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domenica 28 ottobre 2018

Hermann Broch – La morte di Virgilio



 La bellezza non salverà il mondo

Una sfida. Un libro ostico, oscuro, a tratti incomprensibile. Una lettura faticosa, spesso estenuante. Frasi lunghe, ampollose, ridondanti, che più di una volta fanno venir voglia di scagliare il libro contro il muro (e trattandosi nel mio caso di lettura su kindle, la cosa potrebbe essere pericolosa). Una scrittura pesante, respingente, lontana anni luce dalla prosa che siamo abituati a leggere, che rischia spesso di far calare l’attenzione del lettore, costringendoci a tornare sulla stessa frase più volte. Ci vuole pazienza con quest’opera, la tentazione è quella di correre avanti, di saltare qualche paragrafo poco chiaro per rincorrere la storia, i fatti, le azioni, ma l’autore è li con noi e ci costringe a rallentare per provare a capire, ad aspettare, a non trascurare nessuna delle sue parole.
Se le cose stanno così (e, credetemi, stanno davvero così), perché continuare? Perché La morte di Virgilio è un libro che merita il nostro sforzo, perché Broch è Broch e la sua lettura premia sempre il lettore.

La trama è il racconto delle ultime ventiquattro ore della vita di Virgilio, da quando il poeta, malato e ormai lucido solo a tratti, arriva a Brindisi al seguito della flotta di Ottaviano Augusto, fino alla sua morte. La storia è come una sinfonia musicale in quattro parti, caratterizzate ognuna da un ritmo diverso e sviluppate con uno stile che avvicina la poesia lirica.
Virgilio, prossimo alla fine, prova a fare un bilancio della sua vita e si rende conto di non aver ottenuto nulla di quello che si proponeva, quello che rimane del suo tentativo  di trascendere la natura umana per raggiungere un’eternità impossibile è un pugno di mosche, la consapevolezza che la vita dell’uomo è simile a quella di un naufrago e che alla fine di tanto vagare ci si ritrova sempre al punto di partenza. Virgilio ha fallito perché la poesia (lo strumento al quale il poeta si era affidato per arrivare alla Verità) ha fallito e la Bellezza alla quale egli anelava non era altro che la fuga in un mondo di illusioni, una prigione sterile perché incapace di ulteriori sviluppi.
Per Virgilio/Broch la Bellezza non salverà il mondo, e l’Artista che si abbandona ad essa sacrifica la ricerca della conoscenza, sacrifica il contenuto in nome della forma. Bruciare l’Eneide è la conseguenza di questo suo ragionamento e se alla fine il poeta desisterà dal suo intento è solo per ottenere dall’Imperatore la libertà dei suoi schiavi e del denaro per il popolo di Brindisi, riscattando così in qualche modo il suo fallimento.
L’ultima parte di quest’opera è poi una specie di inno con pagine di rara bellezza formale, un viaggio verso l’Assoluto e un ritorno nel mondo degli uomini nel quale tutto si mescola e si confonde come in una grafica di Escher, come se il Tempo fosse un unico istante, con il giovane Lisania a farci da guida simile al Virgilio della Commedia che poi muta in una Plozia molto vicina alla Beatrice del Paradiso, in una metamorfosi continua di incomparabile bellezza.

Con La morte di Virgilio Broch si muove lungo una linea ideale che è quella dell’Ulisse dantesco, del Rilke delle Elegie Duinesi, della Cvetaeva e che arriva, azzardo, fino a Cărtărescu. Una corda sospesa sulla testa degli uomini, un tentativo di indossare le ali di Icaro sapendo già di finire bruciati.
Il filosofo Günther Anders ha definito questo libro “un libro per nessuno” e credo che non abbia tutti i torti. In effetti si tratta di una lettura che non mi sento di consigliare a nessuno ma anche di un viaggio affascinante ai confini dell’uomo che porterò sempre con me.

domenica 11 dicembre 2016

Hermann Broch – I sonnambuli


---Hors Catégorie---

Leggere il proprio tempo è impresa difficile, difficilissima. Molti si confrontano con questa montagna, pochi, pochissimi ne vengono a capo. Con il paradosso che spesso a riscuotere più successo è chi fallisce e non chi riesce nell’impresa, come se vedere nel profondo ci facesse paura, come se in realtà non volessimo capire davvero quello che ci succede. E così succede che ci si affidi alle voci di comodo e che si accomodi sotto l’ombrello protettivo del senso comune, del pensiero condiviso, privilegiando di volta in volta le voci consolatorie o quelle apocalittiche, sempre seguendo la corrente.
Broch è stato uno di quelli in grado di leggere il suo tempo e I sonnambuli è un libro enorme, uno di quelli che sta dalle parti dell’Uomo senza qualità, tanto per capirci. Perché I sonnambuli non è solo un’opera che spiega la realtà mitteleuropea a cavallo del Novecento, ma parte dal particolare per giungere ad una riflessione sull’uomo tout court,  con riflessioni che superano la prova degli anni tanto da poter essere considerate valide anche per i tempi che ci troviamo ad abitare.
Romanzo realistico o romanzo psicologico, si è scritto; romanzo-mondo, dico io. Opera che contiene al suo interno talmente tante idee che necessiterebbe di letture ripetute e più attente di quelle che io sono riuscito a concedergli: tre volumi che narrano accadimenti che si svolgono rispettivamente nel 1888, nel 1903 e nel 1918, a distanza di quindici anni uno dall’altro, tre protagonisti, Pasenow, Esch ed Huguenau, che incarnano in ognuna delle tre parti lo spirito del tempo.
Pasenow è l’uomo legato alla disciplina, il soldato che affida alla divisa il ruolo di “indicare e stabilire l’ordine del mondo ed eliminare l’aspetto incerto e fluido della vita”. Avrebbe bisogno di una guida, di qualcuno in grado di dirgli cosa fare e di aiutarlo ad orientarsi nelle cose del mondo, non trovandolo decide di sacrificare la libertà e di affidarsi alle regole della vita militare, limitandosi a galleggiare nella quotidianità. Non capisce la realtà, è attratto da chi è diverso da lui, dal nuovo, ma non sa muoversi su questo terreno per cui si ingegna a costruire collegamenti improbabili che gli consentano di spiegare quello che succede, perennemente sospeso tra ciò che vuole e ciò che crede gli altri si aspettino da lui.
Se Pasenow è il vecchio, lo spirito di un’epoca destinata a scomparire, l’ultimo rigurgito di un secolo superato che cerca di arroccarsi nella difesa ottusa di un ordine fine a se stesso, rifiutandosi di confrontarsi con il cambiamento, Esch invece incarna la forza per certi versi “dionisiaca” delle nuove idee. Dibattuto tra sensi di colpa e ricerca del piacere inteso come via per trascendere l’angoscia che lo domina, riscattare la solitudine dell’animo umano (unica strada verso la salvezza), sente il dovere morale di fare qualcosa, di espiare in qualche modo e portare giustizia (“sacrificarsi per l’avvenire ed espiare il passato; un galantuomo si sacrifica, se no non ci sarà mai un ordine!”). Un Esch dostoevskijano, direi, che si trova a confrontarsi con idee nuove, a percorrere con passo insicuro quelle stesse strade che Pasenow rifiutava, terreni impervi che confinano con l’anarchia.
Per quanto diversi, Pasenow ed Esch hanno un tratto che li accomuna: entrambi si sforzano di leggere il loro tempo ed entrambi sembrano farlo filtrando la realtà attraverso un paio di occhiali sbagliati. Faticano ad interpretare i rapporti tra i fatti e quelli tra le persone, ci costruiscono sopra teorie strampalate e poi agiscono a base a queste costruzioni fallaci.
Il terzo volume de I sonnambuli rappresenta la summa dell’intera opera, un cambio di marcia rispetto ai due volumi precedenti espresso anche dal punto di vista stilistico: la narrazione è contaminata da inserimenti di saggistica, testi poetici, teatrali, riflessioni filosofiche, dialoghi, critica, storia dell’arte, articoli di giornale, lettere… che rendono farraginosa la lettura ma contemporaneamente costituiscono le tessere necessarie alla composizione del puzzle che Broch ha in mente. Huguenau, il protagonista di questa terza parte, è il simbolo dell’epoca, un opportunista chiuso in se stesso, privo di valori, una personalità sterile figlia di una logica che non porta a nulla ma guarda solo al proprio interesse. Huguenau incarna alla perfezione la crisi di valori che Broch vuole descrivere, una crisi figlia dell’indifferenza, di una frammentazione della realtà in mille rivoli, sfere di interesse che finiscono per svilupparsi autonomamente una dall’altra e per radicalizzarsi fino a schiacciare l’uomo facendolo diventare ingranaggio. Sono sfere che, come detto, seguono logiche personali, perseguono fini diversi, vanno in direzioni diverse e tendono a conclusioni diverse: il risultato è uno smembramento della realtà con l’individuo che diventa “incapace di afferrare un qualunque valore al di fuori della sua strettissima sfera individuale”, perché “l’uomo sciolto da ogni gruppo etico, è diventato unicamente portatore del valore individuale, l’uomo metafisicamente “espulso”, espulso perché il gruppo si è dissolto e polverizzato in individui, è affrancato dal valore e dallo stile e a determinarlo non resta ormai che l’irrazionale”. Razionale ed irrazionale sono le parti che Broch identifica come necessarie e complementari alla costituzione di un unicum  inteso come entità superiore posta al di fuori delle nostre competenze e verso la quale dovrebbe tendere l’uomo  per arrivare alla salvezza.


Semplicemente una delle letture più importanti di sempre.