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domenica 27 ottobre 2024

Clarice Lispector – La città assediata



Clarice Lispector – La città assediata
(trad. Roberto Francavilla, Elena Manzato)
Adelphi (I ed. 1949)


Ancora un libro di Clarice Lispector. Ancora una lettura difficile e importante, seppure dalla trama assai esile. La storia di Lucrécia, una ragazza priva di ingegno che negli anni Venti del Novecento vive a São Geraldo, un sobborgo immaginario, guardando con occhio obliquo la vita e il mondo attorno a sé e sognando un matrimonio che la porti via da lì per raggiungere la grande città. Lucrécia realizzerà il suo progetto, ma solo per un breve tempo. Un viaggio di andata e ritorno, che la riporterà da dove è partita, al suo luogo di osservazione su una periferia che si sta trasformando.
Tutto qui. Un romanzo modernista per temi e scrittura (l'urbanizzazione, la storia d'amore, la ricerca di nuove forme di espressione, il focus sulla soggettività e le modalità percettive…) che fa da cornice alle riflessioni dell'autrice, capaci – come sempre succede nelle opere di Lispector – di disorientare e insieme incuriosire il lettore, condotto per mano sul ciglio dell'abisso senza però riuscire a vedere cosa c'è sul fondo.
Romanzo difficile e importante, si diceva, perché getta le basi di una "teoria della conoscenza" che qui appare ancora frammentaria per non dire contraddittoria, che verrà affinata nei romanzi successivi fino al suo completo (e vertiginoso) raggiungimento nella Passione secondo G.H. Teoria della conoscenza come strumento che la scrittrice brasiliana utilizzerà poi per scandagliare le profondità dell'anima e nell'indagine sull'istante e sul linguaggio, temi che costituiscono il centro della sua ricerca letteraria.
Tornando a La città assediata, la scelta di una protagonista che non brilla per capacità intellettive, è finalizzata a ridurre l'importanza della ragione nel suo modo di approcciarsi al mondo, facendo sì che privilegi una conoscenza istintiva, che passa attraverso lo sguardo (non a caso ricorre spesso il paragone tra la protagonista e il cavallo). È come se l'autrice cercasse di eliminare nella sua ricerca tutti i rumori di fondo, le riflessioni, i ragionamenti, i fili logici che rischierebbero di attorcigliare il gomitolo che cerca di sbrigliare, di rendere torbida quell'acqua che vorrebbe fosse cristallina.
Reale, per Lucrécia è ciò che vede e vedere è il modo di dare forma alla realtà ("in lei e in un cavallo l'impressione era l'espressione"), imitare le cose è l'unico modo per conoscerle ma la difficoltà è proprio penetrare la vera natura delle cose, la stessa difficoltà del pittore che dipingendo un oggetto deve riuscire a riprodurne l'essenza. "La cosa veramente fondamentale era non comprendere. Nemmeno la propria gioia," Sì, perché l''atto del comprendere implica un passaggio in più, un ruolo attivo del soggetto che applica la sua immaginazione all'oggetto finendo per trasformarlo in qualcosa di diverso da quello che è: "la sua paura era di andar oltre ciò che vedeva", la paura di pensare perché "pensare sarebbe stato soltanto inventare".

sabato 6 giugno 2020

Tutti i racconti – Clarice Lispector



"La coerenza non la voglio più. Coerenza vuol dire mutilazione."

Il mio scrittore preferito è brasiliano ma è nato in Ucraina.
Il mio scrittore preferito è una scrittrice.
Il mio scrittore preferito è Clarice Lispector.

Scrive sempre la stessa storia, una storia di solitudine, un'introspezione letteraria sempre nuova e sempre uguale,  una discesa nelle profondità dell'Io. È un percorso tra zolfo e incenso, un furioso attorcigliarsi alla ricerca della natura dell'uomo e delle cose. Un viaggio affascinante eppure impossibile, perché destinato ad arrestarsi sulla soglia della conoscenza.
Clarice Lispector è una scrittrice cerebrale. Il suo ambito di ricerca è limitato, limitatissimo: parte dall'oggetto e si ferma al pensiero dell'oggetto. Alla parola spetterà poi il compito di tradurre quel pensiero ma Lispector si ferma allo stadio precedente, a quello che avviene dentro alla persona, a quel calderone nel quale si agitano idee, sentimenti, esperienze contrastanti e che poi, solo poi, si esprimeranno in qualche modo. È in quel calderone che Lispector ha scelto di gettarsi, novello Ulisse che decide di imbarcarsi in un'impresa irrealizzabile ma alla quale non sa sottrarsi.
E così, anche questi racconti non fanno altro che inserirsi nella scia delle altre opere della grande scrittrice brasiliana. Non tutti, ovviamente, sono di pari valore, spesso globalmente rimangono al disotto del livello eccelso dei romanzi, anche perché il limite imposto dalla forma racconto impedisce loro quell'approfondimento esasperato che è il marchio di fabbrica di Clarice Lispector. Nonostante ciò, immergersi nel mare della sua prosa rimane per me un'esperienza unica, che ogni volta mi confonde e mi inebria perché mi stimola ad arrampicarmi sugli stessi specchi, a seguirla su un terreno che sembra crollare ad ogni passo.
Parliamo, di nuovo, di un viaggio, di una discesa degli abissi dell' anima:
"Adesso so tutto su coloro che cercano di sentire per sapere che sono vivi. – scrive in Ossessione – Intrapresi anch'io questo viaggio pericoloso, così povero per la nostra terribile ansia. E quasi sempre deludente. Imparai a far vibrare la mia anima e so che, mentre ciò accade, nel più profondo del proprio essere si può restare vigili e freddi, appena a osservare lo spettacolo che abbiamo creato per noi stessi."
Per aggiungere più avanti:
"avevano risvegliato in me la sensazione che nel mio corpo e nel mio spirito palpitasse una vita più profonda e più intensa di quella che vivevo.".
Si scende sempre più giù, alla ricerca della natura più vera, alla ricerca di un assoluto inconoscibile eppure irrinunciabile.
"Lui mi aveva permesso di intravedere il sublime e aveva imposto che anch'io mi bruciassi nel fuoco sacro".
E siamo solo a pagina 30 di oltre 500…

Il cammino che intraprendono i personaggi di questi racconti è un percorso iniziatico irto di ostacoli. Devono saper schivare le passioni e contemporaneamente non fare troppo affidamento sulla razionalità, recuperare la parte più istintuale del loro essere e continuare a cercare senza mai arrendersi, spogliandosi delle false convinzioni e delle verità transitorie di cui si sono vestiti durante il percorso, consapevoli che la strada deve essere percorsa da soli e che anche le parole non sono in grado di aiutarli in questa impresa.
Un cammino impervio, lungo il quale, prima o poi, tutti i personaggi finiscono per arrestarsi. Perché è difficile accettare la solitudine, perché i sentimenti, l'amore, l'odio, la sofferenza, il possesso…li portano fuori strada, perché credono di essere arrivati quando invece sono ancora lontani dalla meta, perché si accontentano di un succedaneo di verità e non vogliono o non sanno andare più in profondità.
Un cammino che è un lento apprendistato nel quale la conquista della consapevolezza è solo una tappa, per quanto importante, lungo il percorso di avvicinamento all'essenza delle cose, un viaggio nel quale non sempre realtà fa rima con verità e la verità e sempre un po' più in là di dove la cerchiamo, nascosta nel cuore delle cose, un cuore al quale ci si può avvicinare solo spogliandosi degli strumenti tradizionali che usiamo per arrivare alla conoscenza. "Era solo bravo a 'comprendere'. – dice Angela Pralini ne La partenza del treno – Quella sua intelligenza che la affogava". E ancora: "Ad Angela Pralini venivano pensieri talmente profondi che non c'erano parole per esprimerli. Non era vero che si poteva formulare solo un pensiero alla volta: a lei ne venivano molti che si incrociavano l'uno con l'altro ed erano vari. Per non parlare dell' 'inconscio' che esplode dentro di me, che tu lo voglia o meno." E prosegue: "La coerenza non la voglio più. Coerenza vuol dire mutilazione. Voglio il disordine. Riesco a intuire solo attraverso una veemente incoerenza. Per meditare mi sono prima distolta da me stessa, e allora percepisco il vuoto. È nel vuoto che passa il tempo."

sabato 15 giugno 2019

Clarice Lispector – Un soffio di vita


C'è un libro in ognuno di noi.

Un soffio di vita è un testo postumo di Clarice Lispector e raccoglie le carte che la grande scrittrice non fece in tempo a ordinare e pubblicare in vita. Non rappresenta però un malinconico canto del cigno quanto piuttosto un vero e proprio "grido di un uccello rapace", e non poteva essere altrimenti considerando la personalità forte dell'autrice che in queste pagine spinge così in profondità la riflessione al punto di attorcigliarsi su se stessa in un vorticoso corpo a corpo con la scrittura - spesso contraddittorio  - che non guarda mai al lettore e che si muove in equilibrio precario sul bordo sottile dell'illeggibile, sconfinando volentieri oltre questo limite  («senza inizio né fine, sono il punto prima dello zero e del punto finale. Dallo zero all'infinito camminerò senza fermarmi. Dallo zero all'infinito camminerò senza fermarmi. Ma allo stesso tempo tutto è così passeggero. Io sono sempre esistito e di colpo non ero più. Il giorno là fuori scorre a caso e ci sono abissi di silenzio in me.»).
Qui si parla di eternità, di un tempo che non esiste, di immanenza, di un eterno presente, ma anche di un altro punto fermo della produzione letteraria della Lispector: il rapporto tra parole e scrittura («sono uno scrittore che teme le trappole delle parole: le parole che dico ne celano altre – quali sono? Forse le dirò. Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo.»). Si parla di scrittura salvifica e della creazione di un doppio (Ângela Pralini) che dovrebbe aiutare lo scrittore protagonista del libro nella ricerca del senso della vita, attraverso un botta e risposta nel quale lui e il suo alter ego sembrano non tanto dialogare quanto seguire ognuno il corso dei suoi pensieri.
Così, in un gioco di specchi meta-letterario, succede che Ângela sia la creazione del protagonista a sua volta creazione dell'autrice, Ângela che rappresenta tutto ciò che lo scrittore avrebbe voluto essere, «l'evoluzione di un sentimento», qualcosa che da interiore si è esteriorizzato fino a oltrepassare la volontà dell'autore e sostanziarsi in qualcosa d'altro pur rimanendo inconsapevole di se stessa, della sua identità. Ângela è il tentativo dello scrittore di vincere le regole del tempo per innalzarsi fino all'immortalità in una tensione continua tra l'essere e il divenire, nell'aspirazione di riuscire a fondere attraverso la parola corpo e anima in un unicum inteso non come qualcosa di statico ma come movimento, equilibrio incerto su un filo teso a cento metri da terra.
Per Clarice Lispector l'esistenza stessa è una tensione continua, voglia di trascendere, rilanciare, andare oltre e al tempo stesso un alternarsi di sogno e coscienza, una selva intricata che la grande scrittrice attraversa usando come guida non la logica ma l'istinto, aspirando al raggiungimento di un nulla che rappresenta una sorta di «stato di Grazia», il distacco dalle cose del mondo per accedere ad una dimensione diversa.
La parola rappresenta per l'autrice brasiliana il fine e il mezzo, lo strumento al quale si è affidata nel corso di tutta la sua ricerca e che al tempo stesso non ha mai smesso di temprare, cercando di adattarlo ai suoi scopi con una dedizione così costante a punto da attribuire alla parola un ruolo quasi mistico. Scrivere, per Clarice Lispector, è la risposta al bisogno di ordinare il suo caos interiore e contemporaneamente il suo modo di stare al mondo.
Un soffio di vita è un libro frammentario che nella terza parte, il libro di Ângela, procede a strappi, spostando l'attenzione a quel mondo delle cose che Ângela cerca di cogliere nella loro essenza, nel loro aspetto immateriale, convinta che esse contengano al loro interno un progetto in grado di proiettarle in una dimensione onirica («Il procedimento di Ângela, quando scrive, è lo stesso di quando si sogna: si vanno formando immagini, colori, atti e soprattutto un'atmosfera di sogno che sembra un colore e non una parola. Lei non sa spiegarsi. L'unica cosa che sa è fare, fare senza capire.»).
Il senso di questa ricerca è la stessa autrice a rivelarlo: comprendere se stessa per chiudere il cerchio per arrivare così all'assoluto. Impresa non facile se ti chiami Lispector: la sua è una sfida continua ad amplificare la propria coscienza, ad alzare costantemente l'asticella delle sue aspirazioni, un viaggio periglioso alle fonti dell'Io, verso un abisso interiore «attraverso il quale, fantasmagorica, comunico con Dio.»

Un soffio di vita è un libro particolare, che non guarda minimamente al lettore, un'opera che mi sento di consigliare solo ai pochi devoti di stretto rito lispectoriano.

domenica 21 aprile 2019

Clarice Lispector – Il segreto



 "e le sembrava inoltre di essere arrivata al limite di se stessa, là dove gioia, innocenza e morte si confondevano."

Secondo romanzo di Clarice Lispector, Il segreto segue di un paio d'anni Vicino al cuore selvaggio, e per certi aspetti ne continua la ricerca interiore che caratterizza del resto tutta la produzione letteraria della scrittrice brasiliana.
La trama di per sé è sottile ma l'opera è importante e ricca di spunti: romanzo di formazione, dramma psicologico e flusso di coscienza in puro stile tardo-modernista. Lispector scava nella personalità di Virginia: prima adolescente che vive di passioni, di devozione verso il fratello Daniel e che soprattutto si nutre di istanti, di ognuno dei quali cerca di arrivare al nucleo per succhiarne il nettare e poi ragazza che non sa (non vuole) liberarsi della sua parte infantile.
Virginia è consapevole di una diversità che la condanna alla solitudine ma è troppo attratta dalla sua interiorità per curarsi di quello che accade fuori da lei. Basta una vertigine, uno svenimento, o una specie di auto-ipnosi a sprofondarla dentro a se stessa, a proiettarla in quel mondo "ignoto e folle" del quale non sa fare a meno. E una volta sprofondata negli abissi della coscienza Virginia non sa più uscirne ("sì, sì, per poter esistere lei aveva bisogno di una vita segreta"), o meglio, quello a cui aspira è una coscienza "espansa", che attraverso il sogno le faccia superare i limiti della natura umana.
Nella geografia del suo mondo la realtà diventa menzogna, finzione che nasconde la verità e le parole strumenti inutili i quali lei preferisce le sensazioni. Vivere diventa così un gioco d'equilibrio "orribile e irrimediabile", una passeggiata sul filo che non può concludersi che con la caduta di Virginia.

mercoledì 4 ottobre 2017

Clarice Lispector - Le passioni e i legami


Viaggio intorno alla coscienza del sé.
 
Perché leggo? Per il piacere di vivere altre vite oltre la mia, certo. Ma soprattutto perché ogni volta che apro un libro spero di imbattermi in opere come questa e in scrittrici come Clarice Lispector.
Un autore che ha focalizzato l’attenzione sempre lo steso tema, sul quale non si è mai stancata di riflettere per tutto il corso della sua opera letteraria, fino a farne una vera e propria ossessione. Parlo dell’esplorazione del sé, del viaggio negli abissi della coscienza, ossessione che la accomuna ad altri scrittori di razza. Dostoevskij, per dirne uno, vi si dedica scavando nella psicologia dei personaggi, mettendone a nudo le contraddizioni, illuminandone le zone d’ombra, Thomas Bernhard, per dirne un altro, lo fa utilizzando il bisturi della ragione. Lispector invece decide di percorrere un’altra strada, costruendosi da sola l’equipaggiamento con i quali affrontare la sua ossessione.
È il linguaggio la corda alla quale la scrittrice brasiliana si aggrappa nella sua discesa nelle profondità dell’anima, un attrezzo della pericolosità del quale è perfettamente consapevole, uno strumento imprescindibile ma che necessita di essere modellato e rimodulato in continuazione perché spesso inadeguato e quasi sempre contraddittorio. Uno strumento con il quale Lispector imbastisce un furioso corpo a corpo che inizia nel 1943 con Vicino al cuore selvaggio e termina solo trent’anni dopo con Acqua viva. 
Se una “personalizzazione” del linguaggio è il mezzo che la scrittrice utilizza nel suo percorso letterario, la scoperta dell’uomo è, come detto, il fine della sua ricerca. Una scoperta che passa attraverso il tentativo di svincolarsi dalla ragione per arrivare a una conoscenza affidata all’istinto (La mela nel buio), alla sensibilità (La passione secondo G.H.) o alla consapevolezza (Un apprendistato o il libro dei piaceri). È un percorso tortuoso, che ognuno dei personaggi dei libri citati deve costruirsi in maniera personale, adattandolo alla propria situazione. Un percorso alla fine del quale non c’è mai una comprensione assoluta, ma la conoscenza dell’istante, perché quello a cui aspira la scrittrice è arrivare ad afferrare l’armonia del momento.
Per Martim, il protagonista di La mela nel buio, il viaggio alle radici del sé è una specie di fuga catartica a seguito di un delitto, una fuga dagli altri e da ciò che lui era in precedenza (il suo vecchio sé), un percorso interiore accidentato e farraginoso durante il quale l’uomo prova a spogliarsi dalle sovrastrutture della ragione per affidarsi ad una conoscenza istintuale. Il suo scopo è quello di arrivare ad una salvezza verso la quale si sente diretto ma che non riesce a mettere a fuoco compiutamente finendo per essere schiacciato dalla realtà che manderà in frantumi il suo tentativo di costruirsi una coscienza.
Il viaggio della protagonista de La passione secondo G.H. è un lungo monologo in forma di dialogo con un “lui” mutevole, rappresentato dalla mano che accompagna G.H. nella sua discesa negli inferi dell’anima. È un viaggio più “strutturato” rispetto a quello di Martim, ma con tappe comuni: anche qui il primo passo è rappresentato dallo spogliarsi delle convenzioni per andare a vedere cosa si nasconde dietro la patina con la quale avvolgiamo cose, persone e sentimenti, anche qui si abbandona l’ordine della ragione per privilegiare gli strumenti dell’istinto e arrivare al nocciolo, al neutro, all’inespressivo, all’indicibile. La differenza tra Martim e G.H. è che in questo caso il viaggio assume i contorni di un percorso iniziatico verso Dio, un viaggio vertiginoso e quasi mistico che però si arresta sulla soglia della conoscenza piena, completa, perché “il nodo vitale di una cosa non lo si tocca mai”. Qui perà non c’è però fallimento, come nel caso di Martim, perché G.H. ha visto e quindi sa, ha acquisito una consapevolezza con la quale può far ritorno nel mondo, più forte di quando era partita.
Il viaggio di Lori, protagonista de Un apprendistato o il libro dei piaceri, è il viaggio di una ragazza che cerca di capire chi è e cosa vuole, al di là delle maschere che ha indossato fino a quel momento. Un viaggio fra simboli e metafore (l’amante Ulisse, il mare, l’acqua…) che guarda all’anima ma anche al corpo, che cerca di liberarsi dal dolore consolatorio per imparare l’allegria, un viaggio nelle profondità dell’animo ma finalizzato ad aprirsi all’altro, a dare e ricevere, un viaggio verso la libertà, verso la realizzazione di Lori come persona.

Entrare nel mondo di Clarice Lispector non è un processo semplice, il passaggio è stretto, la via angusta, eppure si tratta di un’impresa stimolante, che premia il lettore. Lispector è una di quelle scrittrici con le quali accade la magia di trovarsi, nel bel mezzo della lettura, dall’altra parte dello specchio. Non dentro la trama, ma dentro l’autrice. Si sente (o si crede di sentire) come lei sentiva. Non è scoperta, ma riconoscimento e vedere sulla pagina magicamente descritte a parole sensazioni che dentro di noi vivevano ma solo a un livello indefinito ci fa sentire meno soli.

domenica 28 maggio 2017

Lalande

da piccola era capace di giocare un pomeriggio intero con una parola. Lui le chiedeva allora di inventarne di nuove. E lei non l’aveva mai desiderato tanto come in quei momenti. «Dimmi di nuovo cos’è Lalande» implorò lui. «È come lacrime d’angelo. Sai cosa sono le lacrime d’angelo? Come dei piccoli narcisi, che la minima brezza fa inclinare da una parte all’altra. Lalande è anche il mare all’alba, quando non un solo sguardo ha ancora sfiorato la spiaggia, quando il sole non è ancora nato. Ogni volta che dirò Lalande, dovrai sentire la brezza fresca e salata del mare, dovrai camminare lungo la spiaggia ancora buia, lentamente, nudo. Fra poco sentirai Lalande...

[Clarice Lispector: "Vicino al cuore selvaggio"]

domenica 2 aprile 2017

Clarice Lispector - Acqua viva




A caccia di farfalle con il retino bucato

Un libro coraggioso. Un monologo in forma di lettera nel quale Lispector sceglie la strada rischiosa del flusso di coscienza camminando sul ciglio dell’illeggibilità: poca trama, pensieri espressi in frasi brevi e a volte disordinate, ad indicarne la frammentarietà.
Parafrasando l’epigrafe, una citazione di Seuphor relativa alla pittura, si può dire che scopo del libro è indagare i misteri della parola, di una scrittura “totalmente libera dalla dipendenza della figura – l’oggetto –, che, come la musica, non illustra nessuna cosa, non racconta una storia e non inaugura un mito.” […] “si accontenta di evocare i regni incomunicabili dello spirito, dove il sogno diventa pensiero, dove il tratto diventa esistenza.”
Se non bastasse, Lispector chiarisce sin dalle prime pagine che quella che attende il lettore è una lettura “estrema”: “sto provando a cogliere la quarta dimensione dell’istante-adesso che da quanto è fuggevole già non è più perché si è appena trasformato in un nuovo istante-adesso che neppure lui è più. Ogni cosa ha un istante in cui è. Voglio impossessarmi dell’è della cosa. Quegli istanti che passano nell’aria che respiro: fuochi d’artificio che esplodono muti nello spazio.” Come a dire: astenersi amanti dell’intreccio, cultori della bella trama, appassionati della logica, qui siamo in un altro campo dove si rincorrono idee che non sappiamo dove ci porteranno, qui si va a caccia di farfalle con il retino bucato.
Il cogliere l’istante di cui parla l’autrice non è tanto rivolto al carpe diem, quanto ad indagare le potenzialità della parola, il suo potere evocativo. Non interessa il significato della frase ma il sommerso, quello che essa è in grado di suscitare.
L’istante è irripetibile e può essere solo vissuto o mostrato, non spiegato. L’istante e soprattutto il suo fluire, quel momento magico che segna un passaggio tra un prima e un dopo, quell’attimo fantastico sospeso in volo tra due certezze, una vibrazione, un momento in cui si avverte come un brivido il pulsare della natura.
Acqua viva è un esercizio di equilibrismo, un camminare in bilico sull’orlo del precipizio: da una parte c’è la realtà, con la sua logica rassicurante, dall’altra la fantasia con il fascino delle regole sovvertite. Indagare le potenzialità della parola, si è detto, rinunciare all’ordine, alla verità, per addentrarsi in un territorio sconosciuto, dove non esistono vincoli. Ogni parola diventa allora un passo nell’ignoto, padrona di se stessa, libera di creare, viaggio verso territori nuovi ma anche all’interno di se stessi.
Acqua viva è parola che si fa pittura e anche musica, per il potere evocativo che Lispector le conferisce nell’aspirazione a penetrare la natura delle cose, a riunire in un unicum armonia e disarmonia, sogno e realtà, immanente e transitorio, desiderio certo irrealizzabile ma che l’Arte non può fare a meno di inseguire.

domenica 1 maggio 2016

Clarice Lispector – Legami familiari





“Il suo era l’apprendistato della pazienza, il voto dell’attesa. Dal quale forse non avrebbe più saputo liberarsi”
Ho faticato un po’ ad entrare in sintonia con i racconti della Lispector. La narrazione in terza persona, i periodi brevi che si limitano a descrivere comportamenti, gesti, parole e soprattutto la costruzione paratattica che trasporta gli avvenimenti in un eterno presente dominato da un’atmosfera di attesa e sospensione, mi attiravano sempre più dentro alla storia, sempre più avanti nella trama e contemporaneamente mi davano l’impressione che mi stessi perdendo qualcosa.
Perché c’è sempre qualcosa che si è perso, che si è rotto, nei personaggi della Lispector, qualcosa da cui discende tutto il resto.
Una raccolta che esplora - come detto nel titolo - l’universo della famiglia, le persone per quello che sono e per come interagiscono (o non interagiscono) tra loro. Mi viene in mente Felici i Felici, di Yasmina Reza: le due autrici affrontano pressappoco lo stesso argomento a cinquant’anni di distanza, anche se con una scrittura decisamente diversa, più compassionevole l’occhio della franco-iraniana,  decisamente più “crudo” il punto di vista della scrittrice (ucraino-)brasiliana.
Clarice Lispector osserva le dinamiche familiari, vite in bilico,  e ce le restituisce senza ammorbidirle, senza provare a smussare gli angoli. Questa è la vita, – sembra volerci dire – questi siamo noi. Specchiamoci e riflettiamo su quello che i nostri occhi vedono. Nessuna indulgenza, nessuna assoluzione. Solo la nuda descrizione di quello che i personaggi  provano.
È un vivere difficile, quello che si racconta nelle pagine di Legami familiari, un vivere al quale non si può sfuggire, ma solo cercare di interpretare sforzandosi di farsi meno male possibile, agendo con circospezione, stando perennemente sulla difensiva.
I personaggi della Lispector vivono soprattutto dentro se stessi, consapevoli che uscire dal guscio che si sono costruiti può rappresentare un rischio del quale non sanno calcolare la portata, accompagnati dalle “meschinità di una vita intima fatta di precauzioni”.
Sono racconti che comunicano un senso di qualcosa che incombe, che rischia di succedere da un momento all’altro. Quello che vediamo è un mare nero, con le acque ferme, ma sotto intuiamo che c’è un agitarsi di correnti, un turbinio di emozioni e sentimenti, che salgono e scendono senza raggiungere mai la superficie,  condannate a vivere compresse.
Ecco, credo che proprio questa “tensione”  sia la cifra di Legami familiari, una tensione che la Lispector dimostra di maneggiare con precisione ed efficacia, esprimendola al meglio quando descrive quell’ambivalenza affettiva dei personaggi sulla quale si è soffermata la psicanalisi.
Qualche esempio:
“Amava il mondo, amava quanto era stato creato – amava con repulsione. Così come era sempre stata affascinata dalle ostriche, con quel vago disgusto che l’approssimarsi della verità le provocava, mettendola in guardia.”
“perché quella bellezza estrema la disturbava. La disturbava? Era un rischio. Ma, no, perché un rischio?, la disturbava solamente, erano un avvertimento, ma! no, perché un avvertimento?”
“rifletté sulla crudele necessità di amare. Rifletté sulla malignità del nostro desiderio di essere felici. Rifletté sulla ferocia con la quale desideriamo giocare.”
“qualcosa di simile alla felicità, non era ancora odio, ma una volontà tormentata di odio simile a un desiderio”
Amore e odio, paura della verità, il bello che attrae e spaventa e poi tanta solitudine, anche questa cercata e fuggita al tempo stesso, ma alla quale i personaggi si votano per poter sopravvivere:
“«Sono sola al mondo! Nessuno mai mi aiuterà, nessuno mai mi vorrà bene! Sono sola al mondo!»”
“tutto quello che sentiva restava prigioniero dentro il suo petto, in quel petto che sapeva solo rassegnarsi, solo sopportare, solo chiedere perdono, che sapeva solo perdonare, che aveva imparato soltanto a possedere la dolcezza dell’infelicità, che aveva imparato solo ad amare, amare, amare. Pensò che non sarebbe mai riuscita a tradurre in azione quell’odio di cui era sempre stato fatto il suo perdono.”