Visualizzazione post con etichetta lwv. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta lwv. Mostra tutti i post

sabato 20 ottobre 2012

Liturgia pagana


Accade
che mentre cammino costruendo mondi
apra gli occhi e si accenda il mare.

Dubito
che questa volta sarà come le altre.

Temo
che il sangue non si scioglierà
che il metallo non diventerà oro
che il ramo nella mano del bambino non si farà spada.

Perché non c’è spiegazione a quello che accade quando incontro il mare,
nessuna certezza che la magia si ripeta ogni volta.

Invece succede.
Anche questa volta,
come le altre volte è stato.
Succede
che mi senta capito senza far scorrere parole
accolto nella casa del padre
senza dover fabbricare giustificazioni.

Qui dove si parla una lingua che non ha bisogno di parole
qui dove le cose esistono di per sé
senza il bisogno dell’uomo che le giustifichi.

Qui al punto fermo dove la danza ha inizio.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

domenica 23 settembre 2012

La caduta



Sono caduto su un mare di specchi
Tra sorrisi di circostanza
Ed attenzione agli schizzi
Tra strette di mano sudate
E lingue affilate come lame.
Una caduta rovinosa
Con vetri in frantumi
Che riflettevano all’infinito
La mia immagine deformata.
Una caduta fragorosa
Come non avrei voluto
In mezzo a una folla
Prima attonita e poi seccata.
Spruzzi in ogni canto
Acqua e fango sulle vesti.
Inutili le scuse e le frasi di rito
La colpa ad altri o al fato
Le promesse di riparare al danno procurato
Le assicurazioni che in futuro mai
E più attenzione in caso che.
Sono caduto in mare un giorno
Ed al risveglio non ricordavo di avere sognato
Quando mi sono alzato
Non ero neppure bagnato.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

domenica 5 agosto 2012

Davanti alla siepe


Il sentiero che termina in uno spiazzo,
la siepe e sotto il mare.

Un pomeriggio al rallentatore
che non si decide a morire
e un sole pallido che indugia
carezzando le scaglie
del drago d’argento.

Il vecchio giorno
abbandona lento la scena
mentre io assisto all'ultimo atto
in piedi davanti alla siepe

appoggiato ai miei sogni
attento a non cadere.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

sabato 14 luglio 2012

Dalla grotta Byron


E’ una selva di pini
che agita le chiome
dentro diga.
Il Libeccio un pastore 
che guida le onde
nella gola sotto San Pietro.

Un spruzzo si leva più alto,

poi ricade con fragore
sulla roccia piatta.
Poi un altro, e un altro ancora.

Ma non quello.


Quello è passato, 

perduto per sempre.

Coltivo il ricordo,

lo annaffio ogni mattino
con il miele del rimpianto.
Colleziono oggetti
che nessuno cerca più,
mi balocco con pensieri
più leggeri dell’aria.
Quello spruzzo è stato ieri,
o mille anni fa.
Quando me ne accorgo
sono già oltre,
dall'altra parte dello specchio.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]


sabato 16 giugno 2012

Risacca



Carezza il bagnasciuga
nell'ora più stanca,
come gatto indolente
che si stira
annusando l’aria leggera.

Blandisce l’arenile,
leviga pietre millenarie,
movimento antico
muto parlare
a cuori in ascolto.


E mentre l’ultimo raggio
si spegne all'orizzonte
risuona nel vento una musica dolce,
preludio al vespro.

Poi calerà il sipario.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

domenica 3 giugno 2012

Mértola


C’erano sogni che Maria faceva con una certa frequenza: un gruppo di case, o una Chiesa, o un castello e lei che passeggiava, da sola, per questi posti. Fin qui niente di strano. Lo strano era che questi sogni si ripetevano; quei luoghi potevano apparire ora in maniera più precisa, ora più vaga, ma erano sempre gli stessi, non cambiavano mai e non corrispondevano a nessuno che lei conoscesse.
Due sere prima, ad esempio, aveva sognato il castello. Questa volta si trovava sui bastioni da dove poteva dominare con lo sguardo tutta la vallata, quel panorama che col tempo le era diventato familiare: colline basse e povere di vegetazione, un agglomerato non molto esteso di case bianche con i tetti rossi e poi il fiume, poco distante. 

Un altro sogno che Maria faceva di frequente era quello della strada. Dovevano essere le prime ore del pomeriggio e Maria camminava lungo questa strada sotto un sole estivo. Il cielo era una tavola di un blu luminoso ed uniforme, senza una nuvola, il silenzio interrotto solo dal rumore dei suoi tacchi sui sanpietrini che pavimentavano la via. Intorno non c’era nessuno, non una macchina, non un cane, lontano solo il frinire delle cicale.

Il castello del sogno aveva una grande torre ed altre torrette più piccole di difesa. Una porta ad arco apriva in una sala con il soffitto a volta, attraverso un corridoio di roccia si accedeva alla piazza d’armi, nel mezzo della quale c’era una costruzione cilindrica semi-diroccata: un pozzo, forse una cisterna.












A volte Maria sognava la Chiesa. Una Chiesa strana, diversa da quelle alle quali era abituata, bianchissima all’esterno con grandi merloni e torrette cilindriche. Non la tipica Chiesa a pianta rettangolare, ma una Chiesa quadrata, con un grande salone centrale e due navate laterali. A volte passeggiava lungo le navate addobbate con i pannelli che raffiguravano le stazioni della Via Crucis, altre volte arrivava fin davanti all’altare, dietro al quale c’era una nicchia contornata da strani pilastri arabeggianti.

[Lars W. Vencelowe: "Prove di fuga"]



domenica 27 maggio 2012

Dimissioni dalla lotta




Sono piovuto su un mare d’argento
un giorno di brezza leggera.
Intorno a me persone in maschera
nuotavano da millenni
rincorrendo bolle di sapone
che un vento capriccioso
spingeva un po’ più in là.
Il cielo era vestito dalle voci
di gente che chiedeva,
ma il suono del mare
copriva le risposte.
La riva era un miraggio
che si dissolveva
quando credevi
di averlo raggiunto.

Ho provato a seguirli,
ho rincorso oggetti e idee
cambiando più volte direzione.
Ho cercato rifugio
nelle profondità marine
per nascondermi dagli altri.
Ma ogni volta che il fondo
sembrava a portata di mano
mi spingeva via
ed io tornavo a galla
deluso e senza fiato.

Per soddisfare la sete dei miei sogni
non ho trovato nient'altro
che un contagocce consumato.
Stanco di girare in tondo
e di vagare senza meta
ho ammainato le vele
e mi sono arreso.
Sdraiato sul dorso
ho smesso di nuotare.

Dimesso dalla lotta
mi sono lasciato portare.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

sabato 26 maggio 2012

1 OTTOBRE 1970



1 Ottobre 1970, primo giorno di scuola. Ed io sbagliavo classe.
Un caso? Sicuramente. Ma forse anche un segno per dire: io sono così.
Così come? Così. Diverso. Che sia vero o no non ha alcuna importanza. Quello che importa è che mi sento diverso, e tanto basta. 
Sono quello che sento, non quello che gli altri cercano di convincermi che io sia, questo è il punto.
E non è bello sentirsi diversi. Ci si sente a disagio.
La diversità è un fardello pesante da portare, è merce che va trattata con delicatezza, perché diversità fa rima con fragilità. 
La diversità non puoi comunicarla a parole, e del resto sarebbe fatica inutile: solo un altro animo simile può riconoscerla.
La diversità è solitudine. Non ha senso esibirla, anzi. La si coltiva nel proprio cuore e la si nasconde a chi non capirebbe.
E così ho fatto. Ho cercato di stare nel gruppo, di confondermi, di annullarmi nella massa, di rendermi invisibile. Ho cercato di essere quello in fondo nelle foto, quello dietro a tutti. Ho giocato a mascherarmi, a fingere di essere come gli altri. Fino a quando? Per sempre, credo.
Mi sento irredimibile, condannato da me stesso ad una doppia vita: anonima quando sono tra la gente ed immaginifica quando sono nel mio mondo. E’ un modo di vivere un po’ complicato, ma che per ora funziona.
Ad una sola cosa devo stare attento, a non mescolare mai i due mondi. Temo che potrebbero saltare tutti gli equilibri che mi sono faticosamente costruito.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

sabato 7 aprile 2012

Vertigine


Dice il dizionario: “Vertigine: illusoria sensazione che il corpo o gli oggetti circostanti ruotino od oscillino”.
Dice il libro di medicina: “Vertigine è la sensazione che consegue alla modificazione dei rapporti del nostro schema corporeo con l’ambiente che ci circonda”.
Sono definizioni che vi soddisfano? A me per niente.
Vertigine è di più, è qualcosa di interno, è quello che succede quando si rompe un equilibrio al quale eravamo abituati ed improvvisamente scopriamo di essere senza punti di riferimento e ci sentiamo nudi, indifesi, davanti a qualcosa che non conosciamo.
Faccio questi pensieri dopo aver faticosamente raggiunto la cima di uno scoglio a strapiombo sul mare. 
Mi sporgo con circospezione, allungo il viso in avanti, guardo verso il basso e cosa vedo? La profondità, l’altezza, il vuoto. Avverto chiaramente la reazione di difesa con la quale il mio corpo reagisce alla situazione: le gambe ben piantate a terra, rigide ma pronte a ritrarsi al primo segnale di pericolo, le braccia staccate dal busto ed allargate a cercare il giusto bilanciamento, nel tentativo di dare stabilità al tronco, e poi una specie di formicolio che corre veloce lungo tutto il corpo, come ad avvertirmi del rischio incombente, e ancora, i movimenti lenti, circospetti, gli occhi fissi, ben attenti a non lasciarsi distrarre. In una parola: ho paura. Una paura giustificata, perché so che cadere da lì vorrebbe dire farsi male, ma è una paura che ha anche altre radici.
 Parliamoci chiaro: il baratro che si apre sotto di me mi attrae, è come una sirena che chiama, che mi spinge a contemplare affascinato la grandezza del vuoto. Forse ho paura di cadere perché sento dentro una voce che mi spinge a lasciarmi andare, una voce che mi sussurra quanto sarebbe affascinante esplorare quel vuoto, vederlo più da vicino…
In fondo è la stessa cosa che succede quando mi guardo dentro, quando rifletto su me stesso. Anche in quei momenti ho le vertigini: la voglia di andare fino in fondo e la paura di scoprire cose di me che potrebbero spaventarmi.

[Lars W. Vencelowe: "Pensiei, parole, opere ed omissioni"]

domenica 1 aprile 2012

Giocare con i sogni


Vivere in un sogno, o meglio: vivere di sogni. Sempre, anche nella vita di tutti i giorni. Fissarsi obiettivi lontani, troppo lontani, e perseguirli come se fossero realizzabili. E’ come un gioco.
Ho sempre avuto questa sensazione sin da piccolo: per dedicarmi con successo a qualche impresa, per riuscire bene in quello che faccio, non potevo accettare imposizioni, dovevo essere io a decidere tempi e modi ma soprattutto vivere la cosa come un gioco.
Ed ancora oggi è così. Gioco tutti i giorni. Nella vita reale, creandomi mete irraggiungibili. Nella scrittura, costruendo un mondo parallelo. Alla sera, prima di dormire, quando mi immagino vite che non vivrò mai. Probabilmente c’è una parola per definire tutto questo, si chiama immaturità. Lo so. E me la tengo ben stretta.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

domenica 12 febbraio 2012

Portare sacrifici agli dei


Passare tra due ali di folla che ti si stringono intorno. 
Provare imbarazzo per essere l’unico attore sulla scena. Camminare a capo chino, per non incrociare gli sguardi della gente. Sbirciare di soppiatto e scoprire che i loro occhi ti sorridono, ti guardano compiaciuti. Compiaciuti per il figliol prodigo che ha fatto ritorno a casa, per la pecorella smarrita rientrata all'ovile. 
Ricambi impacciato quei sorrisi, ti allacci sul viso un’espressione il più possibile simile alla loro. Avanzi con passo incerto sperando di arrivare presto, anche se non sai dove stai andando. Ti sforzi di immaginare cosa pensano, cosa si aspettano che tu faccia. 
Pensi che dovresti mostrarti sereno, tranquillo. Ma anche un po’ contrito, dispiaciuto. Pensi che un’espressione così non ce l’hai e che non sai se riuscirai ad apparire come loro si aspettano.
Hai scelto per questo giorno il tuo vestito più grigio. Hai curato i particolari, evitando di indossare qualcosa che ti possa mettere in evidenza. Lungo la strada alzi lo sguardo cercando un po’ di comprensione nei volti della folla ma non riconosci nessuno, sembrano tutti uguali. Allora chiudi gli occhi e sogni di riaprirli quando sarà tutto finito. Anzi no, non puoi più sognare, l'hai promesso.
Non sai neppure perché ti trovi lì in mezzo, sai solo che sta succedendo. Portare sacrifici agli dei, lo chiamano loro, e tu non sei abituato a fare tante domande. Pensi che è giusto così, che in fondo è cosa di un attimo e non dovresti neppure sentire molto dolore. Pensi che in fondo quello che stai facendo è quello che fanno tutti.
Passare tra due ali di folla che ti si stringono intorno. Sembra che questa strada non debba finire mai, sembra che quegli sguardi che si infilano come frecce nelle tue carni non debbano cessare. 
Ti fai coraggio, ti dici che  probabilmente il traguardo è proprio dopo quelle persone là in fondo. Man mano che avanzi prendi sicurezza, le tue gambe si fanno meno incerte, i movimenti più sciolti. Adesso cammini a testa alta e pensi che lo scopo di quello che stai facendo è proprio questo: sentirsi come gli altri, sentirsi normale, e provi un brivido mentre lo pensi. Cammini a testa alta e ti senti forte e non ti fanno paura le occhiate della gente. Cammini a testa alta e i loro sguardi indagatori ti scivolano addosso, come le lacrime che ora ti segnano il viso.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

domenica 5 febbraio 2012

Primo Gennaio



Scivola silenziosa sull'acqua immobile
una barca che passa - lontano
sfiora i flutti, suscita sogni,
si lascia alle spalle scie di spuma bianca.

Velo di sposa che striscia verso l’altare,
strappo nella carne che il mare ricuce.

Sono la barca che esce dall'ombra,
figliol prodigo che torna alla casa paterna.

Allento le cime, poi spiego le vele,
annuso l'aria e tendo le orecchie
attratto dall'incanto delle mie sirene.

Non importa che nulla accada,
finché posso immaginare che tutto accadrà.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

domenica 20 novembre 2011

Di cosa sono fatto



Tanto fumo, fiumi di discorsi che scorrono via. Aria.
Un sacco di dubbi e poche - pochissime - certezze, che si assottigliano con il tempo come grani di clessidra, come candela che la fiamma consuma.
Sogni belli da sognare, fantasie che mi piace rincorrere ma che poi non voglio catturare.
E mare. Tanto mare.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

sabato 19 novembre 2011

Binari



Un ragazzino cammina a testa bassa seguendo le rotaie del treno in aperta campagna. Un piccolo vagabondo dalla faccia sporca, di quelli che ormai non esistono più, un giovinetto senza famiglia e senza affetti, con un passato che probabilmente non vale la pena di ricordare ed un futuro complicato, di là da venire.
Chissà a cosa pensa, chissà dove sta andando. Sembra che tutto quello che sta intorno a lui non esista; non si cura della strada, non si guarda intorno, semplicemente va avanti, lungo i binari del treno. È come se vivesse in un mondo solo suo e non fosse interessato alla realtà.
Ad un certo punto il ragazzino sale con i piedi su un binario ed inizia un gioco da bambini, cercando di mantenere l’equilibrio il più a lungo possibile. Allarga le mani, oscilla, ogni tanto cade e poi risale; dopo un po’ inizia a saltellare da un binario all’altro e va avanti per un lungo tratto, fino a quando il mio sguardo lo perde.

Mi sento come quel piccolo vagabondo. Anch'io seguo la mia strada più per abitudine che per convinzione, saltando dal binario della realtà a quello dell’immaginazione senza sapere il perché di quello che sto facendo, senza sapere dove sto andando.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

domenica 30 ottobre 2011

Tra due attimi


Subito dopo che l’onda si alzasse sulle punte per sfidare il mondo
ma subito prima che esplodesse in mille pezzi a frantumare                                                                                                    [lo specchio.
E’ allora che è successo.

Subito dopo che il gabbiano planasse morbido sulla nera roccia
ma subito prima che riaprisse le ali mirando al cuore del cielo.

C’è stato un momento
in cui mi sono affacciato
sul bordo del pozzo a guardare il fondo
per lasciarmi travolgere dalla vertigine.
Una crepa nel tempo,
uno spazio stretto e profondo,
un raggio di sole
filtrato per un attimo ad illuminare il buio della stanza
prima di restituire ogni cosa al suo sonno.

E’ stato allora che è successo,
in quell'istante tra il prima e il dopo
in quella piega del tempo dove nascono le cose:
una nuova onda, il volo del gabbiano,
un nuovo pensiero.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

sabato 24 settembre 2011

Rifiuto della competizione


Non mi è mai piaciuta la competizione, perché una competizione presuppone un vincitore.
E per uno che vince ce ne sono molti che perdono. Da una competizione esce sempre una classifica: il migliore e i peggiori, il vincente e gli sconfitti. Viviamo in una società che ha posto il successo in cima alla scala dei valori e la competizione è la strada per ottenerlo; non ci si può sottrarre ad essa, perché ci viene riproposta in ogni fase della nostra vita, sociale e privata.
Da bambini veniamo gratificati con piccoli premi per ogni successo che otteniamo. Piccoli cavalli da corsa, premiati con lo zuccherino per ogni vittoria.
Crescendo è la scuola che si accolla il privilegio di metterci in fila: da una parte i bravi dall’altra i meno bravi, da un lato quelli convinti di essere i migliori dall’altro quelli che devono faticare, quelli che o "non si applicano", o che "non sono portati", o che "potrebbero fare di più".
E dopo la scuola è la società che completa l'opera della nostra educazione: i miti che ci propone, in ogni campo, sono uomini e donne di successo. E’ il vincente quello che prende tutto, agli altri le briciole. Così lo sport, dove quello che conta è il risultato. Così il lavoro, dove quello che conta è far carriera. Così la vita... così tutto.
Se proprio devo partecipare alla competizione, preferisco riconoscermi nel ruolo dello sconfitto, perché perdere vuol dire avere ancora qualcosa da raggiungere, avere un obiettivo che ci tiene vivi.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

domenica 11 settembre 2011

Lerici


Dire degli alberi che scodinzolano in rada
in bilico tra la voglia di strappare il guinzaglio
per rincorrersi ancora volta sull’azzurro del prato
e il dubbio che l’ultima corsa sia stata quella trascorsa
è dire di questi giorni sospesi
tra sogni appassiti e cose da fare.
Giorni di gente seduta ai tavolini dei bar
e già un po’ lontana,
gente che si guarda guardare
con occhi che non vedono più.
Valigie si chiudono
e mani si separano
sotto il sole stanco di giorni che sfuggono
e che nessuno cerca di fermare,
che non si può, o non si vuole,
che è già tempo di andare.
Giorni d’attesa,
di persone in fila ad aspettare,
giorni di cassetti vuoti
e di pensieri antichi,
di nuvole che passano incerte
e di macchine che accendono i motori
e partono
e vanno via.
Il prossimo anno, forse , torneranno.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

sabato 20 agosto 2011

Agosto

Agosto muta in Settembre
bruciando le pagine
e consumando i giorni.
L’estate pigra e lasciva
tradisce le attese,
scivola via indolente.
La luce prima esplode
poi si nasconde dietro le tende,
confonde il vero
inganna i sensi,
la vita breve delle foglie.
Il tempo sembra non passare
poi finisce all'improvviso,
senza avvertire.
Sembra quasi che...
e invece no.

L’estate,
che non mantiene le promesse.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]

venerdì 12 agosto 2011

Rami nell'acqua



Un ramoscello che galleggia nel fiume. Lo osservo dall'alto, mentre la corrente se lo porta via. L'acqua è limpida, il fondale basso e sabbioso. Il ramoscello prende velocità, poi rallenta per la presenza di uno scoglio che affiora, sembra fermarsi, ma subito riesce a liberarsi. Riparte, lo perdo.
Getto un altro ramo nell’acqua, ne osservo la corsa. Seguo le curve che disegna, i giochi della corrente. Le analogie di percorso con il ramo che l’ha preceduto, i cambiamenti di rotta. E poi un altro ramo, e un altro ancora... Pezzi di legno portati via dal fiume, solo questo. 
Quando ero bambino potevo stare ad osservarli per ore, per pomeriggi interi diventavano tutto il mio mondo, non c'era altro di altrettanto interessante.
Felicità è recuperare un ricordo.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

sabato 9 luglio 2011

Azzurro e possibilità

Alle volte sogno,
e la brezza nervosa che si alza da prua è il segno.
Scorrono veloci le cime nelle mani forti
si spiegano le vele come petali che si schiudono al sole.
Estate. Profumo di azzurro e possibilità.

Alle volte sogno,
e quando le altre barche ritirano la testa dentro al carapace
io mi alzo sulle punte per sfidare il mare nero
e gonfio l’ego come rana che ha smarrito la coscienza del sé.

Alle volte sogno,
ma questa è la vita
e qui io galleggio.

Ignota la rotta.

[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]