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sabato 29 marzo 2025

Il nervo ottico – María Gainza

 


Il nervo ottico – María Gainza
(trad. Marco Amerighi)
Neri Pozza editore (I ed.2004)

Il nervo ottico è un'autofiction abbastanza sui generis, un romanzo costituito da capitoli che possono rappresentare anche racconti a sé e risultano costruiti tutti con lo stesso schema: la narrazione in prima persona di una protagonista molto simile all'autrice (anche lei di nome María e critica d'arte di professione) intrecciata con riflessioni su pittori del XIX e XX secolo, riflessioni che Gainza utilizza con sapienza per spiegare meglio la storia che sta raccontando.
Diciamo subito che le parti in cui la scrittrice argentina parla di arte sono quelle più convincenti, perché mette le sue competenze professionali al servizio della trama e la scrittura procede fluida e coinvolgente. Meno efficace, purtroppo, risulta la sua penna quando racconta le vicende della protagonista e degli altri (pochi) personaggi, che risultano piuttosto "piatte".
L'arte come specchio della vita, un modo per provare a comprenderla, questa sembra essere l'idea intorno alla quale è costruito il libro, però la scrittrice argentina sembra accontentarsi e non la sviluppa come potrebbe, limitandosi a riprodurre il modello che ha elaborato senza cercare di unire i vari fili che ha seminato, lasciando così che i capitoli risultino privi di collegamento e manchi (volutamente?) una visione d'insieme.
Benino, ma non bene. Peccato.

sabato 8 marzo 2025

La pazienza dell'acqua sopra ogni pietra – Alejandra Kamiya

 


La pazienza dell'acqua sopra ogni pietra – Alejandra Kamiya
(trad. Elisa Tramontin)
La Nuova Frontiera editore (I ed. 2023)

Una raccolta di racconti che testimonia l'indiscutibile capacità dell'autrice argentina di padroneggiare questo genere letterario. Quella di Kamiya è una voce facilmente riconoscibile, anche per via della prosa poetica con cui interpreta le pagine. Una scrittura accattivante, una buona gestione del ritmo e dei tempi della narrazione, dell'uso del colpo di scena, del non detto, della sospensione, dell'incursione del surreale nella quotidianità… eppure.
Già, c'è qualcosa che non convince fino in fondo. Si tratta di racconti ben costruiti ma che mancano di anima, di profondità, rimangono in superficie senza addentare la pagina, suscitano emozioni che però l'autrice tiene a freno con mano sicura, come se non volesse scoprirsi più di tanto. L'impressione è che Kamiya stia esplorando le possibilità del romanzo senza trovare davvero la propria strada: ci sono racconti che dialogano tra loro e che richiamano, molto alla lontana, la struttura di Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson, alternati ad altri che vanno in direzione diverse, tentativi di narrazione al condizionale, animali parlanti, irruzione dell'onirico nel reale, il fantastico…
Peccato, perché la scrittura è di livello ma forse si gioverebbe della scelta di un registro preciso (e il surreale mi pare quello più congeniale all'autrice), di una strada da percorrere con più decisione e più in profondità. Invece La pazienza dell'acqua sopra ogni pietra a volte a volte sembra essere un esercizio di stile, storie su filo di un calligrafismo fine a se stesso, bei racconti che si dimenticano con facilità.

sabato 1 marzo 2025

Spam – Rafael Spregelburd



Spam – Rafael Spregelburd
(trad. Manuela Cherubini)
Cue Press editore (I ed. 2015)



Un'opera teatrale che racconta un mese della vita di un uomo che ha perso la memoria. I trentun capitoli che destrutturano la narrazione non seguendo l'ordine cronologico sono già una dichiarazione d'intenti: il tempo, uno dei cardini su cui si regge la nostra esistenza, è andato in frantumi, l'uomo e la società stanno andando in frantumi.
Troviamo Mario Monti (nomen omen), protagonista del testo, in una stanza d'albergo con uno smoking usato, scatole piene di bambole e un laptop, un bizzarro armamentario partendo dal quale cerca di ricostruire la sua storia. "Viaggio senza valigia. Senza passato. Però ho la connessione. È quel che ho." Parole chiare, una metafora potente della contemporaneità e dello smarrimento di identità. La falsa illusione di demandare alla cronologia del computer il ruolo della memoria personale: davvero lì dentro c'è tutto quello che siamo, spazzatura compresa (e viene in mente il Delillo di Underwood)?
La scrittura semplice e il tono apparentemente giocoso e leggero, creano un corto circuito con la drammaticità degli avvenimenti che fanno da sfondo alla vana ricerca del protagonista di mettere ordine nella sua vita. Con ironia amara (e ci sarebbe da discutere anche sul ruolo negativo giocato dal ricorso all'ironia da parte della contemporaneità, Giorgio Vasta docet), Spregelburd descrive l'irruzione del virtuale nelle nostre vite, sottolineando come internet sia diventato lo standard su cui sono conformate e come questo standard abbia modificato la comunicazione. La promessa di semplificazione con cui era stata accolta la nuova tecnologia si è rivelata un cavallo di Troia che ha portato dentro la società solo disordine e complessità. È un mondo sconosciuto, che non permette più al protagonista di Spam di orientarsi e nel suo tentativo di mantenersi a galla Mario Monti precipita sempre più nelle sabbie mobili di una quotidianità che mescolando reale e virtuale, lo ha reso invisibile in entrambi i mondi.
Le parole mentono ma gli oggetti da soli non ci permettono di orientarci nella notte.

sabato 19 marzo 2022

Teoria della prosa – Ricardo Piglia



Esegesi onettiana

Interessante trascrizione di nove lezioni tenute da Piglia all'Università di Buenos Aires nel 1995 nelle quali l'autore è il Virgilio che ci guida alla scoperta dell'universo letterario onettiano. Un'esegesi attenta, rigorosa e appassionata dell'opera del grande maestro uruguaiano che conferma la grandezza di Piglia come critico, peraltro già abbondantemente emersa tra le pagine di Respirazione artificiale.
C'è un'analisi della "forma" letteraria che caratterizza le opere di Onetti, la nouvelle, con le particolarità che la differenziano dal romanzo classico e la avvicinano al racconto (la nouvelle, per Piglia, è un "iper-racconto") e un'analisi della struttura, dalla quale emerge come il narratore sia spesso lontano dalla storia e racconti fatti già accaduti, che sembrano mancare sempre di qualcosa, non riuscendo mai a raggiungere il "segreto", che è ciò attorno a cui gira la trama.
Nelle opere di Onetti il narratore non è mai onnisciente e il suo è un lungo raccontare e raccontare di nuovo che invece di indicare la strada finisce per aggiungere ambiguità, aprendo la porta a nuove ipotesi, moltiplicando la trama in un dedalo di sotto-trame che a forza di riflettere la realtà la modificano allontanandoci sempre più dal centro.
Attraverso esempi e confronti con l'opera di altri mostri sacri della letteratura (Henry James, Arlt, Faulkner, Borges) Piglia descrive l'immaginario onettiano come qualcosa che non è di alternativo alla realtà ma che nasce da un disordine del quotidiano e si interseca con esso, generando un sistema di specchi, un gioco pericoloso e affascinante nel quale i due aspetti, reale e fantastico, spesso convivono nei personaggi.

P.S.: Teoria della prosa è un testo fondamentale per tutti gli amanti della prosa dello scrittore uruguaiano e risulta evidente come, nella querelle Borges-Onetti, Piglia si schieri dalla parte di quest'ultimo.

sabato 14 agosto 2021

La metà del doppio – Fernando Bermúdez

Esercizi di scrittura del più importante scrittore argentino contemporaneo


Sette racconti nei quali ciò che più conta non è tanto la trama quanto l'architettura e le tecniche narrative che l'autore mette in campo per costruire strutture labirintiche, reti sempre diverse che inevitabilmente finiscono per avviluppare il lettore alla storia.
Quella di Bermúdez è una scrittura complessa, non lineare, che scrive se stessa come le mani che disegnano di Escher. Sette racconti sui quali aleggia l'idea della perdita, della ricerca o dell'inseguimento. Si passa dalla narrazione classica (Mezzanotte passata) a quella che sovrappone i piani narrativi (Hugo Talmann, morto a New York), dall'uso di tecniche cinematografiche (La condizione genuina) a storie che partono dal reale per sconfinare nel surreale (Circostanziale di tempo).
L'autore gioca con le parole, in apparenza elevandole a simboli di precisione ma in realtà gettandole nell'indeterminatezza con continui cambi di registro da un racconto all'altro, con un cambiamento dei punti di vista che richiede la costante attenzione del lettore: non conta ciò che è vero e ciò che è falso ma quello che succede o, meglio, come succede, cosa provoca nei personaggi e in noi stessi. Sono storie che si aprono ad altre storie, in un labirinto di trame, un affascinante gioco di scatole cinesi in cui è bello smarrirsi per cercare la propria strada, sapendo che a una lettura successiva potremmo trovare una nuova traccia, una pista diversa da seguire.

sabato 26 giugno 2021

L'occasione – Juan José Saer



Classico romanzo saeriano tra filosofico e psicologico giocato sul sottile confine che separa commedia e tragedia.
Bianco è un "mentalista" che dopo una brutta esperienza in pubblico a Parigi lascia l'Europa per coltivare la rivincita dello spirito sul materialismo nella solitudine della sterminata pampa argentina. Qui troverà una giovane moglie, Gina, e un medico amico, Garay López, finendo però vittima di quei dubbi che credeva di poter sconfiggere con il potere della mente.
L'occasione è un ottimo romanzo sul dualismo spirito/materia ma soprattutto sul tema dell'ambiguità. Ambigua è l'identità del protagonista, ambiguo è il rapporto tra Gina e Garay López che darà il via al processo che lo condurrà all'autodistruzione, ambiguo è il rapporto di Blanco con la realtà perché in Argentina dimostra di sapersi districare molto meglio nel campo del materialismo rispetto a quello dello spirito, che mostra più incognite di quanto egli creda. In questo senso il personaggio di Gina rappresenta l'inconoscibile, l'elemento che sfugge al controllo del protagonista, il granello di sabbia che finisce nell'ingranaggio e provoca la rottura dell'intera macchina.
L'uomo di Saer è un uomo che ha smarrito le certezze, un uomo alla ricerca della luce e che non accettando gli angoli bui dell'esistenza, le zone oscure, le sfumature, l'inconoscibile, finisce per ritirarsi nella propria fortezza spirituale, dentro la sua pazzia.

Link
http://www.altrianimali.it/2021/05/17/loccasione-saer-lirrisolvibile-dualismo/






sabato 23 gennaio 2021

Racconti completi – Haroldo Conti


«La vita di un uomo è un misero copione, una manciata di tristezze che riempiono poche righe. Ma a volte, così come ci sono anni interi di una lunga e fitta oscurità, un minuto della vita di un uomo è una luce accecante.»


Raccolta eterogenea di racconti con al centro l'epica del fiume, della campagna, dei grandi spazi aperti, storie costruite intorno a personaggi che un giorno arrivano e poi ripartono lasciando dietro di sé una scia di lacrime e sangue, ricordi che tornano a vivere per un momento per poi essere risucchiati nell'oblio.
Uomo e natura, in una simbiosi contrastata ma ineludibile. I protagonisti dei racconti di Conti finiscono per accordare il loro ritmo a quello del grande fiume e a quello delle stagioni. Sono per lo più vagabondi, uomini disillusi e solitari, mossi da un'ansia che gli impedisce di rimanere fermi in un luogo ma li spinge a muoversi alla ricerca di qualcosa a cui non sanno dare forma e sostanza. Professionisti della sconfitta che nascondono dietro alla maschera del silenzio e a un cinismo di facciata le mille cicatrici del cuore, scarti di un mondo abituato ad abbandonare al suo destino chi non sa più stare al passo.
Uomo e natura – si è detto – ma anche uomo e uomo, in un equilibrio regolato dalla legge del più forte, perché nella lotta per non andare a fondo tutto è lecito e non ci sono spazi per la poesia.
Eppure la penna di Conti ha note liriche ed è abilissima nel disegnare figure come il gallo Britos ("che è molto più anziano di quanto non sembri, anche se in realtà non sembra avere nessuna età e potrebbe essere vecchio quanto il mondo"), individui che sembrano usciti da un album di fotografie in bianco e nero e raccontano di un mondo passato. Personaggi come Ramón Pampín o come "il matto Seretti" che "passava la metà del tempo ad aggiustare il tetto, costruito con lamiere di seconda chiodatura, e alla fine aveva deciso di rimanerci sopra perché da lì si vedeva tutto in un altro modo". Personaggi come il signor Pelice "con le sue scarpette di vitello, la sua giacca di gabardine nera e il suo panama grezzo", il pirotecnico più rinomato della zona che scriveva lettere d'amore alla signorina Haidée ma che invece di spedirle preferiva usarle per imbottire i razzi dei botti.
Personaggi di un mondo, quello creato dalla penna di Conti, che non esiste più. Un mondo però più vero, più ingenuo ma più onesto di quello attuale.

sabato 31 ottobre 2020

Distanza di sicurezza – Samanta Schweblin




Test di Rorschach

 Una donna e un bambino. Dal suo letto di morte la donna ripercorre gli avvenimenti di quel pomeriggio, il bambino la guida, la costringe a tornare indietro, a ricordare, a cercare quando è stato "quel momento", a trovare il dettaglio che ha cambiato tutto. 
La distanza di sicurezza è lo spazio che le madri considerano sia sufficiente a tenere a bada i loro figli. "Cercano di anticipare quello che può succedere, con la famosa distanza di sicurezza." – dice uno dei protagonisti del libro – "È perché, presto o tardi, qualcosa di terribile succede. Ma non vi accorgete della cosa più importante." Distanza di sicurezza è la storia della contaminazione del bambino e del rituale magico al quale la madre l'ha sottoposto per salvarlo, al prezzo però di averlo indietro diverso, con l'anima scissa, migrata da un'altra parte. 
Un libro diverso, pervaso da un senso di inquietudine costante. Una trama originale, attenta a non dare punti di appoggio al lettore per stanarlo dalla comoda realtà e portarlo in un territorio privo di certezze, solo con le sue domande destinate a rimanere senza risposta.

Con Distanza di sicurezza, Samanta Schweblin sostituisce le parole alle macchie e realizza un sorprendente test di Rorschach in chiave narrativa. Al lettore il compito di cimentarsi con le suggestioni della scrittrice argentina e con i fantasmi del suo subconscio.

 

domenica 6 settembre 2020

Componibile 62 – Julio Cortázar



«Capire, capire… Tu capisci per caso?»

«Non lo so, probabilmente no. Comunque ormai non servirebbe a nulla».

 

Un libro che prende le mosse dal capitolo 62 di Rayuela e in puro stile cortázariano si propone di scardinare le regole del romanzo classico per avventurarsi in terreni non battuti. Lo fa partendo da una frase di stampo oulipiano ("Vorrei un castello insanguinato", aveva detto il cliente corpulento) per dare inizio a una serie di riflessioni su un libro di Michel Butor, su una donna misteriosa (Hélène, o forse una contessa o forse una Frau Marta) e sul caso ("Perché sono entrato nel Polidor, perché ho comprato il libro e l'ho aperto a caso e altrettanto a caso ho letto una frase qualsiasi appena un secondo prima che quel cliente corpulento ordinasse una bistecca quasi cruda?"). Un libro sull'inutile desiderio di capire, sul tentativo di interpretare tutto quello che accade come fosse segno di qualcosa, come traccia da seguire per identificare una pista che in realtà non esiste e che pure ci ostiniamo a cercare.

Si sale per una strada ricca di curve, avviati su meandri pericolosi che puntano dritti verso la palude dei meccanismi interiori, un luogo nel quale memoria e fantasia finiscono per confondersi conducendo la nostra ricerca della conoscenza su un binario morto. Eppure.

Eppure "qualcosa mi lascerai fra le mani", pensa il protagonista. L'uomo non si arrende, non arretra davanti al vuoto e non rinuncia ad interrogarsi, perché vive di domande più che di risposte. La soluzione all'enigma diventa un dettaglio perché quello che interessa l'uomo e lo attrae come la luce la falena è l'enigma stesso. Il modello è Ulisse, il viaggio dell'uomo alla scoperta del mondo e di se stesso.

E il viaggio che ci propone Cortázar -  è bene ribadirlo - non prevede per il lettore comodi scompartimenti di prima classe ma una dura camminata attraverso sentieri impervi con passaggi repentini dalla narrazione interna al  punto di vista esterno, continui cambiamenti di scenario tra Londra, Parigi, Vienna, Mantova… e un frenetico alternarsi di personaggi dei quali si fatica a ricostruire i rapporti e che vivono più di sogni che di realtà, non ancora integrati e organici alla società. Lispectoriano? Forse, ma se l'occhio dell'autrice brasiliana guarda indubbiamente verso l'interno, quello dello scrittore argentino sembra rivolto anche verso l'esterno (la "Città", la "zona"). Lispectoriano? Per certi versi sì, e penso alle riflessioni di Cortázar sulla costruzione da parte dei personaggi del libro di un alfabeto privato, che permette loro di comunicare escludendo gli altri e soprattutto al linguaggio inteso come "arte combinatoria di ricordi e circostanze" che invece di aiutare falsifica al punto che seguendo il suo punto di vista si potrebbe arrivare a definire la vita come una specie di gioco nel quale la colpa della fine della storia d'amore di Juan con Hélène è dovuta ad una lettura sbagliata delle carte, sapendo che "qualcosa che non siamo noi gioca con questo mazzo di carte in cui siamo picche e cuori ma non le mani che le mischiano e le combinano, gioco vertiginoso nel quale riusciamo soltanto a conoscere la sorte che ci tesse e disfa a ogni giocata, la figura che ci precede o ci segue, la sequenza con la quale la mano ci propone all'avversario, la battaglia di azzardi e di scarti che decide la posta e i ritiri". Eppure "io continuerò a cercare il varco, Hélène, tutto mischierò di nuovo per incontrarti come voglio."

Già, il varco. Un passaggio stretto e non per tutti, una specie di porta su un'altra dimensione che permette ai personaggi del libro di incontrarsi a un livello ideale più che reale, su una zattera astratta che galleggia sospesa sul mondo e che rappresenta la loro salvezza ("La nostra salvezza è una vita tacita che ha poca attinenza con il quotidiano o l'astronomico, un influsso spesso che lotta contro la facile dispersione in qualsivoglia conformismo o qualsivoglia ribellione più o meno privi d'iniziativa propria, […] la vita come qualcosa di estraneo di cui bisogna però prendersi cura").

Quello che Juan e gli altri cercano, quello che Cortázar cerca, è in sostanza la libertà. Dalle parole, dai vincoli, dalle convenzioni. Libertà di essere come si è.

Inutile aggiungere altro, così come aggiungere dettagli di una trama che sembra costruita apposta per spostarsi un po' più in là ogni volta che si cerca di avvicinarla o, peggio, di comprenderla. La mia chiave di lettura per avvicinarsi a Componibile 62 è quindi più emotiva che logica e in questo mi sono di conforto le stesse parole di Juan:

"Che senso aveva spiegare? Il semplice fatto che fosse necessario dimostrava ironicamente la sua inutilità".

 

 


domenica 21 giugno 2020

La pianura degli scherzi – Osvaldo Lamborghini



Prima cosa: mettere le mani avanti. Sì perché parlare di Lamborghini con cognizione di causa risulta per me un'impresa pressoché impossibile. Non ne ho le competenze: mi mancano le basi culturali sulle quali provare ad impostare un ragionamento critico ed anche quelle storico-politiche, considerando quanto la sua opera sia legata all'Argentina e quanto poco intellegibili siano per me i riferimenti evidenti e nascosti alla situazione di quel paese.
E poi è Lamborghini stesso a sfuggire al lettore. Lo fa  nascondendosi dietro ad una scrittura complessa, piena di neologismi, giochi lessicali, costruzione e decostruzione di parole, una prosa che a volte sembra suggerire interpretazioni delle quali però non puoi mai essere certo, perché quello che stai leggendo è diverso da quello che credi di intendere. "Uno gira sempre. Intorno a certe parole. – scrive in Sebregondi retrocede –Finché non le cattura. Non si cattura. Niente e giammai". Già, la costruzione letteraria di Lamborghini può essere paragonata ad una Guernica in prosa: le parole sono lì davanti a noi ma assolvono ad una funzione diversa rispetto a quella alla quale siamo abituati perché invece di legare tra loro concetti, slegano le idee ("Credete di leggere, e così andate avanti. – si legge ne le figlie di Hegel – Credete di leggere, quando invece l'unica cosa che succede (che resta) è una sottile lametta e una linea (di "punti") che: - Scrive.").
Si cammina sulle uova. Al limite, e molto spesso oltre, l'illeggibilità.
Si colgono echi di De Sade, Lacan e Freud, dei Canti di Maldoror e di Céline. Senza dimenticare Gombrowicz, visto che stiamo parlando di linguaggio. Echi, certo, perché con Lamborghini non si può mai essere certi di nulla.
Lamborghini ti disorienta. Ti aggredisce, ti catapulta dentro la lotta e poi ti toglie tutti i punti di riferimento in maniera da travolgerti con il suono assordante della sua prosa e con la violenza e la volgarità delle sue parole.
Lamborghini mi respinge. E quindi mi attrae. Con Lamborghini mi comporto come il cane che dopo aver ricevuto un calcio per essersi avvicinato troppo, non può fare a meno di tornare a gironzolare intorno al piede che l'ha appena colpito, perché gli sembra di aver sentito un odore, una sensazione, qualcosa che teme ma che continua ad incuriosirlo.
Società, politica e arte sono il perimetro sul quale lo scrittore argentino decide di riversare le sue invettive, un ring in cui vittime e carnefici si confondono perché violenza e sadismo sembrano innati nell'uomo, un destino al quale nessuno sfugge ("mi domando se io figuro nel grande libro dei carnefici e lei in quello delle vittime. – scrive ne il fiordo – O se tutti e due siamo stati inseriti in entrambi i libri. Torturatori e torturati").
Seguire Lamborghini lungo le pagine de La pianura degli scherzi è un'impresa sfibrante perché la matassa del linguaggio finisce per avvitarsi inevitabilmente su se stessa fino al punto che un semplice scherzo provoca un'escalation che sfocia in tragedia (la causa giusta). E allora, se la parola tradisce, perché si scrive?
"Si scrive per non capire – è la risposta che leggiamo in Sebregondi retrocede – seguendo un filo, partendo dal presupposto di capire".
"Per non essere… "compreso"… dalla famiglia, è per questo che s'inizia a scrivere –dice ne le figlie di Hegel – La tappa dello scrivere affinché neanche – quel che si dice: neanche – gli amici comprendano."

Non posso consigliare la lettura di Lamborghini a nessuno perché Lamborghini non è un autore che si consiglia ma un autore al quale si cade dentro.

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sabato 16 maggio 2020

Autobiografia di Irene – Silvina Ocampo



«Nella veglia, abitiamo in un mondo comune, ma nel sogno ognuno di noi penetra in un mondo proprio.»

Cinque racconti borgesiani di algida eleganza nei quali Silvina Ocampo introduce l'elemento fantastico all'interno della narrazione classica e ne studia le conseguenze. I temi trattati sono soprattutto quelli della memoria e del sogno e paradigmatico in questo senso è già il primo dei racconti della serie (Epitaffio romano) nel quale risuonano echi eraclitei (nessun uomo entra due volte nello stesso mare) per affermare da un lato che le cose si ripetono sempre e dall'altro che non sono mai esattamente uguali a se stesse ma si trasformano, e che la fantasia è l'unica arma a disposizione dell'uomo per evadere dalla prigione della vita. La fantasia e la letteratura, aggiungiamo noi, perché così sembra suggerire l'espediente stilistico dei tre finali al quale ricorre la scrittrice.
Mescolando sogno e realtà la Ocampo crea una zona grigia nella quale le cose possono essere vere o solo immaginate, così come i ricordi possono essere attendibili oppure falsi. È un territorio misterioso e carico di possibilità; ci ritroviamo di nuovo su un terreno letterario nel quale il vero ha la stessa dignità del verosimile, un campo nel quale possono fiorire mondi infiniti.
Inutile cercare certezze, nei racconti della Ocampo tutto è provvisorio: "perché, ammesso che questi racconti fossero sogni, Armando fingeva di essere un altro personaggio? Fingeva o davvero sognava di essere un altro, e si vedeva dal di fuori?" (L'impostore). La confusione è il pane dell'immaginazione, la fantasia non ammette vincoli, neppure quelli della parola scritta che tradisce il pensiero legandolo ad un'unica realtà ed impedendogli quel cambiamento di cui si nutre: "disdegno quei grossolani strumenti che fissano, che deformano il pensiero: quei nemici della metamorfosi e della collaborazione. Chi oserà stampare le mie parole le distruggerà. […] La memoria è infinita, ma più infinita e più capricciosa ancora, come i sentieri di un dedalo, è l'invenzione che la modifica." (Frammenti del libro invisibile)

domenica 3 maggio 2020

I fantasmi – César Aira



Lo scrittore è un fingitore.

Un caldissimo ultimo dell'anno a Buenos Aires. Un grattacielo in costruzione con appartamenti destinati all'alta borghesia argentina nel quale lavora un gruppo di operai cileni che si apprestano a festeggiare il Capodanno con le loro famiglie. E dei fantasmi, nudi e coperti di calce, che si aggirano per l'edificio invisibili agli argentini ma non ai cileni, che però non danno loro particolare importanza.
La struttura di questo romanzo, il primo del "ciclo urbano" di Aira, non si scosta dal canovaccio che segue solitamente questo scrittore: c'è la vita quotidiana, sulla quale piove improvvisamente un elemento dissonante, un ostacolo che produce uno scontro tra reale e fantastico originando uno scarto improvviso dalla strada maestra. La trama è obbligata così a procedere su una strada nuova, con risvolti tutti da decifrare.

Attenzione a sottovalutare Aira, perché si rischia di perdersi il meglio. Attenzione perché lui è un fingitore (parafrasando Pessoa): fa di tutto per sembrare ordinario e nascondere la parte più interessante. Scrittura semplice, trame surreali, romanzi brevi che pubblica a raffica… il perfetto ritratto dello scrittore pop.
Eppure non è così. Non c'è ironia nei suoi romanzi o perlomeno l'ironia è la patina di cui, a volte, sono rivestiti, una patina che è necessario grattar via per entrare davvero nelle pieghe della storia ed iniziare ad interrogarsi sui simboli e sulle metafore con cui dissemina le trame dei suoi libri.
In questo caso, ad esempio, il cantiere potrebbe essere una metafora della scrittura e il bivio al quale si trova davanti la Patri per partecipare alla festa dei fantasmi potrebbe rappresentare l'equivalente della scelta dolorosa e inconciliabile tra sentire e pensare, tra il mondo della fantasia e quello della realtà.
Attenzione lettore: non sottovalutare César Aira.

sabato 28 marzo 2020

Sudeste – Haroldo Conti


L'uomo e il fiume

Sudeste è la storia del Boga, tagliatore di giunchi sul delta del Paranà che alla morte del vecchio che lavorava con lui decide di abbandonare la capanna nella quale vive ed inizia a vagabondare sul grande fiume, mosso dall'"ansia che spinge l'uomo verso l'orizzonte".
Un viaggio senza uno scopo preciso, per sopravvivere ma soprattutto perché il legame con quel corso d'acqua è una catena che il Boga non sa e non vuole sciogliere. Un viaggio che non prevede nessun punto di arrivo perché alla foce del Paranà "le distanze si dilatano e il traguardo si allontana insieme a te".
Come un Suttree ante litteram, l'uomo scivola lentamente dentro al suo destino. Quello del Boga è un modo consapevole di andare alla deriva, sentendosi parte del fiume e indifferente a tutto il resto. "Il fiume è splendido e l'uomo se ne sente misteriosamente attratto. Questo è tutto ciò che può dire". Un girovagare da un posto all'altro con la prua diretta verso nord, lottando con il vento di Sudeste che sferza il corpo ed i pensieri. Vivere nella pancia del fiume come unica aspirazione, sentirsi accolto da quella Natura, farne parte lasciando che le cose vadano come devono andare.
In Sudeste ci sono Boga, il fiume e il vento. E poi ci sono gli altri: figure di contorno, abbozzi di un'umanità che Conti tratteggia con contorni volutamente sfumati, persone senza passato e dal futuro quantomeno incerto. Il Bastos, Il Colorado Chico, il Lungo… ma soprattutto un omino "che sembra il Cabecita" con il suo cane Capi e un paio di brutti ceffi, uno senza nome e l'altro chiamato "Chino" ma conosciuto anche come "la Bionda", due delinquenti che con le loro malefatte cambieranno il corso della vita del Boga che si lascerà cadere dentro alla situazione senza far nulla per tirarsene fuori.
"Era come uno spettatore. Vedeva trafficare se stesso e gli altri come da una distanza incredibile e affaticante. L'aveva trascinato il fiume. L'estate. Un giorno o l'altro sarebbe finito tutto. Con un piccolo sforzo avrebbe potuto tirarsene fuori. Ma non era capace di fare uno sforzo, piccolo o grande. In qualche modo le cose si erano ingarbugliate e lui era rimasto lì."

Sudeste è un libro lento come il corso del fiume che descrive, un libro di silenzi, pensieri, descrizioni e pochi dialoghi. Un grande romanzo sul legame tra l'uomo e la natura, legame che Conti è ben attento a dipingere in maniera tutt'altro che idilliaca. Il Boga 'appartiene' alla natura, ed in nome di questa appartenenza accetta fatiche e sofferenze in cambio di quei pochi istanti di felicità che nascono dal sentirsi in armonia con il fiume ("A partire da quel momento, sulla spiaggia deserta, cucinando i pesci, poteva considerarsi un vagabondo. Non fu proprio questo ciò che pensò, ma improvvisamente si sentì invadere da una strana serenità, una placidità mai provata, e qualcosa di simile a una sorridente allegria. Finalmente si trovava nella situazione che aveva sempre desiderato."

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sabato 7 marzo 2020

La parte inventata – Rodrigo Fresán



Il romanzo ai tempi di Internet

L'Epoca del Grande Disordine (sociale, politico, individuale) ha finalmente trovato il suo degno cantore, o se non altro una delle voci in grado di rappresentarla.
La parte inventata è un libro sorprendente, che incarna alla perfezione la confusione dei nostri tempi e Rodrigo Fresán è un moderno epigono di Macedonio Fernández, nonostante il suo riferimento letterario sia soprattutto nordamericano (e da questo punto di vista l'influenza di John Barth sembra quella preponderante).
La parte inventata è un libro che rappresenta l'evoluzione del romanzo ai tempi di Internet, nonostante l'autore non faccia altro che denigrare e-reader e cultura prêt-à-porter e l'umanità del ventesimo secolo in genere e la scrittura di Fresán ricorda la navigazione in rete, quello che succede quando cercando una notizia si finisce per googlare da un argomento ad un altro. C'è un tema di fondo sul quale si innestano un sacco di divagazioni, ognuna delle quali è il potenziale germe da cui potrebbero nascere altre mille storie.
In una sorta di delirio allucinatorio ci si muove tra meta-letterario (molto, molto meta…) ed ipertestuale, con un alternarsi di cultura pop ed "alta" tra richiami musicali (Bob Dylan, Pink Floyd, i Kinks), filmografici (2001, Odissea nello spazio) e letterari (Burroughs, Updike e soprattutto F.S. Fitzgerald); un delirio dove tutto è metafora e una narrazione nella quale si intersecano digressioni continue e generi letterari diversi, biji, ricordi, interviste, wikipedia...
Impossibile riuscire a seguire tutte le linee della storia: c'è, come detto, la critica ad una società egocentrica, autoreferenziale e superficiale che va di corsa e non sembra più aver tempo per l'approfondimento e la riflessione, c'è una riflessione sui legami e sulla loro rottura, ma soprattutto sulla scrittura, sul ruolo dello scrittore e della letteratura che dovrebbero privilegiare la parte inventata su quella reale.
"La parte inventata che non è, mai, la parte disonesta, anzi, è la parte che trasforma davvero qualcosa che è semplicemente accaduto in qualcosa così come doveva accadere. Qualcosa (tutto quel che verrà, il resto della sua vita, sorgerà da lì e da allora, proprio da questo esatto momento) di molto più autentico e pregiato e puro della semplice e volgare e spesso così poco spiritosa e approssimativa verità."

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sabato 22 febbraio 2020

Traslochi – Hebe Uhart


La Dea delle piccole cose

Uhart è un altro dei segreti meglio custoditi della letteratura sudamericana.
Scrittrice poco nota all'estero ma il cui talento è ampiamente riconosciuto in patria (Fogwill la definì la miglior scrittrice argentina), la narratrice di Moreno si caratterizza in quest'opera per uno stile lineare, "pulito", che parte dalle piccole cose per scendere in profondità e mostrare le crepe nascoste nella quotidianità. Semplicità sembra essere la sua parola d'ordine, con la scelta di non drammatizza le situazioni per rappresentarle invece come sono, di privilegiare l'ordinario rispetto allo straordinario, guardando ed ascoltando cose e persone come farebbe un bambino ma riferendone con la capacità introspettiva di un adulto.
L'occhio è quello di un cronista che osserva e descrive la realtà senza lasciarsi andare ad un'eccessiva partecipazione emotiva, il gusto dell'oralità ricorda le Acqueforti di Roberto Arlt, con i personaggi che sono identificati non tanto dal loro aspetto quanto dai comportamenti e da come parlano. Al centro di Traslochi c'è la trasformazione della società argentina, il passaggio dalla campagna alla città, i contrasti generazionali, le tradizioni familiari e la voglia di novità, a cui si aggiunge un'acuta descrizione di caratteri (soprattutto femminili).
"Di semplicità in semplicità" – scrive Haroldo Conti a proposito di Uhart – "si penetra in profondità e labirinti dove si può avanzare solo se si partecipa della magia di questo nuovo mondo. (Uhart) non illumina né completa una realtà conosciuta. Rivela, o meglio, è lei stessa una realtà unica, diversa."

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sabato 14 dicembre 2019

Uccidendo nani a bastonate – Alberto Laiseca



Alberto Jesús Laiseca è stato uno dei tanti "irregolari" della letteratura sudamericana come ben testimonia questa raccolta, una serie di racconti nei quali si fatica a trovare un tratto comune. Da subito si è proiettati in un mondo nel quale il reale si scompone e trasforma in immaginario come nelle Metamorfosi di Escher, con il tempo che risulta  un'opinione e le regole che finiscono spesso per essere capovolte. È un mondo che diverte e insieme confonde il lettore che inevitabilmente arranca dietro alle trovate dello scrittore argentino faticando a trovare punti fissi ai quali ancorarsi.
Non è semplice entrare in sintonia con una scrittura così ricca di aggettivi e con un genere sospeso tra il grottesco e il fantastico e che Laiseca definiva "realismo delirante", ma attenzione a non prendere sottogamba queste storie: a volte basta sostituire ai protagonisti le vittime della repressione argentina per scoprire un sottotesto molto più ricco di quanto possa sembrare in apparenza.
Tra le pagine di Uccidendo nani a bastonate si trova un po' di tutto (a parte i nani del titolo che sono solo una metafora "forte"): autobus spinti dagli uomini, macchine per viaggiare dentro ad un tornado, strumenti di tortura, persino una macchina per pugnoscrittura a pedali e piante che assorbono la violenza… ma sono soprattutto i temi di questi racconti a disorientare il lettore. La lingua, la pazzia, la paranoia, il potere tecnocratico, la tortura e soprattutto i frequenti riferimenti al nazismo, spesso ridicolizzato (e di nuovo non si può non pensare alla guerra sporca degli anni '70).
Passeggiando sull'orlo del vulcano, Laiseca si diverte a gettarci in faccia ciò che dovrebbe scandalizzarci, mostrandoci come ciò sia stato ormai depotenziato fino a diventato routine, non riuscendo più a scuotere i nostri animi, lasciandoci nel dubbio se gli strampalati racconti di Uccidendo nani a bastonate siano esercizi di stile, apologhi travestiti da nonsense o, più probabilmente, entrambi le cose.

sabato 20 luglio 2019

César Aira – Il marmo



Il bombarolo.
C'è un uomo seduto sopra un blocco di marmo con i pantaloni abbassati che non ricorda come mai si trova lì. E allora scrive. Per ricordare, o forse solo per "preservare la felicità del momento". Il marmo è il racconto di come quest'uomo cercherà di mettere ordine nella sua memoria, un viaggio assurdo ed imprevedibile che a partire da una serie di cianfrusaglie ricevute al posto del resto in un supermercato ci porterà dentro ad una specie di video-game, dove ogni singolo oggetto costituirà un aiuto per procedere verso un livello successivo, in un'avventura tanto strampalata quanto affascinante.
Si parte dal marmo, simbolo di solidità e quindi, per astrazione, di certezza, ma ecco che ci troviamo subito davanti ad uno scarto rispetto alla strada principale: marmo è anche "la parola che la nomina", e siamo già su un piano metanarrativo.
Inutile star qui a raccontare tutte le avventure che capiteranno in sorte al protagonista del racconto, quello che ci interessa è avvertire il lettore di non fidarsi troppo del tono semplice, colloquiale, della narrazione: Aira gioca a confondere le acque e l'understatement è solo apparente. La stessa affermazione dell'autore argentino, che in più interviste ha detto di scrivere solo una pagina al giorno e di non correggere mai quanto scritto il giorno precedente, sembra sostenere l'idea che le sue opere abbiano una trama lineare e che i suoi libri prendano forma man mano che li stiamo leggendo. In realtà le cose stanno ben diversamente. Il marmo  è molto di più di una storia divertente e dietro la maschera del gioco cela un sottotesto importante e quanto mai attuale perché questo è un libro che riflette sulla memoria e sulle sue crepe: falsi ricordi, "confabulation", confusione tra fatti e supposizioni… un attacco in piena regola al castello delle nostre certezze che si spinge fino a mettere in discussione la realtà per come la conosciamo, arrivando a definirla "una grande coincidenza".
César Aira è un bombarolo in incognito, un surrealista arrivato fino a noi con l'incarico di abbattere quei confini dentro ai quali sguazziamo felici, un 'suprematista' dell'immaginazione che si prende gioco del nostro piccolo mondo:
"Mentre saltavamo nel vuoto si è avuta la dimostrazione che il supermercato era un mezzo, non un fine. La sua realtà era indiscutibile, ma non si esauriva in sé stessa. Era soltanto la soglia di accesso ad altre realtà, funzionale a queste."



domenica 30 giugno 2019

César Aira – Come diventai monaca



Un ballo in maschera

Come diventai monaca è uno stranissimo romanzo di formazione, che a partire da un ricordo banale, l'acquisto di un gelato alla fragola, mostra come le imprevedibili conseguenze di questo episodio condizioneranno l'esistenza futura del protagonista. Ad un punto di vista apparentemente innocente, quello del bambino, e ad uno stile narrativo semplice, fa da controcanto la maniera di rappresentarsi il mondo del ragazzino, tutt'altro che lineare.
L'autore stesso è il protagonista di questa surreale autobiografia "spuria", un bambino così consapevole della propria diversità al punto da immaginarsi con un'identità femminile. Viene in mente Gombrowicz nel leggere come il giovinetto viva appartato dagli altri, intento ad un gioco solitario che consiste nel  riprodurre il mondo esterno e le sue dinamiche secondo regole personali, gioco che finisce per diventare il suo unico scopo, mezzo che gli permette di trascendere la realtà per crearne una che sia solo sua.
La tesi sostenuta da Aira in questo romanzo e che ritorna anche in altre opere dello scrittore argentino, sembra essere quella dell'esistenza di due realtà, quella degli altri e la nostra: la vita sarebbe così il risultato dell'eterno conflitto tra come sono le cose e come ci appaiono. Conflitto impari, nel quale siamo destinati a soccombere perché la realtà è troppo forte per le nostre forze; anche in Come diventai monaca il giovane César non sfuggirà al suo destino così che quando la realtà verrà a prenderlo lui non farà nulla per resisterle, anzi si consegnerà spontaneamente a lei, consapevole (forse) della necessità di chiudere il cerchio.

sabato 25 maggio 2019

Juan Octavio Prenz – Il signor Kreck



Non alla moglie, né allo stato e neppure al lettore

Buenos Aires, anni Settanta. Rodolfo Kreck è un uomo ordinario: emigrante istriano, assicuratore, "incline sempre a riflettere sul passo più prudente da fare", "attaccato alle circostanze immediate" e convinto fin da giovane "che quando si viaggia il bagaglio più importante è se stessi", uomo le cui riflessioni "escludevano l'illusione o il sogno facile, che Kreck considerava imperdonabili, frutto, piuttosto, dell'impazienza". Un uomo che si muove nel mondo con circospezione, cercando di passare inosservato e che anche nelle scelte del cuore è "più attratto dall'aspetto di serietà che non dalla bellezza della ragazza". Corretto e rigoroso, Kreck "provava orrore anche per la più piccola bugia e si era sempre imposto il silenzio quando in qualche circostanza particolare non poteva dire la verità". "Lo si sarebbe a stento potuto separare, a prima vista, dall'idea convenzionale dell'impiegato corretto, quasi anonimo, il cui compito sembrerebbe consistere in una stessa e infinita risistemazione di circostanze che si ripetono ugualmente all'infinito. Solo che Kreck" – scrive Prenz – " prendeva questa apparentemente miserabile consuetudine come una vasta geografia sulla quale poter dispiegare quella felicità minima, quotidiana, di osservare il vasto mondo che lo circondava."
Un uomo qualunque che osserva il mondo con occhio contemplativo,  impegnato a comprendere il senso del quotidiano e a vivere più dentro di sé che fuori e che ad un certo punto decide di affittare un appartamento, tenendo tutti all'oscuro della sua decisione.
È concesso all'uomo ritagliarsi uno spazio privato, che sia solo suo, senza dover giustificare i motivi di questa scelta alla moglie, ai colleghi e neppure al lettore? Non nell'Argentina degli anni Settanta, quella dei Generali e dei desaparecidos, uno stato di polizia  dove ogni comportamento del singolo è spiato e poi interpretato in termini di pericolosità per il potere, uno stato dove "la giustizia è un'astrazione e ciò che si vede sotto il suo nome non sono che i meccanismi che ogni società ha per difendersi dai propri nemici".
Kreck diventa così un personaggio kafkiano, la vittima di un sistema che non riesce a comprendere e cerca di adattarsi alla vita da recluso con la stessa docilità con cui  da emigrante si era adattato alla vita nel Nuovo Mondo. Non c'è rabbia da parte sua, solo incredulità e difficoltà a capire le cose del mondo, gli uomini, la politica.
Prenz conduce la trama con un ritmo compassato e preciso che ricorda l'ultimo Saramago e attraverso una narrazione a più voci si arriva a un finale diverso da quello che si immagina e ad un sorprendente cambiamento di paradigma che trasforma il libro da romanzo dell'assurdo in romanzo dell'assenza. Kreck non si piegherà e il segreto della sua doppia vita sarà destinato a restare tale, l'oscurità che regna sopra la superficie trasparente del suo animo non si svelerà e a nessuno sarà mai permesso di accedere alla sua interiorità, non alla moglie, né allo Stato e neppure al lettore.

sabato 13 aprile 2019

Jorge Baron Biza – Il deserto



V.I.T.R.I.O.L. (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem)

Il deserto è un'autobiografia romanzata, la storia della madre dell'autore sfregiata dall'ex-marito con l'acido e il racconto nelle parole del figlio della dolorosa ricostruzione del suo volto. Colpisce fin dall'inizio il tono impersonale con il quale il protagonista descrive il drammatico episodio, quasi un tentativo di prendere le distanze da una tragedia familiare che è un buco nero voracissimo che ingoia tutto quello che incontra ("Avevo deciso di improntare la mia vita all'esatto opposto, di essere tutto il contrario:" dice Mario/Baron Biza riferendosi al padre Arón/Raúl Biza "niente violenza, niente risentimento, niente ira. Dato che non mi sentivo un santo, comincia molto presto a praticare l'apatia").
È il male il tema del libro, un moloch che l'autore dapprima prova ad esorcizzare sforzandosi di vederlo come qualcosa di ridicolo ("l'idea che il male non fosse qualcosa alla portata della volontà, che se mai colpiva l'uomo era nella stessa forma che assume in natura: involontario, totale e assente, come nei deserti rocciosi"), e che poi cerca di sfuggire rifugiandosi nell'alcool e nella solitudine. Ma il male è dappertutto, ritorna sempre, anche negli anfratti, nelle storie minime della storia; solo una vecchia, verso la fine del libro, riuscirà a darne una chiave di lettura lucida e convincente, raccontando la sua sofferenza durante la guerra e descrivendo la differenza tra ira e odio, differenza che consiste nella presenza o meno della possibilità di riconciliazione. Senza riconciliazione si passa dall'una all'altra e poi, quasi inevitabilmente, alla follia che è uno stadio dal quale non si torna indietro, e quello di Arón era stato odio, male totale, deserto, perché aveva toccato la sacralità del volto dell'ex-moglie.
Apatia, fuga dalla realtà, rifugio nella bottiglia, sforzo di comprenderne le radici… Il deserto è un campionario dei tentativi compiuti da Baron Biza per sfuggire a un gorgo che sapeva l'avrebbe annientato; non mancano la ricerca del Bello (esemplari a questo proposito le pagine che dedica ai piccoli borghi dell'Italia, alla ricchezza artistica che spunta fuori un po' dappertutto nel nostro paese) ed anche un richiamo religioso ("mi trovo nel punto esatto in cui Dio non è più un sermone e diventa una necessità") che non a caso chiude il libro, ultima ratio destinata però al fallimento.
Troppo forte fu il peso da portare perché Jorge Baron Biza non ne finisse schiacciato, lasciando ai posteri un unico, meraviglioso, libro.