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sabato 15 febbraio 2020

Il buio a luci accese - David Hayden



Il buio a luci accese, esordio letterario di David Hayden è una sorprendente raccolta di racconti molto diversa dalle letture consuete, un'opera a metà strada tra lo sperimentale e il surreale che frantuma le leggi della scrittura e le riscrive secondo la poetica personale dell'autore irlandese.
Storie che scaturiscono dalla collisione di situazioni contrastanti: in Sortita c'è un che uomo si getta dal cornicione di un palazzo ma la sua caduta sembra non arrivare mai a compimento perché il tempo rallenta, ne Il pane spezzato assistiamo ad una scena di cannibalismo nel contesto di una cena elegante, in Smembrato una testa mozzata rotola cantando… e così via.
La storia prescinde dalla logica, sembra dirci Hayden, anzi compito della storia è quello di infrangere le leggi della logica per percorrere sentieri nuovi. In quest'ottica gli oggetti, le situazioni, hanno il solo scopo di ispirare la formazione della trama: "il banditore è indifferente agli oggetti, quel che colleziona sono le storie che abitano le cose", dice la voce narrante de Il banditore, l'essenza di un libro non sono "le parole in se stesse ma quel che c'è sotto, cioè quello che ci può liberare".
"Ogni cosa è un varco verso un altro oggetto o verso un evento", si legge ne La casa dei ricordi, e questo evento può essere del genere più disparato ma deve avere sempre la caratteristica – come detto – di scardinare la realtà, perché l'unica realtà è la finzione, approdo borgesiano che in Dick Hayden eleva a canone della sua poetica.
E così succede che la luce e il rumore acquistino spessore ("dal soffitto si riversa qualcosa di bianco e appiccicoso; è luce", e ancora: "il rumore si gonfia alle mie spalle e poi si allontana incanalandosi prima di ripiombarmi in testa e giù per le scale" e che l'Io che abita la storia sia diverso da quello che la sta narrando (La casa dei ricordi).
Difficile venire a capo di racconti nei quali il tempo si dilata o si contrae e lo spazio mescola reale e fantastico, a volte metafore ed allegorie sembrano darci una mano ad orientarci ma l'impressione è che l'intento dell'autore sia piuttosto quello di farci partecipare al gioco piuttosto che provare a comprenderlo, perché "il gioco non è divertimento. È quello che dobbiamo fare per vivere" e "lo scopo di qualsiasi gioco è l'abolizione della realtà biologica" (Il gioco). Un gioco che, va da sé, è incentrato sulle parole, che "non sono nient'altro che macchie mute finché non si scopre cosa significano, ma quando le si mettono insieme sono capaci di dire ogni genere di cose" (Come leggere un libro illustrato).
E se le cose non sono abbastanza chiare, ecco un esempio preso dallo stesso racconto: " -Mettete tutti i verbi da una parte e i sostantivi dall'altra, poi leggeteli in coppia in varie combinazioni per ottenere la vostra figura: Coniglio stropicciato, soldato singhiozzante… Su, provate voi.
- Minatore sorridente - dice un ragazzino con la faccia a limone, con in testa un berretto di lana.
- Ottimo. Ora che avete la vostra figura, potete cominciare a chiedervi "perché?" e continuare così finché non avrete la vostra storia."

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sabato 30 dicembre 2017

William Trevis - Uomini d'Irlanda


Equilibrio, armonia, misura, mestiere, sentimento, compassione, malinconia, memoria… ecco gli ingredienti che danno sapore a questa raccolta.
Lo stile di Trevis è uno stile lineare, privo di sensazionalismi e di voglia di stupire e questa già è una notizia, ché a guardarsi in giro è tutto uno sgomitare, un cercare di stupire, di distinguersi, con il risultato che spesso la scrittura finisce per venire prima della storia (quando c’è, la storia…). Tra le pagine di Uomini d’Irlanda non troverete nessuna frenesia, nessuna sovrapposizione dei piani narrativi, ne meta-qualcosa o altri artifici stilistici, perché la trama di questi racconti ha le spalle forti e ha bisogno solo di una scrittura che la supporti senza prevaricarla.
Una scrittura, quella di Trevis, che fa pensare ad Alice Munro ma soprattutto a Marilynne Robinson anche per quanto riguarda i temi trattati, perché al centro di questi racconti ci sono i rapporti tra le persone, il non detto, le cose successe tanto tempo prima e quelle che invece avrebbero potuto succedere. Le storie di Uomini d’Irlanda sono storie di abbandoni, di inganni, di vite trasformate da un episodio e di vite che non possono più cambiare, di destini compiuti, di bisogno disperato d’amore, sono storie sul tempo che corre via troppo veloce e sul tempo che rimargina le ferite. I racconti che compongo questa raccolta girano intorno agli equilibri fragili sui quali si reggono le vite delle persone, sono racconti nei quali a volte basta un passo al di fuori del cono di luce che illumina la strada per trovarsi nel territorio del dubbio, dell’incerto, in un luogo nel quale le cose a volte non sono quello che sembrano o forse sì.

I racconti di Uomini d’Irlanda sono racconti eleganti e bellissimi.

domenica 30 aprile 2017

Samuel Beckett – Molloy

 
Allora rientrai in casa e scrissi, È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte- Non pioveva affatto.

Ogni libro di Beckett è come un viaggio verso un altrove sconosciuto. Ci si entra dentro in punta di piedi, poi si procede guardandosi intorno con circospezione e quando meno ci se lo aspetta ci si ritrova persi in mezzo al bosco, senza punti di riferimento che possano indirizzare il nostro cammino.
Molloy  non fa eccezione, anzi è paradigmatico in questo senso. Beckett introduce da subito il protagonista con una narrazione in prima persona dal ritmo martellante che attira il lettore nelle spire del racconto. È nella camera della madre, non sa se lei è morta e da quando. È lì a scrivere per qualcuno che tutte le settimane viene a prendere i fogli e a pagarlo per il suo lavoro. Racconta di essere in attesa della fine e che nel frattempo dimentica a poco a poco tutto quello che gli è successo. Parla della gente che passa, di uomini senza nome che si incontrano e poi proseguono sulla loro strada. Persone sole, che vanno seguendo le loro ragioni e poi spariscono. Parla del suo viaggio alla ricerca della madre e della casa, attraverso una città che non conosce. Parla e intanto subisce un processo di decomposizione, invecchia rapidamente, perdendo anche l’uso della gamba buona.
Un viaggio che ricorda quello di Ulisse dove ogni cosa è deformata come in un quadro di Bacon: l’eroe è un antieroe, l’oceano una città indefinibile, Nausicaa una Lousse priva di grazia e così via. Un viaggio allucinante che non approda a nulla, un viaggio al qual succede un altro viaggio, quello di Moran alla ricerca di Molloy.
Se Molloy è pagato per scrivere, Moran è pagato per cercare, se Molloy cerca la casa della madre, Moran cerca Molloy, se il viaggio di Molloy ricorda l’Odissea quello di Moran rammenta a tratti la Bibbia in un gioco di specchi nel quale Moran sembra un proto-Molloy nel senso che quello che inizialmente ci viene presentato come il classico borghese finisce per subire per strada un processo di disfacimento nel fisico e nella mente fino a diventare quello che Molloy è all’inizio del racconto.
Una narrazione serrata, una spirale che ci avvolge, la sensazione di finire avvitati in un loop che corre sempre più veloce, fino a perdere il controllo di quello che succede intorno a noi. Succede di sentirsi risucchiati da una forza esterna, al centro del vortice generato dallo sciacquone tirato da una mano sconosciuta, vittime inconsapevoli di un estremo Infinite Jest.

sabato 17 settembre 2016

Samuel Beckett – Watt




Opera ai limiti dell’illeggibile. E sono limiti che in parecchie pagine vengono ampiamente superati. La storia di Watt, un essere misterioso, privo di identità, che compare improvvisamente sulla scena mentre un gruppo di persone è intento a conversare. L’aspetto come vestito del carattere: “inerte sul marciapiede, una sagoma solitaria”, “Tetty non era sicura se si trattasse di un uomo o di una donna. Il signor Hackett non era sicuro che non si trattasse di un involto, un tappeto per esempio, o un rotolo di tela incerata avvolto in carta scura e legato al centro con uno spago”. Non si sa come lo conoscano, cosa faccia, chi sia. È lì: una specie di alieno che quando ride lo fa per imitazione degli altri e che sente dentro di sé delle voci che a volte comprende ed altre no. Un uomo diverso da tutti, che cammina in maniera contorta, come se non avesse il controllo degli arti e si sforzasse di guidarli alla meno peggio, come se il suo corpo non gli appartenesse, come se fosse uno strumento che fatica a far funzionare e che lui porta in giro ballonzolando come un funambolo. Un tipo indifferente a quello che succede intorno a lui e anche a quello che succede a lui, che non si da pensiero neppure quando è colpito da un sasso in testa. Watt, semplicemente, trova inutile fare attenzione ai particolari, ai cambiamenti delle cose, perché è convinto che non se possa ricavare nulla di più di ciò che sono (“trovava strano pensare a questi piccoli mutamenti di scena, ai particolari che si aggiungono, a quelli che si perdono, a ciò che viene portato, a ciò che viene rimosso, alla luce data, alla luce tolta, e a tutte le vane offerte all’ora, trovava strano pensare a tutte queste piccole cose che si ammassano intorno a ogni arrivo, permanenza e partenza, che egli non ne avrebbe saputo nulla, nulla, per quanto vivesse, di ciò che erano state, nulla di quando e come venivano e com’era dopo, a paragone con prima, nulla di quanto e come rimanevano, e com’era poi, a paragone con prima, prima che venissero, prima che se n’andassero”).

Ci sono pagine di Watt in cui Beckett sembra impegnato nel tentativo di tenere assieme tutte le cose, di abbracciare contemporaneamente tutte le possibilità: inizia descrivendo un aspetto, un comportamento e subito dopo elenca tutte le varianti immaginabili, i possibili sviluppi della situazione, in una folle escalation che se in apparenza sembra divertente, nella realtà si rivela disturbante, inutile e per questo dolorosa. Queste “accumulazioni” di possibilità inespresse, come quelle di informazioni e particolari inutili che l’autore dissemina per le pagine del libro, disegnano un mondo abitato da personaggi che non sanno più discriminare tra cosa è utile e cosa inutile. Ogni cosa è quel che è, lì davanti a noi, incomprensibile. L’analisi non ci aiuta (anzi ci confonde) e la sintesi è impossibile: siamo all’impasse, e se la nostra capacità di elaborare un giudizio consapevole è azzerata vuol dire che  compiere o meno un’azione risulterà, come per Watt, indifferente.
La realtà è una monade inconoscibile e gli strumenti che usiamo per provare a comprenderla sono armi spuntate. Unica via di uscita è accontentarci del particolare lasciando perdere l’universale, vivere cioè la realtà che è data ad ognuno di noi sapendo che è diversa da quella degli altri, che rimarrà per sempre una porta chiusa alla quale è inutile bussare.

domenica 31 luglio 2016

Samuel Beckett – Più pene che pane






Belacqua: il proto-Murphy
Racconti prescindibili, che non mi sembrano aggiungere nulla di fondamentale alla lettura dell’opera di Beckett.
Qualche spunto qua e là: la figura di Belacqua come precursore di quel personaggio di più alto spessore che sarà Murphy, qualche abbozzo di temi che saranno messi a fuoco in opere più mature, l’attenzione all’aspetto fisico delle figure, alle loro menomazioni fisiche e non solo… E poi c’è un racconto, quello sì che mi è sembrato più riuscito degli altri, che mi sembra indicare la direzione (o una delle direzioni) verso la quale si indirizzerà la ricerca di Beckett.
Parlo di Giallo, racconto nel quale il conflitto interiore del protagonista viene messo a fuoco con maggiore evidenza rispetto alle altre novelle che compongono questa raccolta. Qui Belacqua si rende conto di non poter fingere con se stesso ed è costretto ad ammettere di non avere il controllo totale sui suoi ragionamenti; le idee possono entrare nella sua mente nonostante lui, anche se non è pronto a riceverle. Come difendersi da questa incursione non calcolata, dalla consapevolezza di non essere quella monade che credeva? Contrapponendo, follemente, all’idea un’emozione adatta, quella che crede possa meglio combattere il nuovo con cui è chiamato a confrontarsi. L’arma che Belacqua sceglie per difendersi non è la rabbia e neppure l’indifferenza, ma l’ironia: armare la mente di risate e poi far entrare l’idea e ridurla a pezzetti. Questa la dichiarazione d’intenti di Belacqua, destinata ad essere ripresa con ben altro successo nelle opere più mature (il riso che si oppone all’assurdità della realtà). Ben altro successo perché in Giallo l’ironia non servirà granché al protagonista, condannato a morire rapidamente sotto quei ferri del chirurgo che aveva vanamente tentato di esorcizzare.