Clarice Lispector – La città assediata
(trad. Roberto Francavilla, Elena Manzato)
Adelphi (I ed. 1949)
Ancora un libro di Clarice Lispector. Ancora una lettura difficile e importante, seppure dalla trama assai esile. La storia di Lucrécia, una ragazza priva di ingegno che negli anni Venti del Novecento vive a São Geraldo, un sobborgo immaginario, guardando con occhio obliquo la vita e il mondo attorno a sé e sognando un matrimonio che la porti via da lì per raggiungere la grande città. Lucrécia realizzerà il suo progetto, ma solo per un breve tempo. Un viaggio di andata e ritorno, che la riporterà da dove è partita, al suo luogo di osservazione su una periferia che si sta trasformando.
Tutto qui. Un romanzo modernista per temi e scrittura (l'urbanizzazione, la storia d'amore, la ricerca di nuove forme di espressione, il focus sulla soggettività e le modalità percettive…) che fa da cornice alle riflessioni dell'autrice, capaci – come sempre succede nelle opere di Lispector – di disorientare e insieme incuriosire il lettore, condotto per mano sul ciglio dell'abisso senza però riuscire a vedere cosa c'è sul fondo.
Romanzo difficile e importante, si diceva, perché getta le basi di una "teoria della conoscenza" che qui appare ancora frammentaria per non dire contraddittoria, che verrà affinata nei romanzi successivi fino al suo completo (e vertiginoso) raggiungimento nella Passione secondo G.H. Teoria della conoscenza come strumento che la scrittrice brasiliana utilizzerà poi per scandagliare le profondità dell'anima e nell'indagine sull'istante e sul linguaggio, temi che costituiscono il centro della sua ricerca letteraria.
Tornando a La città assediata, la scelta di una protagonista che non brilla per capacità intellettive, è finalizzata a ridurre l'importanza della ragione nel suo modo di approcciarsi al mondo, facendo sì che privilegi una conoscenza istintiva, che passa attraverso lo sguardo (non a caso ricorre spesso il paragone tra la protagonista e il cavallo). È come se l'autrice cercasse di eliminare nella sua ricerca tutti i rumori di fondo, le riflessioni, i ragionamenti, i fili logici che rischierebbero di attorcigliare il gomitolo che cerca di sbrigliare, di rendere torbida quell'acqua che vorrebbe fosse cristallina.
Reale, per Lucrécia è ciò che vede e vedere è il modo di dare forma alla realtà ("in lei e in un cavallo l'impressione era l'espressione"), imitare le cose è l'unico modo per conoscerle ma la difficoltà è proprio penetrare la vera natura delle cose, la stessa difficoltà del pittore che dipingendo un oggetto deve riuscire a riprodurne l'essenza. "La cosa veramente fondamentale era non comprendere. Nemmeno la propria gioia," Sì, perché l''atto del comprendere implica un passaggio in più, un ruolo attivo del soggetto che applica la sua immaginazione all'oggetto finendo per trasformarlo in qualcosa di diverso da quello che è: "la sua paura era di andar oltre ciò che vedeva", la paura di pensare perché "pensare sarebbe stato soltanto inventare".
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