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domenica 12 giugno 2016

Angelo Calvisi – Clandestini

Angelo Calvisi, direttore della fotografia.

Clandestini è una raccolta di racconti eterogenea per forma e contenuti. Storie scritte nell’arco di anni e spesso legate a un vincolo tematico richiesto dal blog o dalla rivista che poi le hanno pubblicate.
Storie diverse anche per il valore letterario (alcune più riuscite ed altre probabilmente meno), che pure ci permettono uno sguardo anche sul Calvisi scrittore di racconti.
Diciamo subito che, ad oggi, ho apprezzato maggiormente le sue qualità come autore di romanzi brevi sia in Un mucchio di giorni così che in Adieu mon coeur, ma anche alla prova di una forma narrativa diversa dimostra di cavarsela bene e soprattutto di saperne risolvere i problemi tecnici connessi  con apparente semplicità.
Le storie di Clandestini sono tutte narrate con stile diretto in prima persona presente (mi sembra che solo in un racconto l’autore usi l’imperfetto) e caratterizzate da un incipit in grado di attirare da subito l’attenzione del lettore (caratteristica fondamentale nelle short stories), un buono sviluppo della vicenda e un climax che per il mio gusto a volte è un po’ troppo vicino alla conclusione. Ma al di là di certi formalismi è “la misura” quello che mi sembra uno dei tratti salienti di questi racconti, l’equilibrio tra la scorrevolezza di una scrittura che procede sicura, senza sbavature e una narrazione che alterna accadimenti, dialoghi, osservazioni e divagazioni senza perdere il filo di una trama che alla fine si risolve  con naturalezza, senza forzature.
Angelo Calvisi, direttore della fotografia, si diceva nel titolo. Già, più direttore della fotografia che regista, perché le storie che racconta sembrano avere vita propria, svilupparsi autonomamente come un film che scorre sotto i nostri occhi. Calvisi fotografa le scene e poi traduce in parole i fotogrammi: impresa tutt’altro che banale, soprattutto perché riesce a rendere con poche pennellate impressioni, attimi, momenti di vita che trasforma in suggestioni cariche di possibilità (L’acqua è scura, calma, ci sono dei barconi che trasportano tronchi e sulla riva soffia un’aria fresca. È una scena che trasmette un’idea di inevitabilità, e non sono in grado di descriverla meglio, scrive in Missione a Berlino di un redattore suicida).
Calvisi scrive quello che vede (parafrasando il protagonista del primo racconto della raccolta, che, in un incipit che ricorda Il Grande Freddo, tira fuori il bloc-notes nel bel mezzo di un funerale e scrive: il mio stato d’animo sono le cose che vedo) ed è un vedere senza pre-concetti, finalizzato non tanto a formarsi opinioni quanto a provare a capire. La curiosità è il primum movens dell’autore, curiosità che trasforma la routine di un cooperatore sociale o di un commesso di un negozio di dischi in qualcosa di diverso: dietro ogni persona c’è un personaggio,  e Calvisi ce lo restituisce nella sua “unicità”.
È la curiosità che porta i personaggi di Clandestini a interrogarsi su ogni cosa,  anche sul significato delle parole (come fa il protagonista di Giornata tipo di uno strenuo cooperatore sociale che tornando a casa si chiede se quelli dell’autobus fossero proprio vagoni e Come si chiamava il nastro di spessa gomma nera che separava le due ante delle porte? E le porte dell’autobus si chiamavano veramente porte?), la stessa curiosità che abbiamo quando da bambini andiamo alla scoperta del mondo e che poi perdiamo (o nascondiamo) crescendo, perché la consideriamo un sinonimo di immaturità, un segno di debolezza.
C’è un’ultima osservazione che voglio fare su questo brevissimo libro (si legge, cronometrato, in un’ora) ed è relativa all’ultimo racconto, Missione a Berlino di un redattore suicida, che mi ha colpito particolarmente: una trama originale, straniante e surreale, con il protagonista che alla fine finisce per svanire all’interno della storia che ha raccontato. Un racconto diverso da tutti gli altri, ma perfettamente riuscito, a dimostrazione delle capacità dell’autore di esprimersi al meglio anche con registri narrativi differenti.

sabato 19 marzo 2016

Angelo Calvisi – Adieu mon coeur

 


l'amor che move il sole e l’altre stelle



La cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani” (E. Hemingway).

“Sono contrario a tutti i trucchi che richiamano l’attenzione su se stessi, mostrando lo sforzo dello scrittore di risultare ingegnoso, o semplicemente poco diretto” (R. Carver).

Partiamo da qui, e diciamo subito che Calvisi è un autore che soddisfa entrambi i criteri esposti. Certo, stiamo parlando di uno scrittore di nicchia (in questo momento su anobii Adieu mon coeur conta otto lettori e diciotto sono quelli di Un mucchio di giorni così), che non infarcisce le storie di colori e aggettivi alla maniera sudamericana, che non frequenta i territori del minimalismo estremo o del postmodernismo spinto (per non dire del meta-letterario così di moda) di certa narrativa statunitense  e che, soprattutto, è immune dal narcisismo di tanti librivendoli italiani (di quelli, per intenderci, che ammiccano compiaciuti dalle quarte di copertina).

Calvisi è un artigiano, uno che costruisce storie per passione, senza seguire modelli stereotipati, senza la ricerca dei colpi a effetto o del lieto fine per forza, e Adieu mon coeur è una di queste storie. La storia di Paolo: bambino, adolescente e poi musicista di successo, eppure mai felice, mai realizzato veramente. La storia di una famiglia che va in frantumi, di amicizie che cambiano nel corso degli anni, di un amore (quello per Michela) vagheggiato, svanito, rincorso, sfiorato e poi perso definitivamente. Una storia che si dipana sul filo della nostalgia, con il rischio di cadere nei luoghi comuni che è sempre dietro l’angolo e che l’autore riesce a scansare mantenendosi nel territorio di una narrazione onesta, evitando facili strizzate d’occhio al lettore.

Adieu mon coeur è un romanzo che ci parla della vita, di come vorremmo che andassero le cose e di come vanno nella realtà, di quello che riusciamo a raggiungere e di quello che invece ci sfugge, di quello che aspiriamo ad essere e di quello che siamo, di quello che passa e non può tornare. Ci parla, soprattutto, di amore, di quello vero, che quando arriva è peggio di un terremoto che finisce per stravolgerci l’esistenza senza neppure chiedere permesso, di quell’amore che è come una condanna, che ci sceglie e non si fa scegliere e che non ha bisogno di realizzarsi per continuare a vivere.

“La parola chiave è armonia, scrive ad un certo punto Calvisi. Già, armonia intesa però non come conquista ma come una meta che rimane sempre un po’ più in là, aspirazione, obiettivo da perseguire anche sapendo che non lo si raggiungerà mai. Proprio come l’amore di Paolo per Michela.