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domenica 24 settembre 2017

Roberto Bolaño - Puttane assassine

Nell’equivoco viviamo e pianifichiamo i nostri cicli di vita

“Puttane assassine” è l’ultimo libro pubblicato da Bolaño in vita e la seconda raccolta di racconti dopo “Chiamate telefoniche”. 
Sono racconti scritti a volte in prima e a volte in terza persona e che ci presentano un Bolaño più intimo, ma non per questo minore e che, pur nella loro eterogeneità, presentano aspetti comuni. Innanzitutto la compassione per un’umanità dolente e innocente, tratto comune ad altri grandi scrittori contemporanei (penso, tra tutti, a David Foster Wallace), ma anche la grande solitudine dei protagonisti che spesso vivono due vite distinte: una affacciata sul mondo e caratterizzata dal bisogno di dire, di parlare, dall’urgenza di entrare in contatto con gli altri e una interiore, fatta di sogni, fantasie, pensieri difficili da condividere. I personaggi che abitano questi racconti sono individui fragili, circondati dal male, che cercano la bellezza e spesso la identificano nella poesia o nella letteratura o in qualcosa che appartiene alla sfera privata, che reca loro conforto ma al tempo stesso li isola ancora di più (E poi vidi che la luce, qualche secondo dopo il passaggio dell'auto o del camion in quel punto, girava su se stessa e rimaneva come sospesa, una luce verde che pareva respirare, per una frazione di secondo viva e riflessiva in mezzo al deserto, sciolta da ogni legame, una luce che assomigliava al mare e che si muoveva come il mare, ma che conservava tutta la fragilità della terra, un'ondulazione verde, portentosa, solitaria, che doveva essere prodotta da qualcosa su quella curva, una scritta, una tettoia solitaria, dei teli di plastica giganteschi stesi sulla terra, ma che davanti a noi, a una distanza considerevole, appariva come un sogno o un miracolo, che sono, in fin dei conti, la stessa cosa).
C’è un’inquietudine costante che aleggia tra le pagine di “Puttane assassine”, la sensazione che i personaggi si trovino su una strada senza uscita che non possono però fare a meno di percorrere, un dramma senza senso che rischia spesso di sfociare nella pazzia perché, come dice il protagonista di uno dei racconti, nell'equivoco viviamo e pianifichiamo i nostri cicli di vita.

domenica 16 aprile 2017

Poeti

Non ho mai capito la musica, un’arte che noi non coltiviamo o coltiviamo molto raramente. In realtà non coltiviamo e quindi non comprendiamo quasi nessuna arte. A volte salta fuori, mettiamo, un topo che dipinge, oppure un topo che scrive poesie e inizia a recitarle. Normalmente non ridiamo di lui. Anzi lo commiseriamo, perché sappiamo che la sua vita è votata alla solitudine. Perché alla solitudine? Be’, perché per il nostro popolo l’arte e il godimento dell’opera d’arte sono un esercizio impossibile, per cui le eccezioni, quelli diversi, scarseggiano e se, per esempio, arriva un poeta o un banale declamatore, la cosa più probabile è che non nasca un altro poeta o declamatore fino alla generazione successiva, per cui il poeta si vede privato dell’unico che forse potrebbe apprezzare i suoi sforzi. Questo non vuol dire che la nostra gente non si fermi nella sua frenesia quotidiana ad ascoltarlo e addirittura applaudirlo o non presenti una mozione perché al declamatore sia permesso di vivere senza lavorare. Al contrario, facciamo tutto quello che è nelle nostre possibilità, che non è molto, per dare al diverso una parvenza di comprensione e affetto, perché sappiamo che, in fondo, è un essere bisognoso d’affetto. Alla lunga però tutte le parvenze crollano come un castello di carte. Viviamo nella collettività e la collettività ha bisogno soltanto del lavoro quotidiano, dell’attività costante di ognuno dei suoi membri per un fine che trascende le aspirazioni individuali e che, tuttavia, è l’unico a garantire la nostra esistenza come individui.

[Roberto Bolaño: "Il gaucho insopportabile"]

sabato 7 gennaio 2017

Roberto Bolaño – Notturno cileno




Un lungo monologo, con uno degli incipit più belli della narrativa contemporanea (come termine di paragone mi viene in mente solo Body Art di Delillo).



“Ora muoio, ma ho ancora molte cose da dire. Ero in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma all’improvviso le cose sono emerse. La colpa è di quel giovane invecchiato. Io ero in pace. Ora non sono più in pace. Bisogna chiarire certi punti. Quindi mi appoggerò su un gomito e solleverò la testa, la mia nobile testa tremante, e cercherò nell’angolo dei ricordi quelle azioni che mi giustificano e perciò smentiscono le infamie che il giovane invecchiato ha sparso in giro a mio discredito in una sola notte fulminea. A mio presunto discredito. Bisogna essere responsabili. È tutta la vita che lo dico. Abbiamo l’obbligo morale di essere responsabili delle nostre azioni e anche delle nostre parole e perfino dei nostri silenzi, sì, dei nostri silenzi, perché anche i silenzi salgono al cielo e Dio li sente e solo Dio li comprende e giudica, per cui molta attenzione ai silenzi. Io sono responsabile di tutto. I miei silenzi sono immacolati. Che sia chiaro. Ma soprattutto che sia chiaro a Dio. Il resto è trascurabile. Dio no. Non so di cosa sto parlando. A volte mi sorprendo appoggiato su un gomito. Divago e sogno e cerco di essere in pace con me stesso. Ma a volte dimentico perfino il mio nome. Mi chiamo Sebastián Urrutia Lacroix. Sono cileno.”



Un inizio ipnotico, una scrittura quasi bernhardiana, un ritmo suadente, che ti attira tra le sue spire, ti porta dentro la storia e non ti molla più fino alla penultima riga. Poi, quando tutto è finito, ti sputa fuori senza tanti riguardi (“E poi si scatena la tempesta di merda”) per restituirti alle miserie del tuo mondo.

Notturno cileno è la storia di Sebastián Urrutia Lacroix, prete dell’Opus Dei e scrittore, intento a tracciare un bilancio della sua vita, a fare i conti con se stesso e con quel misterioso “giovane invecchiato” che rappresenta probabilmente la sua coscienza. Ricordi, storie, incontri: da Farewall, il famoso critico letterario, a Neruda, da Pinochet a Jünger, a María Canales, intrecciando personaggi veri e personaggi inventati per raccontare la storia di un uomo e insieme la storia del Cile degli ultimi quarant’anni. Parole e silenzi, azioni e omissioni, sogni e bassezze, il tutto sembra mescolarsi in maniera straordinariamente fluida nella figura del protagonista ed è tenuto insieme dall’assenza di sensi di colpa.  Sebastián Urrutia Lacroix vede le cose, le riconosce per quello che sono, eppure non le sente sue, non gli appartengono. È un uomo che vive il suo tempo senza sentirsi sfiorato dalle tragedie che lo circondano, che attraversa la vita curandosi solo di quello che lo interessa e trascurando il resto: un uomo che vive scotomizzando la realtà. Ma non è solo, perché intorno a lui si muove e prospera un’umanità fatta di suoi simili, il che spiega perché le cose sono successe e perché succederanno di nuovo.


Se Hermann Broch aveva cercato di spiegare il suo tempo mettendo il dito sulla piaga dell’indifferenza, Bolaño sembra raccogliere in questo libro il suo testimone, dimostrando come le cose non siano tanto cambiate dagli anni Trenta ad oggi: Sebastián Urrutia Lacroix sembra essere a tutti gli effetti il degno erede di Pasenow e la mancanza di sensi di colpa la diretta conseguenza di quell’indifferenza.

domenica 16 marzo 2014

Roberto Bolaño - I dispiaceri del vero poliziotto


Romanzo postumo, che nelle intenzioni dell'autore doveva essere un'opera monstre, di oltre ottocentomila pagine. Uno degli incipit più potenti e provocatori della letteratura contemporanea (la classificazione degli scrittori in froci e frocioni) da il via ad un'alternarsi di pagine di grande letteratura (penso, ad esempio, al secondo capitolo, dove Amalfitano racconta chi era, al ricordo del soldato sivigliano, alle cinque generazioni di Marie Expòsito, alla storia del generale Sepùlveda), di critica letteraria, di riflessioni sulla storia, di fantasia sfrenata (la bibliografia di Arcimboldi) … che catturano e trascinano il lettore in un viaggio che si vorrebbe non finisse mai. 
La solita scrittura “piena” a cui ci ha abituato Bolaño, che sembra tracimare in tutte le direzioni, un libro che è impossibile (o meglio: inutile) cercare di riassumere, fatto di tante storie collegate tra loro ma anche in grado di camminare da sole, un libro “eccentrico”, che è come le strade di Santa Teresa che “erano proiettate fuori, urbane e al tempo stesso aperte verso la campagna, una campagna di grandi spazi misteriosi”, un libro carico di vitalità, di voglia di dire e di fare, un romanzo “polifonico” che vuol raccontare “quante voci possiamo sentire nel corso di un giorno o di un'esistenza”. 
 Bolaño è un demiurgo che crea le sue storie impastando fango e sogni, letteratura e terra delle strade di Sonora, gioia e amarezza, coraggio e paura, presenza e assenza, felicità e sensi di colpa, sempre alla ricerca della verità delle cose per trovare “se non la ragione, una dannata giustificazione, e se non una giustificazione, il canto, appena un mormorio, ma indelebile”, il tutto ammantato da un velo di malinconia che passa come un vento caldo, a folate, su tutto il libro.

sabato 22 febbraio 2014

Quel che impararono gli allievi di Amalfitano


E cos'è che impararono gli allievi di Amalfitano? Impararono a recitare a voce alta. Mandarono a memoria le due o tre poesie che più amavano per ricordarle e recitarle nei momenti opportuni: funerali, nozze, solitudini. Capirono che un libro era un labirinto e un deserto. Che la cosa più importante del mondo era leggere e viaggiare, forse la stessa cosa, senza fermarsi mai. Che una volta letti gli scrittori uscivano dall'anima delle pietre, che era dove vivevano da morti, e si stabilivano nell'anima dei lettori come in una prigione morbida, ma che poi questa prigione si allargava o scoppiava. Che ogni sistema di scrittura è un tradimento. Che la vera poesia vive tra l’abisso e la sventura e che vicino a casa sua passa la strada maestra dei gesti gratuiti, dell’eleganza degli occhi e della sorte di Marcabruno. Che il principale insegnamento della letteratura era il coraggio, un coraggio strano, come un pozzo di pietra in mezzo a un paesaggio lacustre, un coraggio simile a un vortice e a uno specchio. Che leggere non era più comodo che scrivere. Che leggendo s’imparava a dubitare e a ricordare. Che la memoria era l’amore.

[R. Bolaño: "I dispiaceri del vero poliziotto"]

domenica 3 novembre 2013

La miglior banda

Se dovessi rapinare la banca più sorvegliata d’Europa e potessi scegliere liberamente i miei compagni di malefatte, sceglierei senza dubbio un gruppo di cinque poeti. Cinque poeti veri, apollinei o dionisiaci, non importa, ma veri, vale a dire con un destino da poeti e una vita da poeti. Nessuno al mondo è più coraggioso di loro. Nessuno al mondo sa affrontare il disastro con più dignità e lucidità. Sono dei deboli, all’apparenza, lettori di Guido Cavalcanti e Arnaut Daniel, lettori del disertore Archiloco che attraversò un campo d’ossa, e lavorano nel vuoto della parola, come astronauti perduti su pianeti senza via di scampo, in un deserto dove non ci sono lettori né editori, solo costruzioni verbali o canzoni idiote cantate non da uomini ma da fantasmi. Nella categoria degli scrittori, sono il gioiello più grande e meno ricercato. Quando un ragazzo di sedici o diciassette armi dà di matto e decide di voler fare il poeta, è il disastro familiare assicurato. Ebreo omosessuale, mezzo negro, mezzo bolscevico, la Siberia del suo esilio copre d’obbrobrio anche la sua famiglia: i lettori di Baudelaire non hanno vita facile alle scuole superiori, né con i compagni di classe né tanto meno con gli insegnanti. La loro fragilità, però, è ingannevole. E anche il loro umore e le manifestazioni capricciose del loro amore. Dietro queste ombre vaghe si celano forse i tipi più duri del mondo e di sicuro i più coraggiosi. Non per nulla discendono da Orfeo, che scandiva il ritmo di voga degli Argonauti e che scese negli inferi e ne venne fuori, meno vivo di prima, ma pur sempre vivo. Se dovessi rapinare la banca più sorvegliata d’America, nella mia banda vorrei solo poeti. La rapina si concluderebbe in modo disastroso, probabilmente, ma sarebbe bellissima.

[Roberto Bolaño, "Tra parentesi"]

domenica 18 agosto 2013

Scrittura di qualità

che cos'è una scrittura di qualità? Ebbene, è quello che è sempre stata: saper ficcare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso. Correre sull'orlo del precipizio: da una parte l’abisso senza fondo e dall'altro i volti amati, i volti amati che sorridono, e i libri, e gli amici, e la tavola. E accettare quest’evidenza anche se certe volte ti pesa più della pietra tombale che copre i resti di tutti gli scrittori morti. La letteratura, come direbbe una cantante andalusa, è un pericolo.

[Roberto Bolaño: "Tra parentesi"]


domenica 6 maggio 2012

I detective selvaggi

Questo libro è un sacco di cose. 
E' la fotografia di una generazione, è una dichiarazione d'amore per la poesia, è un film di Wenders, è On the road di Kerouac declinato in sudamericano, è un fiume.
Un fiume lunghissimo, con una serie infinita di affluenti, ognuno dei quali avrebbe la forza di reggere da solo un romanzo e che invece sono utilizzati per portare acqua alla storia di Arturo Belano ed Ulises Lima, per arricchirla di particolari e sfumature, per chiarirla e complicarla raccontandola.
Una storia che non è la storia dei realvisceralisti, come ad un certo punto Norman dice a Daniel, ma "la storia della vita, di quel che perdiamo senza rendercene conto e di quel che possiamo ritrovare", ..."perché niente è finito".
La storia della vita, quindi, quella vita dove tutti nuotiamo e quella vita, come dice Ulises Lima, "dove tutti abbiamo paura di naufragare".

sabato 5 maggio 2012

Isole sul fiume


Un giorno gli chiesi dove fosse stato. Mi disse che aveva disceso un fiume che unisce il Messico con l'America Centrale. Che io sappia, quel fiume non esiste. Mi disse, però, che aveva disceso quel fiume e che ora poteva dire di conoscerne tutti i meandri e gli affluenti. Un fiume d'alberi o un fiume di sabbia o un fiume d'alberi che a tratti si tramutava in un fiume di sabbia. Un flusso costante di gente senza lavoro, di poveri e di morti di fame, di droga e di dolore. Un fiume di nubi su cui aveva navigato per dodici mesi e lungo il quale aveva trovato innumerevoli isole e paesi, anche se non tutte le isole erano abitate, e dove a volte aveva creduto di rimanere a vivere per sempre o di morire.
Di tutte le isole visitate, due erano portentose. L'isola del passato, disse, dove esisteva solo il tempo passato e nella quale gli abitanti si annoiavano ed erano ragionevolmente felici, ma dove il peso dell'illusione era tale che l'isola affondava nel fiume ogni giorno un poco di più. E l'isola del futuro, dove l'unico tempo che esisteva era il futuro, e i cui abitanti erano sognatori e aggressivi, così aggressivi, disse Ulises, che probabilmente avrebbero finito per mangiarsi gli uni con gli altri.


[Roberto Bolaño: "I detective selvaggi"]

sabato 28 aprile 2012

I cani romantici

A quel tempo avevo vent'anni
ed ero pazzo.
Avevo perso un paese
ma guadagnato un sogno.
E se avevo quel sogno
il resto non importava.
Né lavorare, né pregare,
né studiare la notte
insieme ai cani romantici.
E il sogno viveva nel vuoto del mio spirito.
Una camera di legno,
in penombra,
in uno dei polmoni del tropico.
E a volte mi guardavo dentro
e visitavo il sogno: statua eternata
in pensieri liquidi,
un verme bianco che si contorce
nell'amore.
Un amore sfrenato.
Un sogno dentro un altro sogno.
E l’incubo mi diceva: crescerai.
Ti lascerai alle spalle le immagini del dolore e del labirinto
e dimenticherai.
Ma crescere a quel tempo sarebbe stato un crimine.
Sono qui, dissi, con i cani romantici
e qui io resterò.

[Roberto Bolaño]