, al punto che dopo le prime ottanta pagine sono dovuto tornare all'inizio per cercare di ricostruire pazientemente la trama, provando ad entrare in sintonia con la penna di Shishkin.
Si parte con un'arringa di tribunale che mette in dubbio i concetti di colpa, giustizia e verità e che costituisce il tema narrativo principale del romanzo, ma che subito si complica coinvolgendo il pantheon delle divinità slave in una specie di teoria della creazione attualizzata alla scopo di individuare il senso della vita. Di qui in poi la trama esplode, si frammenta in salti temporali e cambi di prospettiva, con la voce narrante che cambia nome lasciandoci nel dubbio se sia sempre la solita. Si alternano citazioni e riferimenti colti, personaggi mitologici, storici e di fantasia, la trama risulta spezzettata in una serie di episodi, descrizioni che a volte rimangono in sospeso e a volte sono riprese da un altro punto di vista. La presa di Izmail è una matassa di fili colorati, orchestrata con una pluralità di registri e stili in un'interpretazione personale del post-moderno dove la disgregazione della struttura narrativa sembra aprire nuove vie alla forma romanzo.
A Shishkin non interessa spiegare e nemmeno dare continuità alla storia, si limita a fornirci i materiali su quali riflettere, mostrandoci una teoria di situazioni alle quali i personaggi del romanzo provano ad attribuire un significato, cercando colpevoli per morti e sofferenze che risultano tanto inutili quanto inevitabili.
Cos'è la giustizia? E cos'è la verità? Impossibile da dire, soprattutto quando la realtà del sogno finisce per confondersi con quella della vita. Siamo in un territorio strano, dominato da uno straniamento esistenziale venato da un'ironia amara. Tutto è instabile, provvisorio, mutevole, al punto che il solo appiglio per questo viaggio dentro la coscienza (individuale e collettiva) sembra essere la scrittura. Unico porto franco diventa, forse, quello dell'immaginazione con la quale è possibile disegnare un mondo che soddisfi le nostre regole, quelle stesse regole che nella vita vera diventano inapplicabili perché la realtà è fatta di interpretazioni, punti di vista e la verità una chimera che continua a farsi beffe dell'uomo.
La presa di Izmail è un lungo processo alla Russia, per non dire all'umanità tutta.

«è proprio quella la grandezza della letteratura che si rispetti: non solo svelarci ciò che non esiste, ma anche ciò che non potremmo arrivar a concepire.»
[Augustin Fernández Mallo: Teoria della guerra]

sabato 28 gennaio 2012

Mikhail - Shshlin - Lezione di calligrafia




Vivere o sopravvivere?

Impressionante prova di bravura di uno scrittore che a soli 26 anni dimostra di aver letto e assimilato i grandi classici della letteratura russa. Le memorie di Larianov è un romanzone di stampo ottocentesco nel quale Shishkin ci descrive la parabola esistenziale di un uomo “tenero, sognatore, presuntuoso, stupido ed ordinario” (per usare solo alcuni degli aggettivi con i quali il protagonista verrà descritto nelle pagine del libro). 
Il giovane Larianov è un idealista che crede nel futuro, nella patria, nella buona fede degli uomini e nella possibilità di cambiare le cose. La vita militare lo farà scontrare con una realtà diversa da quella che aveva previsto e lo spingerà a ritirare la testa nel carapace tornando alla rassicurante mediocrità della dacia in campagna e sposando la ragazzina che lo amava. Ma Larianov non è uomo d'azione ed anche in un ambito più ristretto rispetto a quello militare non riuscirà ad imporre la sua personalità a causa dell'usuale mancanza di nerbo, preferendo di nuovo la fuga al confronto con la realtà. 
A Kazan si innamorerà, ma una volta respinto perché giudicato “ordinario” non farà nulla per conquistare il cuore dell'amata ma si limiterà a viverle accanto come molti altri. L'insurrezione in Polonia sembra poter risvegliare la coscienza di Larianov, ma si rivelerà l'ennesimo fuoco di paglia perché il disincanto, la convinzione di non poter cambiare le cose (l'oblomovismo, direi) alla fine avranno la meglio soffocando gli ultimi rigurgiti di idealismo al punto che Larianov finirà per tradire e mandare agli arresti l'amico. Un tradimento per paura, per difendere se stesso, ma – quel che più conta – un tradimento consumato senza sensi di colpa, addirittura con un sorriso. 
Ancora un romanzo sul nicevò, sul fatalismo e la rassegnazione che sembrano essere tratti dei quali l'anima russa non riesce a liberarsi. Larianov non è un sempliciotto, ha capacità di analisi e vede perfettamente quali sono le cose che non vanno e perché, ha ideali e voglia di metterli in pratica, ma il muro che si trova davanti sembra un ostacolo troppo alto da superare, tanto da spingerlo a ripiegare su una vita a luci spente, senza sogni né speranze. 
Sopravvivere, appunto, non vivere.