L'opera struggente di un formidabile genio.
Frammenti che brillano nel buio, brandelli di un grande romanzo rimasto in potenza. Quello che resta sono idee, parti non collegate, un percorso abbozzato ma sufficiente a far trasparire la grandezza di Foster Wallace, la sua capacità di fare letteratura partendo da ogni cosa, in questo caso la noia, la routine del quotidiano.
Introspezione, scavo nella psicologia dei personaggi, descrizioni acute, dialoghi di struggente bellezza (il capitolo 46 su tutti), costruzione attenta e un rigore formale che sfiorano la perfezione e poi, soprattutto, l'empatia, la capacità di stabilire un contatto profondo con i protagonisti della storia, comprenderli nelle loro debolezze e comprendendoli, amarli.
"Il cane odiava quella catena. Ma aveva una sua dignità. Quello che faceva era non tendere mai la catena del tutto. Non si allontanava mai nemmeno quel tanto da sentire che tirava. Nemmeno se arrivava il postino, o un rappresentante. Per dignità, il cane fingeva di aver scelto di stare entro quello spazio che guarda caso rientrava nella lunghezza della catena. Niente al di fuori di quello spazio lo interessava. Interesse zero. Perciò non si accorgeva mai della catena. Non la odiava. La catena. L'aveva privata della sua importanza. Forse non fingeva, forse aveva davvero scelto di restringere il suo mondo a quel piccolo cerchio. Aveva un potere tutto suo. Una vita intera legato a quella catena. Quanto volevo bene a quel maledetto cane."