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domenica 25 settembre 2022

Amras – Thomas Bernhard

 


Amras è la periferia della cittadina che ospita la torre nella quale albergano due fratelli sopravvissuti al tentato suicidio del loro nucleo familiare, concluso con la morte dei genitori. Torre come rifugio e come metafora, luogo nel quale i due riflettono sulla vita, ognuno partendo dal proprio punto di vista: Walter da quello dell'artista e l'altro fratello, la voce narrante, da quello dell'uomo di scienza.
I pensieri a cui da voce Bernhard nascono dal buio di un'introspezione attorcigliata su se stessa in maniera patologica; influenzati ed esasperati dalla malattia della madre e dai problemi economici del padre, non contemplano ipotesi di speranza o di salvezza. L'infanzia perduta, la vita vista come un processo di marcescenza che culmina con la morte, l'educazione scolastica che si incarica di distruggere la ricerca di una comunione con la natura verso la quale i due fratelli vorrebbero tendere… Non c'è spazio fuori da sé e l'uomo è costretto a rifugiarsi in se stesso, a vivere all'interno per l'incapacità e impossibilità di comunicare con il mondo, finendo per camminare in un territorio molto vicino alla follia, dove realtà e immaginazione si confondono.
"Siamo stati, già molto presto, respinti da tutto, in cerca di riparo, tutta la vita sempre solo rinchiusi nel nostro ilozoismo."
Famiglia, società, rapporto dell'uomo con la natura… pur essendo questo solo il secondo romanzo di Bernhard, i temi sono già quelli che ne caratterizzeranno la produzione successiva, mentre lo stile è caratterizzato da una prosa "nervosa", con lettere e frammenti che intervallano la narrazione e ben interpretano l'idea di un'anima in frantumi, una scrittura ancora lontana da quella "ossessiva", contorta, fatta di frasi lunghe e ripetizioni continue che rappresenta il marchio di fabbrica dello scrittore austriaco.

domenica 25 maggio 2014

Thomas Bernhard - Estinzione


Ciak, si spara.
J'accuse bernhardiano contro tutto e tutti. 
Un libro che parla di morte e dell'incapacità (impossibilità?) di accettare lo status quo. Una lettura a tratti faticosa, un monologo torrenziale dove il protagonista, Franz Josef Murau/Thomas Bernhard, con una prosa a tratti ossessiva, fatta di reiterazioni continue quasi fosse lingua parlata, lancia i suoi strali di volta in volta contro la famiglia, l'Austria, la Chiesa, il nazionalsocialismo (ma anche il socialismo per come è stato applicato) e in genere contro tutto quello che gli capita a tiro (ce n'è anche per Goethe e la fotografia intesa come mistificazione della realtà). Il tutto per la volontà di affrancarsi da un mondo che il protagonista rifiuta ma dal quale si sente contagiato, per estinguere quello che è stato, le radici e i valori sui cui si fonda la società e nei quali non si riconosce. 
 C'è pochissima azione in questo romanzo, quasi tutto quello che succede avviene “dentro” a Josef Franz. Le sue invettive, i suoi giudizi su persone e istituzioni, non sfociano in conflitto aperto ma rimangono compressi all'interno del suo animo come se anche lui fosse, in fondo, schiacciato dal mondo di convenzioni che vuole distruggere (emblematiche, a questo proposito, le pagine nelle quali corre a spalancare le finestre della dimora di Wolfsegg per lasciare entrare l'aria e la luce e quelli in cui apre le porte delle biblioteche di casa per togliere la polvere ai libri, per farli vivere. Almeno loro). 
 Non condividendo gli ideali dei genitori e della società austriaca, Josef Franz prova a costruirsi una vita a Roma, lontano dall'ambiente familiare, ma le morti dei genitori e del fratello lo riporteranno a Wolfsegg, quasi a testimoniare che non è possibile estinguere il proprio passato semplicemente allontanandosi. 
 Non si può fuggire, per estinguere è necessario tornare e fare i conti con le proprie radici in maniera definitiva. 
 Non si tratterà di un'estinzione indolore, perché Murau/Bernhard è cosciente di essere stato contagiato dall'ambiente e dagli ideali che vuole combattere e sa perfettamente che la strada che ha deciso di percorrere è senza uscita. Non è possibile liberarsi da un mondo di cui si fa parte, distruggere tutto vuol dire distruggere anche se stessi, un vicolo cieco per una conclusione quasi musiliana: pensare significa fallire, agire significa fallire. 

Trovo Bernhard spiazzante, eccessivo. Non si ferma davanti a niente e a nessuno, non fa sconti ne concessioni e intinge la penna nel veleno non tanto per il gusto di provocare quanto per il bisogno di dire quello che sente. 
 Aggiungerei che a me Bernhard non fa ridere per niente (come invece ha scritto J. Marias sostenendo che trovava le sue invettive “irresistibilmente e intenzionalmente divertenti”), magari è vero che la tragedia sfocia a volte nel grottesco, ma da qui a ridere...