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sabato 13 agosto 2016

Witold Gombrowicz – Trans-Atlantico




Trans-Atlantico è un libro originale, contraddittorio e provocatorio. Almeno quanto il suo autore.

Solo un provocatore come Gombrowicz poteva pensare di scrivere nel dopoguerra un libro che mettesse alla berlina la Polonia e i polacchi, per di più dopo essere praticamente scappato da quella guerra, e ancora di più facendolo passare per un libro che doveva fungere da pungolo, per stimolare la Polonia e i polacchi ad uscire da quegli stereotipi dei quali erano vittime più o meno volontarie!

Eppure, se proviamo a seguire l'autore e a passare dalla storia alla fantasia, dalla realtà alla letteratura, ecco che le cose cambiano. Nella retta ideale che collega i tre grandi romanzi di Gombrowicz, Trans-Atlantico si colloca dopo Ferdydurke e prima di Pornografia e di Cosmo. Rispetto al primo risulta in continuità per quanto riguarda lo stile parodistico e la lingua, che a tratti sembra un abito troppo stretto che fatica a contenere l'irruenza dell'autore e che finisce per frantumarsi in neologismi e costruzioni ardite, pile di parole che nello sforzo di arrampicarsi verso il concetto che vogliono rappresentare finiscono per crollare miseramente a terra. Degli altri due invece, Trans-Atlantico anticipa parecchie e importanti tematiche, basti pensare al dualismo Vecchio/Giovane che deflagrerà poi in Pornografia e all'impossibilità di individuare una realtà condivisa che sarà alla base di Cosmo.

Probabile che al successo di  Trans-Atlantico abbiano nuociuto le polemiche su Gombrowicz come anti-polacco, peccato perché si tratta di un libro meritevole, che offre più di uno spunto di riflessione. Già il tema al centro del romanzo, il figlio conteso tra un padre apprensivo e un pederasta innamorato, con il diritto del ragazzo di affrancarsi dal giogo del primo e il rischio di finire tra le grinfie del secondo,  sarebbe argomento da tragedia greca che l'autore decide invece di risolvere in farsa, come se le scelte di vita fossero alla fine poco importanti. Ma ci sono anche sono mille  altri aspetti che catturano l'attenzione nella lettura di questo romanzo: c'è (secondo me) la metafora della Polonia stessa, divisa tra nazismo e stalinismo e che come il ragazzo è preda contesa da entrambi, c'è il Vuoto (esistenziale?) che ricorre di frequente tra le pagine, e accanto ad esso il “camminare” del protagonista (Gombrowicz stesso), un camminare senza senso, una ricerca del significato nell'azione (quell'azione che ritornerà in Cosmo), c'è (addirittura) una trama che a tratti sembra ripercorrere, mutatis mutandis, la passione di Cristo. C'è, soprattutto, l'assurdo, una presenza soverchiante che incombe su tutto, rendendo vano ogni comportamento: assurde sono le conversazioni tra i personaggi, assurdi i loro comportamenti, i loro tentativi di soverchiarsi l'un l'altro, le sofferenze che si infliggono.

Perché la realtà per Gombrowicz non esiste, è una specie di prisma attraverso il quale ognuno vede il (suo) mondo, e il nostro affannarci per cercare di dare unità, per creare una visione condivisa e condivisibile  è simile al tentativo del bambino di costruire un argine di sabbia sulla riva. È solo questione di tempo, perché prima o poi l'onda del mare spazzerà via il frutto di tanto impegno,  eppure noi siamo destinati a non capire la lezione e a rimetterci all'opera con paletta e secchiello  e immutato impegno, per ricostruire in piedi una nuova diga destinata anch'essa a crollare sotto i colpi del mare, come quella che l'ha preceduta e come quelle che la seguiranno. Dietro di noi, seduto su una sdraio sotto un ombrellone, ci sarà il vecchio Gombrowicz, impegnato a guardarci di nascosto da dietro il giornale compatendo con un sorriso l'inutilità dei nostri sforzi.

domenica 8 maggio 2016

Witold Gombrowicz – Pornografia


“La bellezza stava tutta dall’altra parte, dalla parte dei giovani”

Le cose sono come ci appaiono. Guardando le interpreto, le faccio mie trasfigurandole. Questo, a grandi linee, è il pensiero che Gombrowicz sviluppa in quella ideale trilogia nella quale Pornografia si pone a metà strada tra Ferdydurke e Cosmo.
Seguendo l’assunto esposto, ne consegue che ognuno di noi “vede” un suo mondo e legge ogni fatto in maniera personale, con la conseguente scomparsa dell’oggettività, di una verità condivisa. Un mondo quindi per ogni persona, ma anche due mondi che si fronteggiano: quello degli adulti e quello dei giovani, due mondi che obbediscono a regole diverse.
La gioventù è l’età delle possibilità, non esistono ancora strade tracciate ma una miriade di sentieri da esplorare. È fuoco che cova sotto la cenere, età delle contraddizioni (innocenza/malizia, per dirne una) e delle contrapposizioni (istinto contro esperienza, leggerezza contro serietà, fantasia contro certezza), ma anche crudeltà e, soprattutto, incoscienza.
La gioventù è Bellezza, rifugio che l’autore sceglie per fuggire dalla normalità della vita adulta, ed essendo mondo adulto e mondo dei giovani due sistemi non comunicanti, l’immaginazione diventa l’unico strumento possibile per provare a stabilire una forma di contatto con un universo così lontano. L’opera a cui Gombrowicz si affanna a dar vita è una costruzione tanto affascinante quanto ardita, basata su fondamenta fragilissime, che vengono messe alla prova ogni volta che l’autore aggiunge una nuova carta al castello che sta faticosamente prendendo forma. Costruzione destinata a crollare irrimediabilmente, che da sempre costruire sui sogni è un po’ come scrivere sull’acqua…

Un doppio delitto, un “delitto a specchio”, sarà la conclusione che i due protagonisti del libro partoriranno per dare una logica al complesso di situazioni che si sono venute a creare, ottenendo però il risultato di accelerare ancora di più quel processo di frammentazione della realtà che Gombrowicz inizia a tratteggiare anche dal punto di vista stilistico (penso alla scrittura sincopata, con un sacco di puntini di sospensione) e che deflagrerà definitivamente con Cosmo.

sabato 2 gennaio 2016

Witold Gombrowicz – Cosmo


Il mondo era davvero una specie di paravento…

Cosmo è un romanzo da prendere con le molle.
Gombrowicz gioca a nascondersi e lo fa travestendo da farsa il dramma, mettendo in scena una scombinata investigazione “simil-poliziesca” figlia della noia di due giovani amici, che dovrebbe indurre al riso se non celasse il tentativo folle e disperato di indagare tra le pieghe del caos con gli strumenti della logica per scoprire le leggi che lo regolano. Il tutto espresso attraverso una scrittura che definirei “lussureggiante”, lontana mille miglia dal grigiore e dagli altri stereotipi della narrativa polacca.
Una passeggiata, allucinata e allucinante,  di due fuori-di-testa, che cercano di trovare un senso nelle cose che un senso non hanno. Così, in estrema sintesi, potrebbe essere riassunta la trama del romanzo.
Indagare l’ordine delle cose, dunque. Con la certezza di trovarci, alla fine, con un pugno di mosche in mano, perché quello che riusciremo ad individuare sarà sempre uno degli infiniti ordini possibili, un ordine arbitrario, utile solo a noi per poter andare avanti, per cancellare possibili zone buie dal nostro percorso. E qual è lo strumento che utilizzeremo per svolgere il nostro compito? La logica, la vecchia, cara e usurata logica, che chiamata a confrontarsi con la natura finirà per mostrare tutti i suoi limiti. Troppo comodo aspettarci che sia lei a fare tutto il lavoro, sarebbe anche poco divertente. La logica può accompagnarci fino ad un certo punto, ma quando si arriva alle colonne d’Ercole lei si ferma e se vogliamo andare oltre ci tocca salire sulla barchetta di Ulisse e metterci alla prova confrontandoci con l’ignoto. Togliamo pure i se: andare oltre è obbligatorio, non possiamo non farlo, dobbiamo trascendere la nostra natura perché trascendere è la nostra natura.
Witold e Fucsio non fanno eccezione: non riescono a sottrarsi al compito che si sono dati di conferire un significato alle cose, di scoprire cosa il mondo cela dietro il suo paravento, di indagare il caos provando ad interpretarlo. Interessante notare come l’autore sottolinei il fatto che la loro sia un’indagine che nasce dalla noia e dalla solitudine, dal sentirsi esclusi uno dalla famiglia e l’altro dal datore di lavoro.
Cosmo è romanzo con i piedi ben saldi nel passato (e “ben saldi” può a ben diritto essere considerato un eufemismo, riferendoci qui al fatto che i due squinternati amici presentano più di un tratto in comune con il Cavaliere dalla Trista Figura…) e lo sguardo che apre ad un futuro quantomeno problematico (penso all’esistenzialismo e al teatro dell’assurdo): dopo il passaggio di Gombrowicz, quello che rimane sul campo sono solo macerie, una frammentazione della realtà, la parcellizzazione di tutto ciò che ci circonda. Ed è un processo irreversibile.
Witold è come noi, e noi come Witold ci aggiriamo spaesati per quel che resta del mondo alla ricerca di segnali,  credendo di comprendere le cose e di seguire un filo logico. Ingannandoci però, perché quel filo che stiamo seguendo è solo uno dei mille fili possibili, che aprono mille porte dietro alle quali ci sono altre mille porte e così via… E, come se non bastasse, ognuno di noi è solo (ritorna la solitudine come molla della ricerca di Witold) e prigioniero del suo mondo, di quel mondo che ha plasmato piegando le cose interpretandole secondo i suoi bisogni.
C’è poco da stare allegri: altro che farsa, qui ci troviamo nel pieno del dramma dell’uomo moderno! Gombrowicz è perfettamente consapevole del fatto che, inevitabilmente, un’analisi così impostata non potrà che condurre al cul-de-sac dell’inazione, alla paralisi, e per questo propone una via d’uscita, letteraria se non filosofica: l’azione. Il movimento è l’unico appiglio al quale possiamo provare ad aggrapparci, necessario per svelare l’inganno di un’analisi basata su congetture, quindi parziale, quindi inutile. L’azione crea la realtà, quella personale, quella di ognuno di noi (ma se la realtà deve essere creata, allora forse non esiste e così agendo si finisce per aggiungere altra confusione…).

Parere personale: credo che un posticino tra i grandi del Novecento, Gombrowicz se lo sia ampiamente meritato.

sabato 20 dicembre 2014

La normalità


La normalità non è che una corda da funambolo tesa sull'abisso dell'anormalità.

(W. Gombrowicz - Ferdydurke)

domenica 3 agosto 2014

Witold Gombrowicz – Ferdydurke


Ferdydurke è un libro “coraggioso” ed anticonformista. 
Gombrowicz è perfettamente consapevole dei rischi che corre decidendo di affrontare un argomento come l'immaturità, eppure lo fa con coerenza apprezzabile. Nessun ammiccamento, nessuna strizzatina d'occhio al lettore, nessuna intenzione di épater le bourgeois, solo la decisione dell'autore di tirare dritto per la sua strada, senza schivare le difficoltà, anzi decidendo di evidenziarle. 
Si parla di immaturità, di quella del singolo e di quella della massa, e Gombrowicz affronta l'argomento “da dentro”, ammettendo la sua immaturità e sottolineandola anche con uno stile che a tratti può rendere fastidiosa la lettura, ma tant'è: se vuoi capire il mare devi bagnarti – sembra dirci Gingio, il protagonista del libro, invitandoci ad entrare nelle pagine di Ferdydurke
L'immaturità è la malattia della nostra epoca, dice Gombrowicz riferendosi al periodo tra le due Guerre, e proprio il riconoscere di non esserne immune lo rende diverso dagli altri, perché tra chi è infantile sapendo di esserlo e chi lo è atteggiandosi da campione della maturità, la differenza è grande. Il primo parte da una consapevolezza che all'altro manca e cerca di superare il suo status, mentre il secondo non aspira a nulla, è convinto della sua superiorità e pertanto destinato a non “evolvere”. 
Parlare di immaturità senza fare ricorso ai consunti luoghi comuni non è semplice, ma Gombrowicz riesce ad evitare anche questo tranello: spontaneità, bei sentimenti, idealismo e voglia di sognare hanno il loro contraltare in stupidità, rifiuto delle responsabilità, infantilismo e ristrettezza degli orizzonti. 
Ferdydurke non è un libro divertente, come potrebbe sembrare in apparenza. L'ironia è piuttosto sarcasmo, che talora scivola nel grottesco, un occhio caustico su una realtà che sembra deformata come in un quadro di Grosz. Oltre alla condanna dell'uomo all'immaturità, c'è un altro dramma sul quale Gombrowicz pone l'attenzione nel libro: anche la ricerca di una forma, di un sistema che ci permetta di sostanziare le cose e di darci certezze, è destinata a fallire. Non siamo e non potremo mai essere veramente autentici perché non siamo quello che vorremmo essere ma il frutto di un compromesso tra noi e gli altri ed è (e sarà sempre) un compromesso al ribasso. 
Aggiungerei che l'immaturità che Gombrowicz identifica come “il” problema, il tratto distintivo dell'uomo dei suoi tempi, è un aspetto che contraddistingue anche la nostra epoca. La differenza è che forse adesso è meno evidente, perché messo in ombra da altre caratteristiche dell'uomo contemporaneo (penso, tra tutte, alla velocità che rende difficile se non impossibile una vera analisi, con tutto ciò che questo comporta), ma riveste comunque carattere di universalità. 
Ferdydurke è un libro su cui ho cominciato a lavorare una volta terminata la lettura dell'ultima pagina. E questo, a mio avviso, è un gran pregio.