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domenica 25 ottobre 2020

Le palme selvagge – William Faukner

 


Due storie raccontate in parallelo e che trattano due vicende lontanissime una dall'altra: Palme selvagge e Il vecchio.

La prima narra le vicende di due amanti adulterini che cercano di vivere la loro relazione fuori dalle convenzioni, dal denaro e dai luoghi comuni della società, consapevoli di combattere una battaglia persa in partenza perché, come dice Charlotte, "naturalmente non posiamo batterli, naturalmente noi siamo condannati."

La seconda è la storia di un carcerato al quale durante un'inondazione del Mississippi viene affidato l'incarico di salvare dalle acque una donna incinta e che rifiuterà l'occasione di evadere per portare a termine il suo compito "cercando soltanto di mantenere a galla la barca finché poteva". È il racconto di un uomo che "voleva così poco. Non voleva nulla per sé. Voleva soltanto liberarsi della donna, di quel ventre, e stava cercando di farlo nella maniera giusta, non per se stesso, ma per lei".

Sono due storie dure, cupe, senza lieto fine, nelle quali assistiamo all' inesorabile scivolare dei protagonisti dentro alle loro vite seppure in maniera difforme: ne Le palme selvagge lottando, invano, per sottrarsi al destino e ne Il vecchio rinunciando in partenza a combattere.

Con un ricorso frequente al flusso di coscienza, ai periodi lunghi e al cambiamento dei punti di vista, l'autore disegna atmosfere cupe che incombono sui personaggi e danno un senso di inevitabilità alla loro sconfitta. La penna di Faulkner scruta nell'animo di protagonisti e figure minori con abilità dostoevskijana restituendoci una serie di caratteri quanto mai complessi e intriganti e indagando con la stessa lucidità del maestro russo la crisi dell'uomo all'interno della crisi della società, utilizzando la Natura, a tratti ostile, a tratti indifferente ma mai partecipe delle sofferenze dei personaggi per sottolineare la durezza delle loro vite.

I due racconti sembrano scritti uno in antitesi all'altro: se nel primo si parla di due persone che cercano di fuggire dalla società, nel secondo c'è un carcerato che lotta per tornare indietro, se i due amanti infrangono le leggi, il detenuto cerca di rispettarle, se gli adulteri cercano l'amore, il carcerato lo rifiuta dopo essere stato scottato… eppure le analogie sono molte di più delle contraddizioni e Faulkner è il solito pianista che gioca con i tasti evitando la cacofonia e riuscendo a tirar fuori una sinfonia da suoni che sembrano contrastanti.

Quello che accomuna i due protagonisti è la voglia di rispondere solo al senso di responsabilità verso se stessi e non al sentire comune, un andare contro corrente che finiranno per pagare in prima persona. Ciò che alla fine rimane a Harry e al vecchio carcerato sarà solo il ricordo, l'unico spazio nel quale immaginare di sentirsi liberi per dare un senso alla loro sconfitta.

sabato 13 gennaio 2018

William Faulkner – Assalonne, Assalonne!



Sul canone “gentiano”
Ci sono scrittori dei quali, una volta terminato un libro, mi viene subito voglia di leggerne un altro e poi un altro ancora. Questo non vale per Faulkner, almeno non nel mio caso. Perché non trovo consolatori e neppure “piacevoli” i suoi libri, piuttosto impegnativi e amari e spesso ho la necessità di intervallarne la lettura con qualcosa di differente.
Assalonne, Assalonne! non fa eccezione alla regola, anzi può essere considerato paradigmatico in questo senso. Faulkner è scrittore che richiede al lettore attenzione, molta attenzione, e lo fa con un incipit che mette subito le cose in chiaro e sembra più respingere che invogliare a proseguire la lettura:
“Da’ un po’ dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora l’ufficio perché così l’aveva chiamato suo padre—una buia stanza calda senz’aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati perché quand’era ragazza lei qualcuno era convinto che la luce e l’aria mossa portassero alcove e che al buio facesse comunque più fresco, una stanza che (come il sole andava battendo sempre più piano su quel lato della casa) si zebrava di lame gialle dense di pulviscolo che Quentin pensava formato di minuscole scaglie della stessa vecchia vernice rinsecchita e morta in via di scrostarsi dalle persiane e sospinta all’interno come dalla forza del vento. C’era una pianta di glicini che fioriva per la seconda volta quell’estate su una graticciata di legno davanti a una finestra, da cui ogni tanto entravano i passeri a folate intermittenti, levando un secco suono vivido e polveroso prima di andarsene: e dirimpetto a Quentin, Miss Coldfield nell’eterno lutto che portava ormai da quarantatré anni, se per una sorella, il padre o un marito mancato nessuno sapeva, seduta eretta nella dritta seggiola dura tanto alta per lei che le gambe le pendevano ritte e rigide come se avesse stinchi e caviglie di ferro, staccate dal pavimento con quell’aria di rabbia impotente e statica che hanno i piedi dei bambini, e parlava con quella sua cupa voce scarna e stupefatta fin quando si finiva per non poter più ascoltare e il senso stesso dell’udito si confondeva e il sepolto oggetto della sua frustrazione impotente eppure indomabile ricompariva, quasi evocato da quell’offeso ricapitolare, quieto disattento e innocuo, dalla paziente, sognante polvere vittoriosa.”
La prima cosa che colpisce è che un solo aggettivo per descrivere il pomeriggio non è sufficiente a descriverne l’atmosfera, tanto da rendere necessario impiegarne ben cinque. La seconda è che la narrazione sembra scorrere lenta, lentissima, ma nelle profondità si agita una sintassi “demoniaca”, che all’interno di frasi lunghe o lunghissime distribuisce virgole e parentesi a profusione, creando subordinate e ipotassi che appesantiscono la prosa rendendo farraginoso un racconto che non sembra arrivare mai al punto. Ci si sforza di andare avanti, ma si è costretti a tornare indietro, a rileggere, a cercare il filo che permetta di sbrogliare la matassa. Impresa inutile perché non c’è un filo, ma tanti fili. Faulkner non è tipo da scorciatoie, da concessioni al lettore. E ne sa una più del diavolo:  da un momento all’altro cambia la voce narrante (senza avvertirci, si capisce), la sequenza temporale si sposta avanti e indietro nel tempo e la lettura da farraginosa diventa irritante così che prima o poi l’attenzione si smarrisce nelle pieghe del discorso. Con Faulkner questo non te lo puoi permettere e allora devi tornare indietro per cercare un punto di ripristino (come si dice oggi…) da cui ripartire.
E allora chi te lo fa fare? Perché devi andare avanti se la lettura è così faticosa? Difficile dare una spiegazione. Forse vai avanti proprio per questo, per il piacere della sfida, per vedere dove l’autore ti vuole portare. Oppure, più semplicemente, vai avanti perché sai che questo libro è un capolavoro e la particolarità dello stile è uno degli elementi su cui si regge quell’enorme cattedrale che è Assalonne, Assalonne! , un libro enorme che in fin dei conti è solo il tentativo di non dimenticare, di tenere viva la storia di Thomas Sutpen  (“Noi abbiamo vecchi racconti tramandati di bocca in bocca; riesumiamo da vecchi bauli e casse e cassetti lettere senza indirizzo o firma, in cui uomini e donne che un giorno vissero e respirarono sono adesso mere iniziali o soprannomi coniati da qualche affetto ora incomprensibile che a noi suonano come sanscrito o Chock-taw; noi vediamo confusamente delle persone, le persone nel cui sangue e seme vivente noi stessi giacevamo in un sonno d'attesa, in quella umbratile attenuazione del tempo, assurte ora a proporzioni eroiche, tornate a compiere i loro atti di semplice passione e semplice violenza, impervie al tempo e inesplicabili. Sì, Judith, Bon, Henry, Sutpen: tutti quanti. Loro ci sono, eppure manca qualcosa; sono come una formula chimica riesumata insieme alle lettere da quel cassone dimenticato, accuratamente, la carta vecchia e sbiadita che va in pezzi, la scrittura sbiadita, quasi indecifrabile, eppure piena di significato, familiare quanto a forma e senso, nome e presenza di forze volatili, e senzienti; tu le ricomponi nelle proporzioni volute, ma nulla accade; tu rileggi, pedante e attento, riflettendo bene, accertandoti di non aver dimenticato nulla, di non aver commesso errori di calcolo; tu le ricomponi ancora e ancora e nulla accade: semplicemente le parole, i simboli, le forme in se stesse, umbratili inscrutabili e serene, contro quel turgido sfondo di un orribile e sanguinoso groviglio di affari umani.”).
Già, la storia di Thomas Sutpen, ma non solo, perché Assalonne, Assalonne! è una saga, un grande romanzo corale, nel quale le voci degli altri personaggi non si limitano a fare da controcanto ma esprimono altrettanti caratteri e aspetti psicologici. Un libro nel quale uomini e donne vivono e parlano in stretta connessione perché:
“Tu vieni al mondo e tenti e non sai perché solo continui a tentare e vieni al mondo insieme a un mucchio di altre persone, tutta aggrovigliata a loro, come loro tentando, dovendo muovere braccia e gambe con cordicelle, solo che le stesse cordicelle sono legate a tutte le altre braccia e gambe e gli altri tentano tutti quanti e neanche loro sanno perché, tranne che le cordicelle si impicciano tutte a vicenda come sarebbe a dire cinque o sei persone tutte intente a cercar di fare una stuoia sullo stesso telaio solo che ciascuna vuol tessere la stuoia secondo il proprio disegno; e non può avere importanza, lo sapete, sennò Coloro i quali impiantarono il telaio avrebbero predisposto le cose un po' meglio, eppure deve avere importanza purché tu seguiti a tentare o a dover continuare a tentare e poi tutt'a un tratto è finita e tutto quel che ti rimane è un blocco di pietra con qualche scalfittura sopra purché ci sia stato qualcuno a ricordarsi di far scalfire e collocare il marmo, o che ne abbia avuto il tempo, e ci piove sopra e il sole ci splende e dopo un po' non si ricordano neppure il nome e quello che le scalfitture tentavano di dire, e non ha importanza. E così forse se tu potessi andare da qualcuno, quanto più estraneo tanto meglio, e dargli qualcosa – un pezzo di carta – qualcosa, qualunque cosa, non certo perché abbia un significato in sé e gli altri non debbono neppure leggerlo o tenerlo, nemmeno preoccuparsi di buttarlo via o distruggerlo, almeno sarebbe qualcosa giusto perché sarebbe accaduto, sarebbe ricordato quand'anche solo passando da una mano all'altra, da una mente all'altra, e sarebbe almeno una scalfittura, qualcosa, qualcosa da poter lasciare un segno su qualcosa che fu una volta per il motivo che può morire un giorno, mentre il blocco di pietra non può essere è perché non può mai diventare fu perché non può mai morire o perire…"


Nella mia idea di canone letterario, Faulkner occupa un posto di rilievo. Lo colloco su una retta ideale che collega Dostoevskij a Foster Wallace. Al primo lo lega la scelta dei temi, perché solo personalità fornite di mezzi potenti possono permettersi di mettere al centro della loro narrazione la Vita, la Morte e l’Uomo e soprattutto scavare così in profondità in ognuno di questi ambiti e poi c’è la polifonia, la capacità di dar voce a tutti i personaggi, Foster Wallace invece, è un collegamento che mi è venuto in mente proprio per lo stile, per la scelta coraggiosa e anacronistica di entrambi di rifiutare la via breve di una narrazione semplice e logica, per inerpicarsi lungo sentieri rischiosi ma che sono la maniera più vera di restituire al lettore tutta la complessità del sentire e ragionare dell’uomo.

sabato 18 gennaio 2014

William Faulkner - Mentre morivo


A volte ritorna. 
La grande epica, si intende. Quella della tragedia greca, quella che può rimanere nascosta anche millenni, magari finire dimenticata, fuori moda, superata, ma che non muore mai. Fuoco che cova sotto la cenere, fiume carsico che scorre nascosto in attesa di un varco che gli permetta di saltare fuori ed esplodere in tutta la sua potenza. 
Tutto questo è “Mentre morivo”, un affresco a tinte forti, dove tutto è vero e non c'è nulla di artefatto. Le cose, le persone, i sentimenti restituiti per quello che sono, senza concessione a buonismi o aiutini al lettore. Faulkner non fa sconti: non gli interessa spiegare, rendere accessibile, semplificare o roba del genere ma farci vedere il dramma con gli occhi dei protagonisti, farcelo ascoltare attraverso le loro voci. E lo fa attraverso una scrittura densa che restituisce al meglio la cappa di dolore e sofferenza che grava sui protagonisti, l'atmosfera cupa e febbrile, l'inevitabilità degli eventi, un sentire che spesso è contraddittorio, inespresso o espresso solo in parte. 
E poi il viaggio, la grande metafora americana, vista con gli occhi degli sconfitti, degli ultimi. 
In estrema sintesi si potrebbe dire che “Mentre morivo” è un libro che racconta l'epica dei vinti, l'epica ai tempi della Grande Depressione. 
Scusate se è poco.