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domenica 19 giugno 2022

Riaffiorano le terre inabissate – M. John Harrison



Un libro strano. Non è tanto la trama – per quanto ricca – il centro del racconto, quanto l'atmosfera che Harrison sa creare, un clima di attesa, straniamento, confusione. Come confusi sono i due protagonisti, persone che arrivate alla mezza età realizzano di non aver costruito nulla e ora non sanno dove dirigere le loro vite. Uno, Shaw, accetta il primo impiego che gli capita ("non un vero lavoro, quello che ultimamente hanno tutti"), l'altra, Victoria ("piena ma anche sprovvista di aspettative"), abbandona Londra per la campagna delle Midlands.
Anime alla deriva perse in un'architettura urbana che sembra svilupparsi senza un piano preciso, quasi ad elevare la provvisorietà a sistema, entrambi saranno destinati ad incontrare sul loro percorso personaggi bizzarri, con parti oscure che aprono sul mistero ed entrambi affronteranno queste situazioni come esperienze normali, senza approfondire più di tanto, senza provare davvero a capire chi siano quegli uomini-pesce, creature atlantidee che fanno capolino dietro ogni loro incontro.
Toccherebbe a Shaw e Victoria il compito di tirare le reti che l'autore ha calato nel romanzo e portare alla luce il significato, ma loro non lo fanno e proprio in questa postura rinunciataria sta un degli aspetti importanti del libro. Viene da pensare che forse Shaw e Victoria siamo noi, abitanti di questi strani anni, incapaci di indagare la realtà che abbiamo davanti o forse troppo confusi per provare a farlo. Prigionieri nella nostra bolla, incapaci di condividere e aprirci all'altro, eppure condannati ad andare avanti ("gli sembrava sempre di non avere colto un messaggio d'importanza cardinale", scrive Harrison a proposito di Shaw. E più avanti, riferendosi ad un altro personaggio: "era un uomo in cerca di motivazioni: non le trovava mai eppure agiva).
Andare avanti, perché non si può fare altrimenti; così i personaggi di Harrison (noi) si rassegnano a fare i passeggeri di un autobus che non sanno dove conduca e da chi sia guidato, limitandosi a guardare ogni tanto fuori dal finestrino concedendosi qualche sospiro, a volte di rimpianto, spesso per abitudine.


 

 


domenica 25 novembre 2018

Tom McCarthy – Uomini nello spazio



Leggere Tom McCarthy è come stendere un tappeto prezioso e poi provare ad interpretarlo, sforzandosi di individuare i collegamenti tra le parti e il significato dei simboli; provando ad entrare nella costruzione, indugiando alla ricerca di nessi, di certezze alle quali ancorarci per procedere verso un livello più profondo.
Uomini nello spazio è la storia di un gruppo di anime alla deriva nell'Europa di fine millennio. Sullo sfondo di un'atmosfera bohèmienne, trafficanti bulgari e altri strani personaggi incrociano le loro vite a Praga nei giorni in cui la Cecoslovacchia sta per dividersi in due stati, in un momento storico in cui il mondo sembra privo di un centro, quasi destinato ad espandersi in ogni direzione.
La trama è ricca e contorta, ma in realtà è poco più di un pretesto per tessere una rete nella quale sono identificabili idee caratteristiche dei romanzi di McCarthy: l'importanza dei simboli (in questo caso l'ellisse) e poi riflessioni sulla comunicazione e sulla trasmissione, lo spazio, la copia e il suo rapporto con l'originale ma soprattutto la ricerca del senso più profondo delle cose. In questo caso centrale è un'antica icona e il tentativo di decrittare il significato delle tre parole che vi sono incise. Capire per accedere a uno stadio nascosto che ci apra le porte per una comprensione più "completa" delle cose si rivela (e sempre si rivelerà) un'illusione e il mistero che occhieggia nel buio un sistema di scatole cinesi che attirandoci verso di sé finisce per allontanarci dal vero.

sabato 25 agosto 2018

Tom McCarthy – C



C è un romanzo complesso, che dietro l’apparenza di uno stile “classico” nasconde una ricerca quanto mai moderna. In superficie corre una trama lineare ma metafore, sottotesti, simboli e intertestualità aprono gli spazi a interpretazioni e chiavi di lettura che scavano parecchio in profondità. Un Pynchon travestito da E.M. Forster, verrebbe da dire, per un libro che si può leggere sia in orizzontale che in verticale.
Le vicende di Serge Carrefax, il protagonista della storia sono legate a doppio filo con il tema portante del romanzo, la divulgazione delle informazioni: da quella verbale al linguaggio dei segni, dai primi esperimenti di trasmissione senza fili  alle onde sonore ai messaggi subliminali, con corollario di crittografia e interferenze. Terreno complesso sul quale si combattono  conflitti non da poco, come quelli tra ordine e disordine, superficie e profondità, corpo e anima, razionalità e arte.
C è un romanzo circolare (che inizia e finisce con il richiamo kafkiano allo scarabeo) e complesso, a cominciare dal titolo che allude in mille direzioni diverse senza indicarne nessuna: C come Carrefax, ma anche come cloroformio (che usa la madre di Serge), cianuro (la sorella) e cocaina (il protagonista stesso). C come crittografia, carbonio… C come altre mille parole che saltano fuori dalle pieghe della storia e che individuano altrettante piste che il lettore potrà divertirsi a seguire, magari con il rischio di approdare lontanissimo da dove era partito.  
C, in ultima analisi è un romanzo sul messaggio e sulla sua interpretazione, sulla ricerca del punto ultimo, quello dove spazio e tempo si fondono, sul tentativo di trovare un senso alla vita, senso che McCarthy, in accordo con la sua appartenenza alla International Necronautical Society, sembra voler individuare nella morte.

Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo né incorporeo;
Né muove da né verso; al punto fermo, là è la danza,
Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,
Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,
Né ascesa né declino. Tranne che per il punto, il punto fermo,
Non ci sarebbe danza, e c'è solo la danza. (T.S. Eliot – Quattro quartetti)

sabato 18 agosto 2018

Tom McCarthy – Déjà-vu



Circoletto rosso

Reminder (questo è il titolo originale dell’opera) come ricordo ma anche come residuo, rimanenza.
Il libro racconta la storia di un uomo colpito da un oggetto non precisato che gli ha provocato la perdita della memoria e che lo ha costretto a reimparare i movimenti, a capire il significato di ogni singolo gesto prima di poterlo, lentamente, mettere in atto. Un risarcimento multimilionario e il déjà-vu di un momento del passato (o forse inesistente) saranno la molla che porterà il protagonista a cercare di rivivere quel momento specifico e più in generale tutti quelli in grado di farlo sentire vivo e sereno inscenando delle rappresentazioni il più accurate possibili. Il risultato sarà però quello di trascinare l’uomo in un gorgo mortale, una coazione a ripetere fatta di continue limature, di gesti rallentati all’infinito alla ricerca di una perfezione impossibile da raggiungere perché l’asticella delle sue ambizioni si alzerà ogni volta di una tacca, rilanciando la sfida a se stesso fino a precipitarlo in un loop senza via d’uscita.

Déjà-vu è un’opera sorprendente, una scatola magica che una volta aperta esplode contenuti, idee e suggestioni in ogni direzione. C’è il tema della memoria, intesa come unico luogo dove l’uomo riesce a essere autentico, ma c’è anche il suo contraltare, quei falsi ricordi che stanno lì a ricordarci quanto la memoria a volte possa essere fallace. Il tema della memoria è inevitabilmente un chiaro richiamo a Proust ma quella che ne fa McCarthy è una rilettura attualizzata perché qui non c’è solo l’interiorizzazione del ricordo ma anche tentativo di portarlo fuori, di inserirlo nelle realtà. C’è poi il tema del denaro, come serpente tentatore che si insinua nelle nostre vite e le cambia. C’è il solipsismo, l’incapacità a vivere con gli altri, l’uso degli altri per perseguire la propria felicità. C’è la ricerca della spontaneità, la consapevolezza che siamo tuti attori che recitano una parte (viviamo per recitare e recitiamo per vivere). Ci sono riflessioni sul tempo che l’uomo cerca di manovrare, manomettere, rallentare per diventarne il dominus, con risultati disastrosi. Ci sono riflessioni sull’arte (con un accenno michelangiolesco allo  sbarazzarsi della materia in eccesso). C’è il tema dell’inganno delle parole, che possono significare altro da quello che sembrano (come reminder), parole che rappresentano un terreno minato perché, analogamente al ricordo, se ripetute all’infinito si trasformano in qualcosa di diverso. E c’è, appunto, l’infinito, simboleggiato dal numero otto che si ripete dall’inizio alla fine del libro, il simbolo della ricerca di assoluto, di una perfezione irraggiungibile che porta l’uomo che tenta di trascendere il limite a precipitare nell’abisso.
Déjà-vu  è un’opera vertiginosa e Tom McCarthy è l’avanguardia. Circoletto rosso su questo nome.

sabato 7 luglio 2018

Tom McCarthy – Satin Island



La Grande Relazione sulla nostra epoca.

Scrivere la Grande Relazione, “il Libro, la Prima e Ultima parola sulla nostra epoca, dare un nome a ciò che succede ora”, questo è il compito affidato a U. (you?) dalla società per cui lavora. Questo è anche l’ambizioso obiettivo che Tom McCarthy affida a Satin Island.
Libro importante, diciamolo sin da subito, di uno scrittore notevolissimo che segnerà gli anni a venire. Un altro di quei libri che escono dal postmoderno per aprire la strada del romanzo verso una direzione che per ora è priva di nome: neo-avanguardismo? post-postmoderno? Difficile dire, anche perché questo autore sembra battere una strada solitaria, un territorio che non è ancora una corrente letteraria. Delillo è il nome che mi viene in mente per fissare un punto di partenza al lavoro di McCarthy, tutto il resto probabilmente verrà con il tempo.
Satin Island  è un romanzo di idee, nel quale i personaggi non hanno spessore e la trama serve solo a veicolare i pensieri del protagonista. Il mondo descritto è quello in cui viviamo adesso, un mondo privo di un centro, costruito intorno a tanti hub, luoghi di transito, nodi reali o virtuali che tengono in connessione persone e idee. Siamo  dalle parti della società liquida baumaniana: bombardati da miliardi di notizie attraversiamo confusi le strade di un’epoca segnata dalla parcellizzazione della realtà. Una a una sono crollate tutte le certezze: la verità è morta, sostituita dall’opinione (più o meno condivisa).
Vita reale e virtuale si confondono in un orizzonte fatto di schermi e di link, di immagini che veicolano concetti contraddittori. McCarthy calca la mano proprio sull’indeterminatezza e sulla contraddittorietà del nostro tempo, presentando nel libro situazioni che si prestano a spiegazioni antitetiche ma che teoricamente potrebbero essere tutte vere. La fuoriuscita di petrolio in mare e la morte di un paracadutista sono notizie, immagini che si aprono a un ventaglio di interpretazioni sconfinato: la realtà è diventata una continua e impossibile interpretazione dei fatti.
È come se di colpo fossero crollati gli steccati che dividevano i concetti. Le definizioni sono diventate labili, discutibili e il disordine regna sovrano.
La sfida che McCarthy propone a se stesso con questo libro è titanica: raccontare la confusione della nostra epoca dal di dentro è come provare a cavalcare le onde del Pacifico sulla tavola di un bambino. Gli strumenti a disposizione sono inadeguati, la situazione muta ad ogni istante e soprattutto non conosciamo la direzione del nostro viaggio, costretti ad aggrapparci a un generico concetto di futuro in assenza di altri riferimenti validi. Impresa disperata, eppure McCarthy non cade, dimostrando di cavarsela più che bene in mare aperto. Non cade anche perché ha coscienza dei suoi limiti. È consapevole di trovarsi in una specie di loop: analizzare i meccanismi della società vuol dire analizzare anche se stessi, sapendo di essere soggetti alle stesse regole che condizionano gli altri, per questo non va alla ricerca di improbabili uscite di sicurezza ma concentra la sua ricerca sul tentativo di capire quello che sta accadendo. A questo proposito mi sembra perfettamente calzante la sua provocazione a proposito della Torre di Babele: “quello che conta davvero non è il tentativo di raggiungere il cielo, o di parlare la lingua di Dio. […]Questa torre diventa interessante solo quando ha fallito il compito che si era assegnata. Il suo valore sta nella sua inutilità. La sua inutilità la rende operativa: come simbolo, cifra, sprone all’immaginazione, alla produttività. La prima mossa per qualsiasi strategia di produzione culturale deve essere liberare le cose – gli oggetti, le situazioni, i sistemi – permettendo loro di essere inutili.”
Essere dentro alla realtà che si vuole raccontare significa allora che la Grande Relazione consiste più nel vivere le cose che nel raccontarle, questa è l’epifania di U. alla ricerca di una forma per dare voce alla sua ricerca: “ E se il solo fatto di coesistere con quegli oggetti e quella persona, a lasciare che i miei bordi di sciogliessero tra loro, occupando quel momento, o più precisamente permettendogli di occupare me, di asciugarmi e assorbirmi, invece di trattarli come dati da inserire per una valutazione futura… E se tutto questo, forse, facesse parte della Grande Relazione? E se la Relazione in qualche modo, chissà come, si potesse vivere, o essere, invece che scrivere? […] Mi sembrava che davanti a me si spalancasse sfolgorante un nuovo campo, un  nuovo regno, tutto un nuovo Ordine di esperienza antropologica, i cui pezzi scintillavano e ballavano all’impazzata mentre cominciavano a prendere posizione all’interno di quello che un giorno, sospettavo, si sarebbe potuto rivelare uno schema stabile e logico. Nella mia fantasticheria vedevo un futuro nel quale gli etnografi non scrutavano più nelle viscere morte degli eventi nella speranza di ridurre ai concetti di base il significato dei propri gesti, e si collocavano invece dentro gli accadimenti e le situazioni mentre si svolgevano – in modo innocente, avventato  soprattutto in diretta – e la loro “partecipazione dall’interno” trasformava la vita, portando in primo piano la sua vera essenza in ogni istante, nell’istante, non come sapere futuro ma come istante in quanto tale, che, come un baccello che matura, travalica i propri confini e si apre, generando senso, disseminandolo in ogni angolo della terra… Allora la Grande Relazione non sarebbe stata più qualcosa di prossimo venturo o di portato a termine, passato: sarebbe stata tutta nel qui e ora. Antropologia del tempo presente; antropologia come stile di vita. Trovato: Antropologia del Tempo Presente®; un’antropologia che s’immergeva nella presenza e nella contemporaneità: vi si immergeva come in una sorgente profonda, spumeggiante e colma di ninfe.”

sabato 8 agosto 2015

Ian McEwan – Espiazione



It's not my cup of tea

L’alta ombra fresca del bosco le fu di sollievo, l’intrico scultoreo dei tronchi le parve incantevole. Superato il cancelletto di ferro, e la siepe di rododendri, attraversò il prato aperto - venduto a un allevatore locale come terra da pascolo - per risalire alle spalle della fontana con il suo muro di sostegno e la riproduzione in scala del Tritone del Bernini il cui originale era a Roma in piazza Barberini. La figura muscolosa, accomodata sulla conchiglia, riusciva a schizzare un getto alto pochi centimetri appena, la pressione era troppo bassa, e l’acqua ricadeva sulla testa della statua, colando sulla chioma di pietra e lungo il solco della possente spina dorsale su cui lasciava una lucida chiazza verde scuro. In questo ostile clima settentrionale, il Tritone era molto lontano da Roma, ma rimaneva bellissimo nella luce chiara del mattino, come del resto erano belli i quattro delfini che sostenevano la conca lambita dai flutti su cui riposava. Cecilia osservò le improbabili scaglie sul dorso dei delfini e sulle cosce del Tritone, prima di volgersi verso la casa.”

Ecco cosa intendo. Una scrittura lenta, ampollosa, pesante e manierata. Periodi lunghi, descrizioni particolareggiate ed eccessive che per quanto possano essere eleganti e raffinate non mi invogliano nemmeno un po'. Esagero? Vedete un po' voi:

Entrò, attraversò di fretta l’ingresso a piastrelle bianche e nere - com’era familiare il suono dei suoi passi, com'era irritante - e fece una sosta per prendere fiato sulla soglia del salone. Gocciolandole acqua fredda sui piedi calzati di sandali, il mazzo sparso di epilobi e iris le restituì uno stato d’animo un poco più allegro. Il vaso che stava cercando era su un tavolo in ciliegio accanto alla porta finestra socchiusa. A causa dell’esposizione a sud-est della stanza, alcuni parallelogrammi dorati di luce mattutina avanzavano sul tappeto blu polvere. Il respiro di Cecilia si fece più calmo mentre aumentava il suo desiderio di una sigaretta. Esitò un istante sulla porta, momentaneamente immobilizzata dalla perfezione della scena, e restò lì, accanto ai tre divani sbiaditi disposti intorno al camino gotico quasi nuovo con la sua riserva di falaschi invernali, vicino al clavicembalo stonato che nessuno suonava e agli inutili leggii in palissandro, ai tendoni in velluto, morbidamente raccolti da un cordone intrecciato arancio e blu, a incorniciare un cielo vuoto di nuvole e la terrazza a chiazze gialle e grigie tra le cui lastre di pietra crescevano camomilla e partenio.”

Ok, la smetto. È che tutto questo grondare di aggettivi, l'attenzione maniacale ai dettagli unita a un evidente sfoggio di erudizione, sanno un po' troppo di narcisismo, di auto-compiacimento. Ed è un peccato.
Perché il mestiere c'è e si vede tutto: i personaggi sono tratteggiati attraverso i loro comportamenti, ognuno è ben caratterizzato sin da subito. È interessante, ad esempio, come la piccola Briony osservi quello che succede intorno a lei e lo interpreti (fraintendendo spesso) attraverso le lenti del suo ricchissimo mondo interiore, preparando il terreno per quello che sarà il dramma successivo. Purtroppo l'eccessivo controllo dell'azione e il continuo lavoro di cesello dell'autore saranno magari utili a produrre pagine godibili di bello stile, ma tolgono – a mio avviso – emotività al racconto, che finisce per essere molto “cerebrale”, frenato, povero di passione, per cui fatico a provare empatia per i protagonisti della storia.
Mi sembra di notare anche una certa discontinuità nel ritmo della narrazione: ad una prima parte che si presenta – come detto – lenta e descrittiva, ne segue una seconda sorprendentemente scorrevole e avvincente (quella che racconta le vicende di guerra), ad essa però ne segue una terza che inizia con una stucchevole descrizione della vita di Briony come infermiera e poi si riaccende improvvisamente con un finale che chiude (anche troppo rapidamente) tutte le parentesi che erano rimaste aperte.
Peccato, perché anche la conclusione presenta un mescolarsi di narrazione e metanarrazione che è idea attuale e indubbiamente interessante ma purtroppo è al servizio di una trama che non mi ha convinto più di tanto.
Peccato, perché il tema dei rischi del "narrativismo" (se questa era l'intenzione dell'autore) è attualissimo e stimolante e probabilmente avrebbe meritato uno sviluppo più articolato.