sabato 14 agosto 2021

La metà del doppio – Fernando Bermúdez

Esercizi di scrittura del più importante scrittore argentino contemporaneo


Sette racconti nei quali ciò che più conta non è tanto la trama quanto l'architettura e le tecniche narrative che l'autore mette in campo per costruire strutture labirintiche, reti sempre diverse che inevitabilmente finiscono per avviluppare il lettore alla storia.
Quella di Bermúdez è una scrittura complessa, non lineare, che scrive se stessa come le mani che disegnano di Escher. Sette racconti sui quali aleggia l'idea della perdita, della ricerca o dell'inseguimento. Si passa dalla narrazione classica (Mezzanotte passata) a quella che sovrappone i piani narrativi (Hugo Talmann, morto a New York), dall'uso di tecniche cinematografiche (La condizione genuina) a storie che partono dal reale per sconfinare nel surreale (Circostanziale di tempo).
L'autore gioca con le parole, in apparenza elevandole a simboli di precisione ma in realtà gettandole nell'indeterminatezza con continui cambi di registro da un racconto all'altro, con un cambiamento dei punti di vista che richiede la costante attenzione del lettore: non conta ciò che è vero e ciò che è falso ma quello che succede o, meglio, come succede, cosa provoca nei personaggi e in noi stessi. Sono storie che si aprono ad altre storie, in un labirinto di trame, un affascinante gioco di scatole cinesi in cui è bello smarrirsi per cercare la propria strada, sapendo che a una lettura successiva potremmo trovare una nuova traccia, una pista diversa da seguire.

domenica 8 agosto 2021

Tre orfani – Giorgio Vasta


Il 12 marzo 2020, giorno del suo cinquantesimi compleanno, lo scrittore Giorgio Vasta trova seduti alla sua tavola Bartleby e il capitano Achab.
Questo è l'inizio di Tre orfani, un racconto surreale che non ha paura di mescolare autofiction e metaletterario per raccontare il disagio dell'uomo (anche) al tempo della pandemia.
«tre figurine consunte, tre reduci non si sa da cosa e da dove: tre reietti: tre relitti»
I personaggi melvilliani sono trattati da Vasta in maniera fedele all'originale letterario, sia nei comportamenti che nel linguaggio: a un Achab che scruta inquieto il buio della notte palermitana credendo donchisciottescamente di vedere cetacei dietro ogni ombra, fa da contraltare un Bartleby silenzioso, impegnato a cancellare prima le mail dal computer dell'autore, poi gli impegni dalla sua agenda, quelli della rubrica telefonica e i contatti di whatsapp.
«Seduto sulla sponda del letto, mi ero reso conto di non essere attraversato da nessun sentimento», 
scrive Vasta, prima di andare in bagno a lavarsi le mani, gesto che in questi mesi abbiamo ripetuto tutti fino allo sfinimento facendolo diventare automatico, e sono parole e comportamenti che ben rappresentano lo straniamento dell'autore e di noi con lui, abitanti di un mondo che è diverso da come era prima.
Bartleby rimuove, Achab è il visionario, quello che cerca qualcosa di indefinito, e Vasta si trova nel mezzo delle due visioni, sospeso tra una e l'altra, sospeso tra il non fare e il fare (ma comunque senza saper oggettivare quel fare). Liberatorio, oltre che simbolico, risulta così il gesto con cui nelle ultime pagine scaglierà ina scopa diventata arpione non tanto nella realtà del giardino ma nel vuoto dell'immaginazione, della letteratura.
«era stato solo allora, dicevo, che indietreggiando ancora di un passo avevo rinsaldato a presa, sollevato il braccio e fatto ruotare la spalla fino a battere l'estremità arrotondata contro il pavimento dietro di me; poi avevo mosso qualche passetto in avanti – avrei dovuto darmi una spinta e avevo traballato, avrei dovuto giocare di gambe per ottenere slancio e avevo vacillato: il movimento era venuto fuori storpio, ma lo stesso, non so come, ero riuscito a disegnare con il corpo un arco ampio e poi a richiuderlo schiudendo il pungo: il bastone di scopa intagliato aveva lasciato la mia mano e lungo la sua traiettoria, prima verso l'alto e poi verso un punto il più possibile esatto e lontano, era diventato un rampone che trapassava senza suono, uno strato dopo l'altro, il cielo nero e i suoi arcipelaghi stellari, l'etereo e il subacqueo, una babele di silenzi, dirigendosi cieco verso il suo bersaglio – la balena di Achab, il muro di Bartleby, e ogni scrittura fatta di solchi e schegge, e i mio cinquantesimo anno pandemico e tutto il tempo chiuso dentro gli anni e dagli anni sprigionato, il tempo preso nelle camere, disperso nel mio corpo, quello che mi si scioglie alle spalle e quell'altro, se è un altro, che a ogni respiro mi brancola fuori dal petto, che sempre più piano balbetto con le labbra e con le dita – finché, no so più quando, avevo sentito l'impatto: la punta del rampone che con un rumore colmo, profondo, tenero e aspro, si conficcava nella carne del buio.»

sabato 17 luglio 2021

Kornél Esti – Dezső Kosztolányi


«Tra la vita e la letteratura Esti sceglie sempre la letteratura, poiché quella è la vita.»


Diciotto capitoli che sono altrettanti racconti singoli che nel loro complesso vanno a costruire il romanzo della vita di Kornél Esti, alter ego o meglio "doppio" dell'autore.
Un tipo frivolo, snob, che vive al di fuori degli schemi della società del tempo, quello che oggi definiremo un "non omologato".
«Mio fratello e mio opposto.» lo definisce l'autore «Uguale in tutto e diverso in tutto. Io ho raccolto, tu hai sparpagliato, io mi sono sposato, tu sei rimasto celibe, io adoro la mia gente, la mia lingua, respiro e vivo solamente in patria, ma tu, giramondo, voli sopra le nazioni, libero e garrisci l'eterna rivoluzione. Ho bisogno di te. Senza di te sono vuoto e mi annoio. Aiutami, altrimenti perisco.»
Due facce della stessa medaglia: uno sa solo vivere e l'altro solo scrivere, da qui la decisione di diventare coautori. Kornél Esti racconterà le sue avventure e l'autore le scriverà. Un romanzo? Un diario di viaggio? Una biografia romanzata? Tutti e tre insieme.
Frammenti, episodi di vita, le mirabolanti avventure di Kornél Esti, un "marziano" a spasso per l'Europa del primo Novecento.
Episodi che già dal titolo dei capitoli riecheggiano quelli del Don Chisciotte. Come l'eroe dalla trista figura, Kornél Esti si scontra infatti con un mondo del quale fatica a prendere le misure, risultando spesso fuori luogo.
«Esti non capiva la vita; non aveva idea perché fosse nato in questo mondo. Pensava solo che chi era capitato in quest'avventura dallo scopo ignoto, che termina con l'annullamento, fosse sollevato da qualsiasi responsabilità e avesse il diritto di fare ciò che voleva: per esempio sdraiarsi in mezzo alla strada e iniziare a lamentarsi senza ragione e senza meritarsi alcuna disapprovazione. Ma proprio perché considerava la vita nel suo insieme priva di senso, ne capiva ogni piccola parte presa una a una, ogni persona senza eccezione, ogni punto di vista nobile e infame che fosse, ogni teoria, e l adottava immediatamente.»
«Vivere così, nell'insensatezza massima sguazzando tra le insensatezze minime, secondo lui non era stupido, anzi era forse il odo di vivere più giusto e più sensato.»
I miti della società non fanno presa sulla personalità di Kornél Esti, anche l'improvvisa ricchezza diventa per lui una scocciatura, così che decide di distribuire il denaro ereditato ma non destinandolo ad opere bene, bensì distribuendolo a casaccio, proprio come l'aveva ricevuto.
«Io non sono nato per salvare questa umanità che, quando non è colpita da incendi, alluvioni e pestilenze, mette in piedi le guerre e provoca artificialmente incendi, alluvioni e pestilenze. Ho abbandonato a se stessa, già da tempo, la cosiddetta società e non mi sento neppure tutt'uno con essa. Mia parente è la natura: folle, indomita e viva.»
Kornél Esti è un'anima pura, che guarda al caos della vita con gli occhi del bambino, affascinato dalla possibilità di intrattenere una conversazione con un bulgaro senza conoscere la lingua, ma solo con sguardi ed espressioni del viso.
Si prende gioco della ragione, la sfida e la mette in dubbio ad ogni passo e nel suo gioco iconoclasta non dimentica le élite culturali del tempo, soprattutto i poeti con la loro «visione del mondo pomposa e sentimentale» e i legislatori, gli organizzatori della cosa pubblica:
«Io ho sperimentato che si possono mantenere concordia e pace nella vita pubblica solamente se lasciamo che ogni cosa vada per la sua strada, se non ci intromettiamo nelle leggi eterne della vita; che non dipendono dalla nostra volontà, e pertanto difficilmente possiamo cambiarne qualcosa.»

«Finora tutto il disordine sulla Terra è stato generato dal fatto che alcuni hanno voluto fare ordine, tutto lo sporco si è creato perché alcuni si sono messi a spazzare. Cercate di capire, la vera maledizione a questo mondo è l'organizzazione, e la vera felicità invece sono la disorganizzazione, il caso, il capriccio.»
Kornél Esti è homo aestheticus, un folletto dei boschi che si diverte a osservare con sguardo beffardo e bonario i suoi simili e i loro sforzi per guadagnarsi un posto comodo nella vita, così simili al personaggio dell'ultimo capitolo che dopo aver sgomitato tanto per ottenere un posto a sedere sul tram, non riesce a godersi il piccolo trionfo appena conseguito perché la vettura è appena giunta al capolinea.

sabato 26 giugno 2021

L'occasione – Juan José Saer



Classico romanzo saeriano tra filosofico e psicologico giocato sul sottile confine che separa commedia e tragedia.
Bianco è un "mentalista" che dopo una brutta esperienza in pubblico a Parigi lascia l'Europa per coltivare la rivincita dello spirito sul materialismo nella solitudine della sterminata pampa argentina. Qui troverà una giovane moglie, Gina, e un medico amico, Garay López, finendo però vittima di quei dubbi che credeva di poter sconfiggere con il potere della mente.
L'occasione è un ottimo romanzo sul dualismo spirito/materia ma soprattutto sul tema dell'ambiguità. Ambigua è l'identità del protagonista, ambiguo è il rapporto tra Gina e Garay López che darà il via al processo che lo condurrà all'autodistruzione, ambiguo è il rapporto di Blanco con la realtà perché in Argentina dimostra di sapersi districare molto meglio nel campo del materialismo rispetto a quello dello spirito, che mostra più incognite di quanto egli creda. In questo senso il personaggio di Gina rappresenta l'inconoscibile, l'elemento che sfugge al controllo del protagonista, il granello di sabbia che finisce nell'ingranaggio e provoca la rottura dell'intera macchina.
L'uomo di Saer è un uomo che ha smarrito le certezze, un uomo alla ricerca della luce e che non accettando gli angoli bui dell'esistenza, le zone oscure, le sfumature, l'inconoscibile, finisce per ritirarsi nella propria fortezza spirituale, dentro la sua pazzia.

Link
http://www.altrianimali.it/2021/05/17/loccasione-saer-lirrisolvibile-dualismo/






domenica 20 giugno 2021

Memoria della memoria – Marjia Stepanova

 


«il libro sulla mia famiglia alla fine non è affatto sulla famiglia, ma su qualcos'altro. In realtà è sul meccanismo della memoria e su ciò che vuole da me.»

Memoria della memoria è un'opera sorprendente tra saggio e romanzo in cui, in una sovrapposizione di piani narrativi, letterario e meta-letterario finiscono per trarre linfa uno dall'altro. Stepanova riprende i fili di un tema che attraversa la letteratura europea e russa dal dopoguerra ad oggi, che sviluppa in maniera personale corredando i suoi pensieri con un intertesto ricchissimo.
I ricordi personali, quelli della scrittrice e della sua famiglia, diventano il pretesto per sviluppare una riflessione ad ampio raggio che parte dai materiali della memoria (oggetti, fotografie, lettere…) per affrontare il canone della memoria in senso lato. Stepanova individua i trabocchetti di cui è costellato il percorso, dai falsi ricordi ai rischi della post-memoria e si confronta con punti di vista diversi: quello di Mandel'štam di "seppellire il tempo passato in una bara di pino", quello di Charlotte Salomon di affrancarsi dal passato descrivendolo, quello di Joseph Cornell di salvare attraverso le sue scatole la memoria del passato e quello di Sebald – il più vicino alla scrittrice russa – che intende il tempo "come una caverna porosa, simile a certi monasteri scavati nella roccia, nelle cui celle ciascuno svolge il proprio lavoro parallelo".

In questo libro l'autrice lavora su due livelli, familiare e nazionale. Su quello familiare si propone di mettere ordine nei propri ricordi nonostante la consapevolezza che si tratta di un ordine illusorio. L'impresa merita comunque di essere intrapresa perché ha il potere taumaturgico di "farla stare meglio" e anche perché raccontare il mondo dei ricordi le consente di strapparlo per un attimo dall'oblio.
Sul piano nazionale invece, prova ad affrontare e superare la fissazione del mondo letterario russo per il passato, specchio di una crisi ideologica caratterizzata dal rifiuto di confrontarsi con il presente e di pianificare una prospettiva per il domani.
Memoria della memoria è un grande libro sul bisogno e insieme sull'impossibilità della memoria.

Sapevo che il vero aleph di questa narrazione l’avevo già in tasca. Era una statuina minuta, circa tre centimetri di lunghezza, di porcellana bianca e fattura piuttosto convenzionale, un putto nudo e riccioluto che sarebbe potuto passare per un cupido, se non fosse stato per i calzini. L’ho comprato su una bancarella di antiquariato a Mosca, dove si sono resi conto tardi che gli oggetti del passato sono costosi. Ma non mancavano quisquilie da due soldi, e infatti in una vaschetta colma di ogni genere di bigiotteria intravidi una scatola che conteneva un mucchietto di cosini bianchi. Stupiva che non ce ne fosse almeno uno tutt’intero, bene o male ostentavano tutti qualche mutilazione: chi niente braccia, chi niente testa, e tutti quanti senza eccezione scheggiati e ammaccati. Li rigirai a lungo tra le dita in cerca di uno un po’ più grazioso, finché non trovai il più bello. Era quasi intero ed emanava un luccichio da regalo. Ricci e fossette al loro posto, e anche i calzini lavorati a maglia, e né la macchia scura sulla schiena né l’assenza delle braccia impedivano di deliziarsene. Naturalmente chiesi alla signora della bancarella se per caso ne avesse uno ancora più integro, e in risposta mi raccontò la storia che decisi di approfondire. Queste statuine da due soldi sono state prodotte in una città tedesca per mezzo secolo, mi disse la signora, dalla fine degli anni ottanta del XIX secolo. Le vendevano un po’ dappertutto, nelle drogherie e nei negozi di casalinghi, ma la loro funzione principale era un’altra: semplici ed economiche, venivano usate nel trasporto delle merci come paracolpi friabili, affinché le cose pesanti non si sbeccassero urtandosi nel buio. In pratica queste statuine venivano prodotte apposta per essere mutilate; ma poi, prima della guerra, la fabbrica chiuse. I magazzini, pieni di queste piccole porcellane, rimasero dismessi finché non finirono sotto un bombardamento, e parecchio tempo dopo, quando le casse vennero aperte, dentro non rimanevano che pezzi monchi. Così comprai il mio putto senza prendere nota del nome della fabbrica o del telefono della signora della bancarella, sapendo però che probabilmente mi portavo in tasca il finale del mio libro: la soluzione del problema che si ha l’abitudine di cercare nelle ultime pagine. Diceva già tutto. E che non esiste storia che arrivi integra fino a noi, senza piedi malconci e teste penzoloni. E che lacune e strappi sono l’immancabile compagno di viaggio dello stare al mondo, il motore recondito, il meccanismo della futura accelerazione. E che solo il trauma ci trasforma da prodotti di massa in un noi inequivocabile, un noi al dettaglio. E che naturalmente anch’io sono una di quelle statuine, un oggetto di larga produzione, frutto della catastrofe collettiva del secolo andato, suo survivor e involontario beneficiario, al mondo per miracolo e tra i vivi.
[…]
Una sera piovosa la statuina mi cadde di tasca e si ruppe sul pavimento di piastrelle della vecchia casa, come l’uovo d’oro nella favola della gallina pezzata. Si ruppe in tre pezzi, la gamba nella calzina volò sotto la pancia della vasca da bagno, il corpo da una parte, la testa dall’altra. Ciò che illustrava alla meno peggio l’integrità della storia propria e famigliare d’un tratto divenne allegoria: dell’impossibilità di raccontarla e dell’impossibilità di conservare almeno qualcosa, e della mia totale incapacità di rimettere insieme me stessa dai frantumi di un passato altrui o almeno appropriarmene in modo convincente.