La
poesia non salverà il
mondo...
ma
forse mi aiuterà a salvarmi dal
mondo.
Jón
Kalman Stefánsson: è lui il Virgilio a cui ho deciso di affidarmi
per questo tratto di strada.
Altri
lo hanno preceduto (Pessoa e Leonard Cohen, Carver e Mark Strand,
Rilke e Tord Gustavsen... sono solo i primi che mi vengono in mente),
altri lo seguiranno. Ma adesso tocca a lui, a quella scrittura
attenta
che ho imparato a conoscere attraverso i suoi libri precedenti, alla
scelta accurata delle parole e al loro accostamento quasi più da
poesia che da prosa, che me lo fanno immaginare chino sulla pagina
come un calligrafo giapponese, intento a trovare il gesto preciso
che gli permetta di entrare in sintonia con la parola. Attenzione: il
rischio di compiacersi troppo per la bella scrittura, di guardarsi
allo specchio e di scivolare nel calligrafismo c'è, ma Stefánsson
sembra non preoccuparsene troppo ed anzi sceglie di alzare ancora di
più l'asticella, aggiungendo alle difficoltà della forma anche
quelle del contenuto, avventurandosi in un terreno particolarmente
ostico da affrontare, quello dei sentimenti.
Amore,
morte, amicizia, bellezza, speranza, sogni, passione, rimpianti,
memoria, senso di colpa, tempo, Dio, avidità, felicità, affetti,
inadeguatezza, oblio... sono le parole dell'alfabeto stefánssoniano
che ricorrono per tutto il libro e che non spaventano l'autore
perché, evidentemente, sente l'urgenza di parlarne, non se ne
vergogna. Scrivere di sentimenti, si è detto, è un tema scivoloso,
si cammina su un ciglio che affaccia sul burrone della banalità e a
mettere male un piede c'è il rischio di finirci dentro nonostante le
migliori intenzioni. Stefánsson i piedi sa benissimo dove posarli e
non ha timore a porre questi sentimenti al centro del romanzo e a
parlarne in maniera semplice ma non scontata: perché ne ha bisogno,
perché ne abbiamo bisogno. Perché ha un animo sincero.
Parlare
della trama di I pesci
non hanno gambe è
poco importante: qui la trama è solo un pretesto per cantare la
bellezza e il suo contrario, il Paradiso e l'Inferno, l'amore e la
morte. Come nei libri precedenti. l'occhio dell'autore si posa sulla
dualità dell'animo umano, sul suo essere al tempo stesso qualcosa ma
anche qualcos'altro, sull'eterno oscillare tra due opposti che
rischierebbe di deflagrare in conflitto in qualsiasi momento, se la
scrittura e l'arte non si incaricassero di fare da collante per
tenere insieme le cose.
Accendere
la luce su oggetti, luoghi e persone per non lasciarli andare via,
perché le parole li sottraggano ancora un po' alla morte: questa –
in estrema sintesi – è l'idea a a partire dalla quale muovono i
romanzi di Stefánsson, un rivoluzionario
delicato che espone le
sue idee sul mondo e sulla società senza urlare, senza la pretesa di
aver ragione. La vita è ricerca di uno scopo, ci dice, e così ci
racconta quello che i personaggi cercano, ma anche quello che pensano
e soprattutto quello che sentono,
saltando tra passato e presente senza preoccuparsene troppo perché
il suo tempo e quello dei protagonisti del romanzo è scandito da
sogni e pensieri, non dalle lancette di un orologio.