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domenica 15 giugno 2014

ritorno a Volastra


... avevo creduto sbagliando, che tutto avrebbe potuto essere come venti anni prima.
Per me rivedere Giulia avrebbe voluto dire riprendere il discorso lasciato in sospeso sulla Costa de' Posa. Ne ero convinto. Sarei stato capace di ricominciare al punto esatto in cui eravamo rimasti. Avrei potuto replicare alle sue parole di allora su Pessoa e su quanto fossi introverso, come se non fosse trascorso neppure un giorno, come se io e lei fossimo gli stessi ragazzini di allora. Non avevo considerato il fatto che per lei probabilmente quei venti anni erano passati eccome.
Solo ora me ne rendevo conto. Ora che sedevo con i vecchi del paese al tavolino del bar davanti alla scuola, in attesa di vederla uscire da quel portone. Avevo fatto seimilacinquecento chilometri convinto di ritrovare era una ragazzina di diciotto anni, ma quella che mi sarei trovato davanti se fossi rimasto lì sarebbe stata una donna di trentotto. Qualcosa di un po' diverso, un leggero errore di prospettiva. Una persona reale invece di una mia fantasia. Solo ora capivo che sicuramente per lei tutto era cambiato e che niente avrebbe potuto essere come prima.
Viviamo a velocità diverse. 
Ognuno di noi viaggia a una velocità che è solo sua e che non è mai uguale a quella degli altri, questa è la verità. Di più: la velocità con la quale ci muoviamo non è mai costante. Tutti durante la nostra vita abbiamo momenti in cui acceleriamo, rallentiamo, ci fermiamo e ripartiamo. Incontriamo gli altri per un attimo brevissimo o magari per un periodo più o meno lungo, ma prima o poi riprendiamo a muoverci ad una velocità diversa rispetto a chi abbiamo vicino. È una velocità interiore, quella di cui sto parlando, non reale. Possiamo rimanere fermi in un posto per tutta la vita, circondati dalle stesse persone, ma è inevitabile che ci muoviamo ed ognuno di noi lo fa in maniera diversa dall'altro. Cambiamo, ci evolviamo, si potrebbe dire con parole diverse. Ma la sostanza rimane quella.
Anche mamma e papà ad un certo punto avevano preso ad andare a velocità diverse. Era successo quando avevano venduto il bosco di Monterosso e papà si era buttato nell'edilizia, forse. O magari era successo prima. Come si fa a dirlo. 
È inevitabile, non puoi farci niente e tanto varrebbe prenderne coscienza subito. Perché puoi anche sforzarti di accordare il tuo passo a quello di un altro, cercare di condividere il suo cammino, ma è difficile. È impossibile, perché non puoi essere mai certo di cosa stia facendo lui in quel momento, non puoi vedere a che velocità sta andando, se sta andando. Puoi provarci come no, puoi cercare di immaginarlo, puoi anche convincerti di aver sincronizzato la tua andatura sulla sua, ma prima o poi dovrai riconoscere che è solo una tua fantasia, un'impresa folle e destinata a naufragare, perché neppure lui è consapevole della sua velocità, neppure lui sa se in quel momento si sta muovendo o invece è fermo.

sabato 7 giugno 2014

Costa de Posa (Volastra), 5.40 del mattino


La prima cosa della quale avevo sentito la nostalgia, una volta arrivato a Milano, non era stata la famiglia e nemmeno gli amici ( del resto non è che fossi quel che si dice un compagnone e più che amici veri e propri avevo qualche conoscente, compagni di scuola, frequentazioni saltuarie). La prima cosa che mi era mancata era stata la Costa. 
Ma non in senso lato, non la Costa intesa come posto del cuore del quale si sente l'assenza appena ci se ne allontana, non la Costa come “idea”, quasi più sentimento che luogo vero e proprio. No, ciò che mi era mancato era qualcosa di ben definito, una combinazione di spazio e tempo precisa.
Mi era bastata poco più di una settimana a Milano per sentire, fortissima, la nostalgia della Costa de Posa alle 5.40 del mattino in uno di quei giorni in cui la primavera si approssima a diventare estate. 
Una di quelle mattine in cui uscivo di casa prestissimo con la scusa di andare nell'orto e invece me ne stavo lassù da solo a guardare il mare, ad ascoltare il silenzio e i suoi rumori. 
A quell'ora non c'erano voci, né di uomo né di animali, solo il suono lontano delle onde e quello di un alito di vento che soffiava tra gli alberi. E poi c'ero io, che cercavo di accordarmi più possibile alla natura, seduto sull'erba, sforzandomi di restare immobile, di mimetizzarmi con quello che mi stava intorno, come se potessi assorbire almeno una parte di quella magia, come se potessi sciogliermi dentro di lei. 
Ma non ci riuscivo mai, c'era sempre qualcosa che mancava, che mi sfuggiva. Un movimento, un respiro, un pensiero che mi distraeva. Era come su tutte le volte lei mi riconoscesse e non mi lasciasse entrare in sintonia completa, come quando da bambino giocavo a nascondino e quando credevo di aver trovato un nascondiglio perfetto c'era sempre un movimento che mi tradiva, che mi faceva scoprire. 
Quei mattini che duravano sempre troppo poco, con la luce del giorno che all'inizio si stendeva sulla Costa languida, pigra come un gatto che si stira e poi accelerava senza preavviso e di colpo era giorno pieno, con l'esplosione di colori ed il risveglio di voci che mi richiamavano ai miei impegni. 
Una specie di sogno interrotto, di ricerca continua di una sintonia impossibile, un castello di carte che cadeva ogni volta che credevi di aver messo l'ultimo tassello, un castello di sabbia costruito con cura e pazienza che l'onda cancellava con un soffio. Un castello che poi il bambino costruiva di nuovo. Una, due, tre volte. Sempre, all'infinito. Perché era così che doveva andare.

lunedì 17 marzo 2014

un giorno e non finì la frase. Capitolo quarto


Capitolo quarto.

Dove si riferisce di un giro notturno a curiosare nelle cabine di alcuni dei passeggeri imbarcati sul vapore delle Regie Linee

Se sono stati necessari tre capitoli per raccontare poche ore di viaggio, è un dubbio legittimo del lettore domandare con qualche apprensione quante pagine dovrà attendere prima che l’Higland Monarch raggiunga il Nuovo Mondo. Il bravo cronista risponderebbe, con un semplice calcolo aritmetico, che siccome non è trascorsa ancora una giornata dacché abbiamo lasciato il porto di Alçantara mancano due settimane esatte all’approdo di Pernambuco, il primo dei porti che il vapore toccherà in terra americana, e visto che il tempo non è una misura di grandezza opinabile sarà facile calcolare che questa storia si comporrà di almeno altri quarantadue capitoli, vale a dire tre capitoli per ognuno dei quattordici giorni di navigazione previsti, a meno che non saltino fuori imprevisti o colpi di scena a mandare a carte e quarantotto il nostro conto. Osserveremo qui che in realtà non è proprio così, e che a voler essere capziosi questa cosa del tempo come misura che non può essere messa in discussione non ci convince tanto. E’ d’uso comune, infatti, parlare di percezione del tempo per dire che ci sono momenti che per qualcuno sembrano volare via in un attimo e per qualcun altro sembrano non passare mai e questo a prescindere dal fatto che, orologio alla mano, abbiano una durata misurabile in maniera obiettiva. A rafforzare la nostra tesi diremo poi che i tempi di un racconto non sono i tempi della vita, e le situazioni che incontreremo di qui in avanti meriteranno più o meno righe di descrizione non in base al tempo misurato con il metro dell’orologio ma in base a quello che la nostra fantasia deciderà di volta in volta di concedere loro. A chi ci accuserà di personalismo risponderemo che non esiste democrazia che tenga in questi casi, e che visto che abbiamo inventato il gioco ci riteniamo liberi di dettarne anche le regole, decidendo che giudice unico della partita sarà l’istinto, l’immaginazione, il pensiero, chiamatelo pure come volete che sono solo belle parole dietro alle quali si nasconde il nostro arbitrio. Non tema il lettore che questa premessa, forse un po’ grossolana nei modi, possa ritorcersi contro di lui e sappia fin da ora che se abbiamo introdotto questo ragionamento sulla relatività del tempo è stato solo per assecondare il più possibile le sue esigenze, così che quando durante il viaggio dell’Highland Monarch ci imbatteremo in giorni di cosiddetta calma piatta, dove non succederà nulla e non ci sarà nulla da raccontare, per non tediarlo più del lecito promettiamo di evitare pesanti digressioni e di saltare a piè pari al giorno successivo.
I passeggeri che avevamo lasciato seduti a tavola sono ormai tutti nelle loro cabine, alle prese, chi più chi meno, con il sonno che tarda ad arrivare. Niente di preoccupante, sia chiaro, perché per qualcuno questa è la prima notte sul vapore per le Americhe, e per qualcun altro la chiacchierata della cena ha avuto l’effetto di risvegliare più di un pensiero. A ben guardare però uno che sta già dormendo c’è, ed è il giovane dottore italiano. Probabilmente per lui questa è stata una giornata piuttosto faticosa, così che ha fatto appena in tempo a togliersi i vestiti ed è già piombato in un sonno profondo, talmente profondo che dopo che il benevolo dio alato Ipno ha esaurito il suo compito, anche suo figlio Morfeo ha pensato bene di passare a salutare Lorenzo ed a sfiorare il mazzo di papaveri sulle sue palpebre. In altre parole, il giovane dottore sta sognando e noi non ci lasceremo certo sfuggire un’occasione così ghiotta di andare a curiosare nel suo sogno. Giusto un’occhiata fugace, niente di più, sperando che il nostro amico non se ne abbia a male, in fondo ci impegniamo qui a riferire solo quello che vedremo senza avventurarci in spiegazioni più o meno audaci, che sappiamo bene come l’interpretazione dei sogni sia pratica che non ci compete e che lasciamo volentieri al dottor Freud ed ai suoi allievi. Eccolo allora questo sogno, è una cena di gala a bordo di un transatlantico la scena che leggiamo al di sotto delle palpebre chiuse del giovane dottore, sogno molto poco originale ci viene da dire, che a quanto pare la prima cena sull’Highland Monarch non è passata nell’indifferenza e qualche segno deve averlo lasciato nella mente del nostro amico, ma a ben vedere quella che sta sognando lui è una cena un po’ diversa da quella alla quale ha partecipato nella realtà, dove a capo tavola di una mensa imbandita siede il comandante della nave in tenuta di gala, comandante che dopo essersi alzato in piedi per dare solennità al momento, introduce con poche parole di rito l’ospite alla sua destra, presentandolo come famoso poeta ed invitandolo a fare un brindisi benaugurale. E’ proprio il giovane dottore, sorpresa delle sorprese, l’ospite in questione e, fatto ancor più inaspettato, sembra tutt’altro che in imbarazzo per essere stato chiamato a recitare da protagonista al cospetto di un così vasto proscenio, anzi, ci pare perfettamente a proprio agio mentre ricambia il sorriso del comandante e si alza a sua volta in piedi, levando il calice e pronunciando non già due parole striminzite con voce malferma, come aveva fatto durante la cena appena conclusa, ma una e vera propria orazione degna del miglior retore, che strappa gli applausi convinti dei commensali. Niente male per uno che solo poche ore fa avrebbe dato tutto quello che possedeva pur di trasformarsi nell’uomo invisibile, niente male davvero e converrete che ce ne sarebbe di materiale per dire tante altre cose, ma visto che ogni promessa è debito ce ne asterremo, limitandoci ad osservare che in fondo non c’è mica da vergognarsi a sognare di essere famosi e può darsi che la lettura delle Elegie Duinesi, il libro che sta sul comodino accanto al letto, abbia giocato qualche ruolo nella genesi di questo strano sogno. Immaginiamo che il giovane dottore si sia addormentato con la settima elegia tra le mani, magari leggendo come ultime parole prima di cadere addormentato proprio quelle quella della settima elegia, dove Rilke scrive che in nessun dove sarà mondo se non intimamente, e questa frase potrebbe poi aver lavorato negli anfratti più bui della coscienza di Lorenzo mescolandosi con chissà quali e quanti altri pensieri, contribuendo a dare origine ad un sogno tanto particolare. Ma basta così, meglio smetterla con le supposizioni e chiuderla qui, dicendo che probabilmente lo strano sogno del nostro amico è dovuto a qualche ragione meno aulica, come ad esempio il fatto che potrebbe non essere abituato alla cucina portoghese e di conseguenza potrebbe aver trovato qualche pietanza di difficile digestione. E se la nostra spiegazione non risultasse convincente e qualcuno volesse a tutti i costi sottolineare l’incongruenza fra i comportamenti tenuti dal giovane dottore nella vita reale e quelli nel sogno, gli ricorderemo che è bene non insistere troppo, che se ci mettessimo a fare le pulci ai suoi sogni troveremmo qualcosa di strano anche lì, e non per sua colpa, che è cosa nota a molti come quel dio Morfeo che abbiamo appena nominato non viaggiasse da solo alla notte ma si accompagnasse ad una cerchia di folletti che rappresentavano le illusioni, folletti alla cui azione la mitologia classica attribuiva la paternità delle bizzarrie che a volte compaiono nei sogni e che non è possibile spiegare in altra maniera. Questo per dire che il giovane dottore è vittima inconsapevole delle visioni che gli si presentano durante il sonno, che certo non possiamo pretendere che sia in grado di controllarne la coerenza, ma la medesima scusante non può essere accampata per altri che questa sera hanno seduto al suo stesso tavolo, altri che nella solitudine delle loro cabine si stanno comportando in maniera ben diversa da quanto avevano dichiarato a cena, ma che a differenza di Lorenzo sono ben svegli. Jusep Campalans, il pittore catalano, ad esempio, aveva detto con tono perentorio, lo abbiamo sentito con le nostre orecchie, di aver rinunciato da tempo all’arte del dipingere per dedicarsi esclusivamente all’agricoltura, ed ora lo ritroviamo seduto su una sedia, mezzo vestito e mezzo spogliato, che abbozza qualche figura con un carboncino su un album da disegno. Riconosciamo uno schizzo con i tratti di Zenobia Camprubì Aymar, che abbiamo conosciuto come signora Jimenez e un altro, quello al quale è intento in questo momento, che cerca di rappresentare le fattezze della ragazza dal collo lungo e sottile. E se è possibile cercare di giustificare l’incongruenza tra le parole che Campalans ha pronunciato durante la cena ed i comportamenti di adesso, dicendo che non è sufficiente l’abbozzare due figure su un quadernetto per essere considerati pittori di mestiere, più difficile è trovare una spiegazione che regga per quelle scatole di colori ad olio, tempere e pennelli che sono sparse sul letto e per i pacchi di fogli e taccuini che spuntano da una borsa, non proprio l’armamentario, ci sia consentito, di chi ha scelto di fare il contadino. Acqua che non devi bere lasciala correre, dicono gli spagnoli, ma visto che ormai di quest’acqua noi abbiamo cominciato a berne, tanto vale continuare ancora un po’ e proseguire nel nostro giro della buonanotte per le cabine dell’Higland Monarch alla ricerca di altri altarini da scoprire. E’ il turno ora di Alvaro de Campos che, ancora vestito di tutto punto, siede al tavolino della sua cabina leggendo una raccolta di poesie dell’amico Sà Carneiro, fumando l’ennesima sigaretta. Niente di male, ci mancherebbe altro che non si fosse liberi leggere qualche poesia, il fatto è che quella che sta leggendo lui non è una poesia qualsiasi, ma un eccentrico componimento che all’uscita sul primo numero di Orpheu aveva scatenato critiche a non finire. Sono versi che l’ingegnere navale conosce bene e che per qualche ragione che forse sa solo lui ha sentito il bisogno di tornare a leggere, versi che parlano di zone intermedie e di sogni che sviano per il deserto e che si chiudono con l’immagine di un braccio che cade e se ne va a danzare in abito da sera nei saloni del vicerè. Versi che non sappiamo quale significato possano avere per Alvaro de Campos, ma che a noi fanno pensare al sogno del giovane dottore ed alla povera mano di Marcenda. Ma non è tanto la lettura di una poesia quello che ci preme in questo momento, quanto quello che accade dopo che l’ingegner de Campos ha chiuso il libro. Si versa un bicchiere di aguardiente, da un’ultima tirata alla sigaretta prima di spegnerla, fissa per un attimo il soffitto e poi si china a scrivere su un pezzo di carta, e sembra proprio che siano versi di una poesia quelli che escono dalla sua penna, ma qui ci fermiamo, che non saremo così indiscreti da metterci a leggerli, un po’ di curiosità è lecita, ma c’è pur sempre una soglia di intimità che è giusto rispettare. Aggiungeremo solo che dopo aver riempito con grafia minuta il piccolo foglio, Alvaro de Campos lo rilegge due o tre volte, apporta qualche correzione di poco conto, poi lo arrotola con cura e lo infila dentro una bottiglietta che ha preso dal cassetto, stringe con forza il tappo per chiuderla ermeticamente, quindi infila in una tasca interna della giacca il piccolo contenitore con il suo prezioso contenuto e se ne esce dalla cabina. Strano, ricordiamo bene quando parlando con il poeta Ramon Jimenez aveva detto di non aver più scritto una sola riga dal giorno della morte di Pessoa, e ricordiamo anche la discussione sul piacere di rendersi invisibile che le sue parole sulla scelta di non esister più come scrittore avevano innescato. Sarebbe fin troppo facile montare in cattedra a fare i fustigatori dei comportamenti altrui ed osservare come il modo di agire di Alvaro de Campos si avvicini a quello di Jusep Torres Campalans, e come tutti e due non possano certo essere proposti come modelli di coerenza, ma il fatto è che ci sono simpatici e che per indole siamo propensi più a giustificare le debolezze umane che a denunciarle. In fondo ad essere debole non è solo la natura del pittore catalano o quella dell’ingegnere portoghese, ma quella di tutti gli uomini e come meglio si vivrebbe se trovassimo la forza di ammettere che la volontà è più fragile di quanto ci piacerebbe che fosse, se solo ci decidessimo a prendere atto che tutta quella processione di proverbi e modi di dire, che va dal semplice volere è potere al più articolato a buona volontà non manca facoltà, sino al perentorio la volontà è tutto, è una maschera che indossiamo per coprire le nostre insicurezze, un lenzuolo con il quale ci proteggiamo alla bell’e meglio per nascondere che il re è nudo, un po’ come il cane quando abbaia e mostra i denti per non far vedere che ha paura. E se avessimo voglia di giocare a fare i sofisti potremmo anche dire che non c’è neppure tanta contraddizione tra le parole che Campos e Campalans hanno pronunciato a cena ed i comportamenti che tengono nel segreto delle loro cabine, in fondo quegli schizzi su un taccuino e quei versi su un pezzo di carta non li vedrà mai nessuno, quindi in realtà è come se non dipingessero e scrivessero affatto, dato che, come si usa dire in questi casi, uno spettacolo senza pubblico è come se non fosse mai avvenuto. Al nostro giro notturno per curiosare tra le abitudini notturne dei partecipanti alla cena di questa sera, mancano ancora un paio di cabine, la più vicina delle quali è quella occupata dal dottor Jimenez e da sua moglie Zenobia, ci perdoni quindi la signorina Sampaio se la lasciamo per ultima, che a qualcuno deve pur toccare il compito di chiudere questa carrellata, non dubiti però che non ci dimenticheremo di lei e che fra breve saremo pronti a riferire anche di quello che sta facendo o sta pensando la ragazza dal collo lungo e sottile. Per adesso concentriamoci sui coniugi Jimenez, certi che nella loro cabina non ci saranno strane sorprese ad attenderci, considerata la stima incondizionata che godono queste due persone negli ambienti culturali di mezza Europa. Come previsto li troviamo intenti nei preparativi per la notte, lei in bagno alle prese con quel guazzabuglio di balsami, creme, pomate e quant’altro che fanno delle donne della nostra epoca l’equivalente degli alchimisti medioevali, e lui davanti all’armadio, mentre ripone nei cassetti le ultime camicie che ha tolto dalla valigia, i due discutono ad alta voce del piacere di essere considerati invisibili, argomento che evidentemente non è stato ancora del tutto digerito dalla fine della cena ad ora. Davvero non credevo che esistesse un Alvaro de Campos in carne ed ossa, dice lui, Mi da l’idea del tipo eccentrico, gli fa eco lei, quando parla sembra uno che butta lì le cose per il puro piacere di provocare, come se fosse un amante del paradosso, Non avevo mai sentito prima d’ora di uno scrittore che non cercasse di rendersi visibile, di far conoscere quello che scrive, E quel sorriso stirato, quasi un ghigno, quell’atteggiamento da snob, come se tutto gli fosse indifferente, Chissà cosa nasconde dietro quella maschera, se poi è una maschera quella che indossa, Magari non lo è, può darsi che sia proprio uno di quegli snob annoiati da tutto e da tutti, che non trovano più niente che li interessi. Con questi ed altri discorsi simili i due sono ormai a letto, e dopo aver terminato di chiacchierare dedicano i minuti che precedono lo spegnimento della luce alla lettura, riservando il momento di quando sarà buio per quello che seguirà, se ci sarà qualcosa che i due vorranno far seguire alle parole. E così Zenobia inforca un paio di occhiali ed apre il suo amato Tagore e Ramon Jimenez prende in mano un volumetto di poesie di Ruben Dario, ma se a lei sono sufficienti poche righe per lasciare la cabina e la nave e trovarsi per mano all’autore indiano ad esplorare un giardino fatto di spiritualità e buoni sentimenti, per il poeta di Moguer le cose non vanno di pari passo che questa sera non gli risulta tanto semplice tenere ferma la mente sulle pagine del libro, questa sera i suoi pensieri sembrano aver deciso di non lasciarsi portare per mano dove ha deciso la mente ma di provare a camminare con i propri passi in tutt’altra direzione. L’abbiamo già detto, quei discorsi sul piacere di non esistere agli occhi degli altri, tanto più se pronunciati da uno come l’ingegner de Campos che fino ad ora il dottor Jimenez credeva fosse un nome di fantasia inventato da Pessoa, devono ancora essere digeriti ed il tempo necessario per questo processo di assimilazione si annuncia abbastanza lungo. I pensieri di Ramon Jimenez, ci perdoni il poeta l’intrusione nel suo privato, ma non crediamo sia il caso di fare favoritismi proprio adesso e visto che poco fa ci siamo presi la libertà di leggere nei sogni di un dottore, non vediamo perché ora non dovremmo fare lo stesso sbirciando nella mente di un poeta, i pensieri di Ramon Jimenez dicevamo, sono rivolti ad una ragazza peruviana sua ammiratrice con la quale quasi trent’anni fa ha intrattenuto una corrispondenza epistolare. Un nome che emerge dal passato dopo un letargo che sembrava eterno, Georgina Hübner, una giovane saltata fuori dal nulla ed al nulla rientrata, Chissà dove sarà adesso, si chiede Jimenez, rammentando lo sconcerto con il quale aveva letto quelle righe scarne giunte dal Perù che ne comunicavano la morte improvvisa senza aggiungere particolari sulle circostanze della sua scomparsa e che avevano messo fine a due anni di lettere attraverso l’Atlantico, Chissà dove sarà adesso, si chiede rammentando lo sconcerto ancora maggiore con il quale aveva appreso nei mesi successivi le altre notizie, quelle che dapprima avevano messo in dubbio l’esistenza stessa di Georgina, fino a quelle voci insistenti che dicevano che tutta la storia fosse stata una specie di tragico scherzo, se non di truffa ai suoi danni e che sembravano proprio aver trovato più di una conferma. Con il tempo anche lui aveva accettato il fatto che quella Georgina Hubner a cui aveva dedicato anche alcuni versi fosse in realtà un personaggio di fantasia, inesistente, ma adesso non ne è più tanto sicuro, adesso i suoi pensieri hanno voglia di cancellare tutti i fatti e le informazioni raccolte su questa vicenda per essere liberi di correre dietro al fantasma della ragazza peruviana, adesso è notte, il momento migliore per i sogni, ed i sogni non hanno bisogno di confrontarsi con prove documentali per costruire le loro architetture. Ma lasciamo Ramon Jimenez alle sue fantasie per occuparci di altro, è arrivato il momento della signorina Sampaio, dulcis in fundo, come dicevano i latini, e con questa galanteria ci scusiamo con lei per averla trascurata sino ad ora, ma attenzione però, che la nostra galanteria finisce qui, che il rispetto per il genti sesso non ci esenterà dal riservarle lo stesso trattamento di chi l’ha preceduta e dal riferire al lettore quello che succede nella sua cabina. Eccola allora, la ragazza da collo lungo e sottile, che a tavola sembrava così preoccupata di non essere dimenticata e che ci teneva tanto ad essere considerata vera. Anche lei è a letto, ma sembra che in questo caso il dio Ipno, che con tanta facilità aveva chiuso le palpebre del giovane dottore, abbia il suo daffare per riuscire a farla addormentare. E’ la prima volta che Marcenda dorme su una nave e non è abituata al suo leggero basculamento, al brontolio del mare ed agli altri rumori di bordo, così diversi da quelli consueti, non è abituata all’idea di passere quindici giorni su un piroscafo in viaggio sull’Atlantico, non è abituata allo spazio angusto della cabina, e soprattutto non è abituata a stare sola. Non basta spegnere la luce per riuscire a dormire e neppure la stanchezza per una giornata così piena e faticosa è sufficiente per riuscire nell’intento, per far assopire una ragazza di venticinque anni ci vuole la tranquillità, tranquillità che è proprio quello che in questo momento manca a Marcenda. Si gira e rigira nel letto, in uno stato che non è più quello di veglia e non ancora quello di sonno, con una serie di immagini che si sovrappongono nella sua mente alla velocità di fotogrammi di un film. I commensali che hanno partecipato alla cena di questa sera, il dottor Jimenez con la moglie, il giovane dottore italiano e gli altri, il padre che la saluta sul molo di Alçantara e poi passa un braccio sulla spalla di Maria Madalena Simões, il dottor Ricardo Reis, i ricordi di Coimbra, la nave così alta sul pelo dell’acqua, il viso della madre, la folla dell’imbarco, l’imbarazzo del giovane dottore nel parlare, le cose da fare appena arrivata in Brasile, telegrafare a casa, contattare gli specialisti che le hanno indicato i dottori in Portogallo, la nonna mancata da poco, gli amici lasciati a casa e ancora il viso del giovane dottore.
E con Marcenda abbiamo terminato un tour notturno che magari non è stato molto rispettoso dell’intimità altrui ma che ci ha permesso di conoscere un po’ meglio le persone con le quali avremo a che fare per le prossime due settimane, un’ultima cosa ci rimane da dire e cioè che mentre tornavamo sul ponte di poppa, per lasciarci addormentare dal mare ascoltandolo cantare la sua canzone respirandone il salmastro, abbiamo incontrato l’ingegner de Campos che, sporgendosi dalla balaustra, lasciava cadere in acqua una bottiglietta. Mentre rientrava in cabina giureremmo di averlo sentito parlare a bassa voce come se stesse conversando con qualcuno, Fernando ci sembra che dicesse, ma questo non potremmo darlo per certo.

sabato 12 gennaio 2013

un giorno e non finì la frase. Capitolo terzo.


Capitolo terzo

Della cena a bordo dell’Highland Monarch e di altri fatti importanti per il resto della storia

L’abitudine è una compagna di viaggio rassicurante, a volte anche piacevole, ma amica stretta della noia e che con l’andar del tempo rende molli e poco propensi ai cambiamenti. E’ così comodo sguazzare nelle acque basse delle nostre vite tranquille, che non appena ci avventuriamo al di fuori della quotidianità ci prende la paura di non saper più nuotare, di non riuscire a stare a galla in un mare di emozioni alle quali non siamo avvezzi. E’ sufficiente una cosa da niente come una partenza per nave a dar di conto di quanto affermiamo ed a mettere a nudo la nostra incapacità a far fronte al nuovo che ci si mostra. Ci sembra che succeda tutto troppo rapidamente perché si riesca a stargli dietro, questo è il fatto. Anche la ragione, il nuovo dio di questa strana epoca, nel nome del quale abbiamo ripudiato cosmogonie millenarie sperando che potesse essere così forte da aiutarci a vincere ogni dubbio, mostra la corda ed avrebbe bisogno di un po’ più di tempo per riprendere in mano la situazione. Ma il tempo non è a nostra disposizione, pronto ad allungarsi od accorciarsi a seconda dei nostri bisogni, certo sarebbe bello viaggiare con un interruttore in tasca che ci permettesse di fermare l’attimo a nostro piacere, quando siamo in difficoltà, quando abbiamo bisogno di capire quello che sta accadendo, oppure solo quando vogliamo goderci più a lungo un certo momento, sarebbe bello ma non è così, e lo sanno bene le forze più primitive del nostro animo, quegli istinti vitali che normalmente vivono segregati nelle stanze più buie dello spirito, che non conoscendo le mollezze dell’abitudine sono lesti ad approfittare del momentaneo empasse della ragione per saltare fuori e guardare in faccia la luce del sole. E noi, che dovremmo gioire perché finalmente c’è data l’opportunità di vedere all’opera la parte nascosta della nostra anima, siamo invece confusi, così poco abituati a lasciare che le emozioni si esprimano, che invece di abbandonarci ad esse ne temiamo le conseguenze e ricorriamo ad una forma di difesa un po’ vigliacca, quella di immaginare che sia tutto un sogno e la vita che stiamo vivendo non sia la nostra ma quella di qualcun altro.
Capita così che solo adesso che si sta avviando verso il salone dove dovrà essere servita la cena, la ragazza dal collo lungo e sottile sembra aprire gli occhi su quello che sta accadendo. Sono passate quasi otto ore dall’imbarco, ed è come se questo tempo lei l’avesse trascorso seduta su di una poltrona del cinematografo a guardare un film che parlava di lei. Un film dove ha visto i volti delle persone accalcate sul molo di Alçantara farsi sempre più piccoli sino a sparire e lo stesso è successo poi per i palazzi di Lisbona e per le coste lusitane, sino a quando non si è trovata circondata unicamente dall’azzurro del mare. E’ probabile che a questo punto qualcuno del personale di bordo deve averla accompagnata nella sua cabina, dove crediamo che avrà disfatto le valigie per poi buttarsi sul letto bella e vestita, vinta dalla stanchezza. Immaginiamo che avrà dormito almeno due o tre ore e poi si sarà alzata e si sarà cambiata d’abito per prepararsi per la cena, il tutto quasi con indifferenza, con l’apparente tranquillità di chi sta giocando a nascondino con la vita, fingendo appunto di vivere in un sogno. Ma come dicevamo l’appuntamento con la realtà può essere rinviato per un po’ di tempo ma non in eterno, per cui diamo il buongiorno alla signorina dal collo sottile che si sta lentamente svegliando e sta prendendo coscienza che questo è il primo viaggio per mare della sua esistenza e che si trova ad affrontarlo da sola, così come da sola, o con parenti che conosce appena, si ritroverà in Brasile. Quello che è accaduto a lei è in fondo storia di molti, una vita trascorsa fino a ieri all’ombra rassicurante della protezione paterna, e che sembrava destinata a proseguire così chissà per quanto tempo ancora, poi un bel giorno era successo in un attimo quello che non avevano fatto tanti anni e lo scenario era mutato con la rapidità con cui cambia la quinta di un teatro. Se ci pensa le manca la terra da sotto i piedi, se ci pensa rivive la stessa sensazione di incredulità e di impotenza di allora, si sente di nuovo come un ramoscello in balia della corrente, che sbatte contro le rocce che affiorano qua e là rallentando ma non arrestando la sua corsa verso l’ignoto. Non aveva avuto voce in capitolo, non aveva potuto opporsi alla volontà del padre, lui l’aveva guardata negli occhi, come faceva raramente, e lei aveva subito capito che il momento era grave e che qualche decisione che la riguardava era stata presa. Glielo aveva comunicato nella maniera migliore possibile, che quando era il momento le parole le sapeva scegliere bene, le aveva detto che lo faceva per lei, che lui voleva il meglio per sua figlia e non si sarebbe dato pace fino a quando non le avesse tentate tutte per farla guarire. Guarire. Certo, questo lei lo capiva benissimo, comprendeva che quello del padre era un gesto d’amore, quello che non capiva era perché non glielo aveva chiesto, perché prima non era stata interpellata. L’aveva messa davanti ad una decisione già presa come se lei non c’entrasse niente, come se lei fosse solo un oggetto a cui lui teneva moltissimo e non una persona. Le cose erano successe un po’ troppo velocemente per non pensare che, forse, magari, in fondo in fondo, l’idea di mandarla in Brasile poteva nascondere anche il desiderio di allontanarla da Coimbra. Mica per sempre, solo per un breve periodo s’intende, che nessuno qui vuole insinuare il dubbio che un uomo così conosciuto e benvoluto come il dottor Sampaio sia in realtà un padre snaturato. Che sofferenza deve essere stata, pover’uomo, trovarsi da solo a prendere una decisione così difficile, senza avere qualcuno con cui dividere un peso così oneroso. Oddio, pensa la ragazza, magari è possibile che proprio da solo non sia stato, che con qualcuno si sia anche confidato, può darsi che un aiuto nell’orientare i suoi pensieri glielo abbia dato la signora Simões, la donna che poco fa era con lui sul molo di Alçantara. Sì, non può essere altrimenti, più ci pensa e più si convince che dietro la decisione di spedirla in Brasile ci sia la mano piccola, tozza, sudaticcia e molto poco caritatevole della signora Simões. Maria Madalena Simões, ripete dentro di se scandendo bene le parole, com’è che dicevano i latini, nomen omen, e loro di queste cose se ne intendevano.
C’è silenzio lungo il corridoio delle cabine, troppo silenzio, se c’è consentito accostare il termine troppo alla parola silenzio, che notoriamente o c’è o non c’è, non ci risulta che sia ancora quantificabile in poco, abbastanza o molto, ma cosa detta capo ha, e quello che volevamo intendere è che è strano che di tutte le persone che sono salite questa mattina sull’Highland Monarch ora non se ne trovi neppure una disposta a farsi vedere o almeno sentire dalla ragazza dal collo lungo e sottile, qualcuno che le dica, Non ti preoccupare, non sei l’ultima, ci sono anch’io, non fosse altro per bloccare sul nascere le sue ansie. Saranno già tutti in sala da pranzo, è l’ovvia conclusione che la ragazza trae da quel silenzio e subito dopo averla pensata vorrebbe ricacciarla indietro con un moto di fastidio, che l’idea di essere l’ultima a presentarsi a tavola non la seduce per niente. Ma un pensiero non si può allontanare a piacimento e più si cerca di scacciarlo come se fosse una zanzara fastidiosa e più lui torna lì testardo come un mulo nel volerci dare fastidio ad ogni costo. Inutile cercare di ingannare se stessa ripetendosi che sicuramente ci sarà ancora qualcuno nelle cabine a cambiarsi d’abito, il passo veloce è la riprova che neppure lei crede a questa ipotesi ed a poco vale anche il gioco dei proverbi che la ragazza è solita tirare fuori in queste circostanze, tanto per buttarla sul ridere ed esorcizzare il pensiero che la preoccupa. Basta preoccuparsi, si dice rallentando bruscamente la sua corsetta, se arriverò in ritardo non sarà certo la fine del mondo, ciò che è fatto è fatto, ecco il primo proverbio che esce dalla sua testa. E poi a ruota, la fretta è cattiva consigliera, e fa più danno l’apprensione che il malanno. La soddisfazione per aver trovato un po’ di conforto nei detti popolari dura poco, che la zanzara è sempre lì, pronta a colpire, ed ecco che da qualche anfratto della sua memoria salta fuori un chi tardi arriva male alloggia che non ci voleva proprio. E’ solo la prima puntura che la seconda è già bella che confezionata, minore il tempo e maggiore è la fretta, e tanti saluti alla tranquillità che la ragazza cerca di conquistare. Tra un proverbio e l’altro, un po’ di fretta e un po’ frenando il passo, siamo arrivati nella hall centrale dell’Highland Monarch, dove è l’ingombrante pendola rococò che campeggia nell’angolo ad assumersi l’ingrato compito di fugare definitivamente gli ultimi dubbi. Sono le diciannove e cinquanta e lei è in ritardo, leggero ma pur sempre ritardo, per cui l’unica cosa che ora può fare è tirare un bel sospiro, ignorare la vocina di dentro che le sussurra un ultimo detto, chi va piano va sano e va lontano, e cercare di contenere almeno questo ritardo entro i termini della decenza, accelerando quindi il passo, che di allungare la falcata proprio non possiamo chiederglielo, fasciata com’è in un tubino di raso nero che impaccia non poco il movimento di quelle graziose gambe. La vista del maître che l’attende sulla soglia del ristorante pone fine al tourbillon di pensieri che si fronteggiano nella testa della ragazza ed un’occhiata all’interno della sala è la medicina che cercava per placare le sue ansie, grazie a Dio la cena non è ancora iniziata ed il gran vociare che si sente testimonia che la gente pare più desiderosa di chiacchierare che di mangiare. Siamo troppo lontani dai due per udire la loro conversazione, ma immaginiamo di non andare tanto lontani dal vero se scriviamo che le parole che seguono dovranno essere quelle che si stanno scambiando, Buonasera signorina, sono il signor Burton, maître di bordo, vuole avere la cortesia di dirmi il suo nome che l’accompagno al tavolo che abbiamo riservato per lei, Buonasera signor Burton, sono la signorina Sampaio e mi scuso per il ritardo ma credo di essermi addormentata, Nessun ritardo signorina Sampaio, risponde lui con un sorriso aperto, la cena sarà servita solo tra alcuni minuti, mi segua, la prego. La gentilezza del maître è confortante, ma un senso di disagio sembra farsi nuovamente spazio nei pensieri della ragazza, mentre osserva come tutti sembrino così a loro agio mentre conversano come se fossero vecchi amici, come se avessero approfittato della sua assenza per fare conoscenza, Sarò l’unica in difficoltà, pensa seguendo il maître in un girotondo tra i tavoli, l’unica a dover rompere il ghiaccio, e chissà chi saranno i commensali che troverò al mio fianco, che i posti a tavola sono assegnati da qui all’America e le persone che siederanno vicino a me stasera sono quelle che mi ritroverò davanti tutti i giorni per quindici giorni. Eccoci arrivati signorina, dice il maître accompagnando la frase con un movimento del braccio un po’ troppo plateale, come se avesse da mostrarle chissà quali tesori, questo è il suo tavolo. La ragazza dal collo lungo e sottile ringrazia e rivolge un gesto del capo verso gli altri commensali che si alzano come esige il galateo, poi il maître sposta la sedia per invitare la giovane a sedere e dopo che la signorina Sampaio ha preso posto anche gli altri fanno lo stesso. Alla buon’ora, ci sia concesso dire una volta che il maître si è congedato, capiamo bene che convenevoli e formalità di rito facciano parte di un protocollo che non può essere ignorato, ma la curiosità fa parte della natura umana ed ora quello che a noi importa è sapere qualcosa di più sulle persone che siedono al tavolo con la ragazza dal collo lungo e sottile.
E’ il signore con barba e baffi neri ed incipiente calvizie che siede proprio in fronte alla signorina Sampaio ad accollarsi l’onere di rompere gli indugi, con il tono pacato ma fermo di chi è abituato a parlare in pubblico, Bene, ora che ci siamo tutti credo che si possa dare inizio alle presentazioni, mi chiamo Ramon Jimenez e questa è mia moglie Zenobia, dice stringendo con la sinistra la destra della signora che siede al suo fianco, sono scrittore, poeta dice qualcuno, ma questo poco importa, quello che importa è che siamo spagnoli ed andiamo in Sudamerica costretti da una guerra assurda e nefasta, una guerra che sta devastando i nostri corpi e le nostre coscienze, queste ultime parole pronunciate con maggior gravità, come se non avesse avuto in animo di dirle dal principio del suo discorso ma fossero saltate fuori da sole, che quando un pensiero martella con tanta forza la nostra testa è fatica vana cercare di tenerlo nascosto che prima o poi è destino che salti fuori, E io sono Alvaro de Campos, ingegnere navale, dice l’uomo in completo scuro che siede a fianco di Zenobia e che riconosciamo essere l’uomo con il monocolo che questa mattina osservava i nuovi arrivi da un tavolino del lido. La prontezza con la quale ha preso la parola è benedetta dagli altri commensali che si stavano chiedendo a chi sarebbe spettato ora presentarsi, se fosse giusto andare in ordine di posto, ed in questo caso se toccasse a chi sedeva alla destra o piuttosto a chi stava alla sinistra del signor Jimenez, o se si dovesse privilegiare il criterio dell’età ed allora sarebbe stato difficile capire chi era il meno giovane tra almeno due delle persone sedute a questo tavolo. Sono portoghese, continua l’ingegner de Campos, e vado in Brasile per via di certi affari, Alla ricerca di un amico, aggiunge subito dopo, un po’ di fretta e di malavoglia, che è evidente che avrebbe preferito limitarsi a nome, cognome e luogo di provenienza e questa cosa di dover mettere in piazza i motivi del viaggio iniziata dal signor Jimenez non gli piace per niente, ma, come si dice in questi casi, una volta che si è in ballo tanto vale ballare. Ora che l’ingegner de Campos ha terminato il suo intervento, non c’è più dubbio sul fatto che la presentazione dovrà proseguire seguendo l’ordine di posto e che quindi tocca proprio all’ultima arrivata dirci chi è. Il mio nome è Marcenda Sampaio, esordisce con voce leggera la ragazza dal collo lungo e sottile, sono portoghese di Coimbra e vado in Brasile per via di questa mia mano, dice prendendo con la destra la sinistra che fino ad ora aveva tenuto in grembo e posandola sulla tavola come un uccellino privo di vita, questa mia piccola mano che non sembra volerne sapere di andare d’accordo con il resto del corpo. Mio padre pensa, o meglio spera, che qualche medico di laggiù possa aiutarmi ed anch’io non voglio rassegnarmi a vederla dormire per il resto della mia vita. L’imbarazzo che queste parole hanno provocato tra le persone che siedono accanto alla signorina Sampaio è palpabile, e trovare qualcosa che aiuti a superare l’empasse sarebbe impresa improba anche per l’oratore più esperto, così che è una fortuna per tutti che ci sia una presentazione da portare a termine, ed il lettore converrà che non è buona educazione sottrarsi ad un obbligo come questo per soffermarsi sulla mano morta della signorina Sampaio. Qualcuno potrebbe obiettare che in una situazione come questa non è elegante fare come gli struzzi ed infilare la testa sotto la sabbia e che forse sarebbe più educato mostrarsi interessati alla storia della ragazza e domandarle qualcosa, od anche solo cercare di farle coraggio dicendole che sicuramente il suo caso troverà una soluzione felice, un’altra alternativa sarebbe di buttarla sul ridere che si sa che le risate hanno il pregio di stemperare le tensioni, oppure si potrebbe almeno cercare di minimizzare portando la discussione su altri temi. Quante possibilità che ci vengono in mente e quante altre ne potremmo individuare se solo sforzassimo il nostro ingegno, ma il problema è che nessuno saprebbe dire a priori quali avrebbero le maggiori possibilità di successo. Bisognerebbe conoscere meglio la signorina Sampaio ed anche le altre persone che siedono con lei per decidere una strategia ad hoc capace di rompere l’imbarazzo creato da quella povera mano, ma il fatto è che nessuno dei commensali conosce gli altri ed il rischio è che qualsiasi parola, anche se pronunciata con le migliori intenzioni, potrebbe finire con il peggiorare la situazione, così che alla fine del nostro ragionamento ci ritroviamo al punto di partenza. Magari potrebbe provarci l’ingegner de Campos a dire qualcosa, e nominiamo lui perché osservando meglio la signorina Sampaio si è reso conto che si tratta della stessa ragazza con tailleur scuro e cappello e guanti neri che stamattina aveva colpito la sua attenzione. Ora che ha saputo della sua disgrazia si è accorto che era proprio la mano morta il particolare che non riusciva a cogliere e non tanto la linea instabile, quasi insicura del suo corpo, dettaglio peraltro che ne aveva stimolato l’immaginazione fino a portarlo a speculare sullo sfumato dei dipinti di Leonardo. Ecco, proprio il richiamo alla Mona Lisa potrebbe essere un modo simpatico per intervenire, Lo sa che questa mattina ero seduto ad un tavolino e quando l’ho vista salire sulla nave mi ha fatto venire in mente la Gioconda, siamo certi che questa sarebbe una frase perfetta per stemperare l’imbarazzo, magari si trascinerebbe dietro anche altri commenti, Certo che a lei non scappano le belle ragazze, potrebbe osservare qualcun altro dei commensali e via dicendo. Ma non è così, e visto che nonostante abbia riconosciuto la signorina Sampaio, l’ingegner de Campos non sembra aver voglia di interrompere la scaletta delle presentazioni, non ci rimane altro da fare che rassegnarci e rivolgere il nostro sguardo sul signore robusto dalla testa rasata e dalla folta barba rossiccia che siede alla sinistra di Marcenda, aspettandoci da lui niente di più che una prosecuzione fedele della liturgia iniziata dal signor Jimenez, Mi chiamo Jusep Torres Campalans, dice con voce baritonale scandendo bene le parole, sono catalano ed ero pittore. Vado, anzi torno in Messico perché quella ormai è la mia casa. Jusep, ha detto proprio Jusep e non Josep, come sarebbe più giusto nella sua lingua, ha pensato l’ingegner de Campos, strano personaggio questo Campalans, che invece di correggere l’anomalia del suo nome o almeno minimizzarla, come farebbe la maggior parte della gente, la sottolinea tanto per chiarire che lui non è tipo dalle mezze misure, uno che accetterebbe di farsi chiamare Josè o simili, lui è Jusep e su questo non transige. Jusep Torres, interviene il signor Jimenez sistemando un punto interrogativo dopo il nome del signore dalla testa rasata, lei è veramente quel Jusep Torres amico di Picasso, aggiunge incredulo. Mi permetta allora di correggerla dicendo che lei non è un semplice pittore, lei è uno dei padri del cubismo, e credo di parlare anche a nome degli amici che siedono a questo tavolo se aggiungo che siamo tutti più che onorati di fare la sua conoscenza. Belle parole, non c’è che dire, utili se non altro ad evitare che questa, nata come una chiacchierata informale, diventi una specie di seduta psicoanalitica dove ognuno mette a nudo se stesso davanti agli altri, situazione quantomeno anomala visto che le sedute di gruppo non sono ancora state inventate, che sono di questi anni i primi studi di Freud e Jung su quello che chiamano l’inconscio. Belle parole, lo ripetiamo, ma nessuno ce ne voglia se osserviamo che se proprio il signor Jimenez aveva deciso di interrompere il giro di presentazione, sarebbe stato più proficuo che l’avesse fatto dopo le parole della signorina Sampaio, che intervenire a questo punto è forse fin troppo facile. Sia come sia, è meglio lasciar stare le questioni di merito ed accontentarci del risultato finale, quello che conta è che le regole del gioco sono state finalmente infrante e ciò vuol dire che ognuno può ora parlare di quello che vuole e se non vuole parlare può limitarsi ad osservare, come sta facendo la ragazza dal collo sottile che in questo esatto momento sta pensando che è proprio vero che l’abito non fa il monaco, che a giudicare dall’aspetto avrei detto che il signor Campalans fosse piuttosto un contadino che un artista, sarà perché una giacca di velluto a coste su un maglione di lana accollato non è proprio l’abbigliamento più indicato per una cena come questa, o forse per l’aspetto massiccio e per quelle mani grandi, smisurate, che si direbbero mani di un uomo abituato a lavorare la terra piuttosto che la tela. E’ di una pausa tra le parole di elogio del signor Jimenez e il tentativo di schermirsi del signor Campalans che approfitta l’ultimo commensale per declinare rapidamente le proprie generalità. Mi chiamo Lorenzo Lupi, sono un medico italiano e vado in Argentina per curare certi interessi di famiglia. Il tutto detto di getto e con voce incerta, un po’ perché lo spagnolo non è la sua lingua e molto per l’imbarazzo. Ecco fatto, via il dente via il dolore, una frase asciutta, che si era preparato mentalmente mentre ascoltava le presentazioni degli altri e dalla quale aveva limato avverbi ed aggettivi inutili fino renderla stringata al massimo, in modo da spegnere il prima possibile i riflettori accesi sua persona. In una bocca chiusa non entrano mosche, dicono gli spagnoli, ed anche se il nostro dottore spagnolo non è, della gente iberica mostra di conoscerne ed apprezzarne almeno i proverbi, che quanto a conoscere ed apprezzare anche altro per ora non è dato sapere, possiamo solo confidare che su questo argomento forse sarà più chiaro il tempo. Obiettivo parzialmente riuscito, abbiamo detto, anche grazie all’aiuto non preventivato dei camerieri che hanno scelto proprio questo istante per iniziare a servire gli antipasti, così che l’attenzione e le chiacchiere dei commensali sembrano catturate dal presunto, prosciutto affumicato aromatizzato con paprica ed aglio che si accompagna con le olive nere ed una fetta di broa de milhos, o pane di miglio per chi non mastica il portoghese, piatto semplice ma gustoso che ci fa capire come questa sera si cenerà alla lusitana, in onore della città che abbiamo appena lasciato. Attenzione però, che le parole hanno un loro peso e se abbiamo detto parzialmente riuscito invece di perfettamente riuscito è perché qualcuno che ha ascoltato con attenzione le parole del giovane dottore c’è ed è la signorina Sampaio. In fondo è anche logico, che il giovane dottore è l’unica delle persone sedute a tavola ad essere vicina a lei per età, e non è neppure un brutto ragazzo per giunta, ma c’è di più, che questi motivi non sarebbero da soli sufficienti per accendere l’attenzione della signorina, Sono un medico, ha detto lui, e questo ha rimandato la ragazza dal collo lungo e sottile al ricordo di un altro medico un po’ più anziano, conosciuto oltre un anno prima proprio a Lisbona, all’Hotel Bragança. Strano, di medici in questo anno ne ha visti altri, ed il pensiero non è mai tornato a Ricardo Reis, come mai succede ora. Difficile da dire, sarà il contesto particolare, la nave, la partenza per il Sudamerica, sarà che i ricordi vivono una vita autonoma nelle nostre teste e quando decidono di saltare fuori lo fanno senza chiedere il permesso a nessuno. Sia quel che sia Marcenda è stata così risucchiata dal flusso dei suoi pensieri da dimenticarsi completamente dei suoi compagni di cena, ed è un peccato che si sia persa l’inizio della conversazione tra Alvaro de Campos e Ramon Jimenez, se non altro perché si sarebbe evitata di sobbalzare sulla sedia all’udire il signore con il monocolo fare il nome di Ricardo Reis, il medico a cui stava proprio pensando. Per fortuna noi non siamo la signorina Sampaio ed abbiamo ascoltato il dialogo tra i due signori sin dall’inizio così che possiamo qui riportare integralmente le loro parole a vantaggio del lettore. E’ stato come al solito il signor Jimenez a stimolare il discorso, buttando lì un’osservazione che aveva già da un po’ in animo di fare, esattamente da quando l’uomo con il monocolo aveva declinato le proprie generalità. E’ successo mentre stavano per attaccare il caldo verde, la minestra brodosa con cavoli, salsiccia di maiale, aglio e peperoni rossi, tipica di questi luoghi, che si è rivolto all’uomo con il monocolo dicendo che non credeva che esistesse un ingegner Alvaro de Campos in carne ed ossa, Voglio dire, ha spiegato, che pensavo che il suo fosse uno dei tanti eteronomi sotto i quali si è sempre nascosto quello stravagante di Ferdinando Pessoa, oltre al suo mi sembra di ricordare anche i nomi di Alberto Caeiro e di Ricardo Reis. Proprio così, proprio Ricardo Reis ha detto, proprio questo nome tra tanti, ed è a questo punto che l’attenzione della signorina Sampaio ha avuto un brusco risveglio. Esatto, ha risposto Alvaro de Campos, colto con il cucchiaio fumante in mano, ricorda benissimo, ma come vede io esisto, anche se non più come scrittore, ma solo come ingegnere. E come me esistono o esistevano anche le altre persone che ha nominato, Posso chiederle come mai ha scelto di non esistere più come scrittore, visto che è chiaro che di una sua scelta si tratta, insiste Jimenez, perdoni l’impertinenza della mia domanda, ma la sua scelta mi risulta difficile da comprendere, dato che lei e quelli del suo gruppo siete piuttosto famosi in Portogallo, Non so se siamo più o meno famosi, risponde l’uomo con il monocolo, con un sorriso accennato, come a dire di non preoccuparsi, che non ravvisa alcuna impertinenza nelle parole del suo interlocutore ma solo legittima curiosità, il fatto è che da quando anche Fernando Pessoa se n’è andato, quasi due anni fa, tutto è cambiato. E’ una specie di accordo che avevamo preso fra di noi alla morte di Alberto Caeiro, ci eravamo guardati in faccia e ci eravamo ripromessi che il giorno in cui fosse toccato a qualcun altro del gruppo di lasciare la compagnia, nessuno avrebbe più scritto una sola riga, una decisione presa di getto ma condivisa da tutti, anche se non aveva dietro nessuna motivazione particolare. Mentre si svolgeva questa breve conversazione nell’animo della signorina Sampaio si stava combattendo una vera e propria battaglia tra la parte che sosteneva che non stesse bene intervenire chiedendo notizie del dottor Reis, che gli altri commensali avrebbero potuto farsi di lei chissà quale idea, e la parte più curiosa che fremeva dalla voglia di saperne di più e che pensava che in fondo non c’era niente di male ad introdurre l’argomento. La curiosità è femmina dice un detto comune, difficile da smentire soprattutto ora che la ragazza sembra aver vinto ogni remora e si sta preparando a chiedere informazioni sulla persona che le sta a cuore, Che strana coincidenza, ho conosciuto un dottor Ricardo Reis, medico generico che proveniva dal Brasile giusto quasi due anni fa proprio qui a Lisbona, e mi chiedevo se potesse avere qualcosa a che fare con il Ricardo Reis di cui parla lei. E’ molto probabile, per non dire sicuro, che il mio amico sia la stessa persona che lei ha conosciuto, risponde cortesemente l’ingegner de Campos, dato che in quel periodo si trovava a Lisbona per i funerali di Pessoa. Ricordo di avergli spedito un telegramma per avvisarlo del fatto e poi di essere ripartito per Glasgow, da allora non l’ho più sentito, aggiunge pensieroso, quasi a cercare dentro di sé un motivo valido che possa giustificare una così lunga mancanza di contatti, Ed anche il dottor Reis ha fatto come lei e non ha più scritto nulla da allora, chiede Marcenda, Strana domanda signorina, risponde l’ingegner de Campos, credo di no, credo che anche lui abbia mantenuto fede alla nostra promessa, anche se come le ho detto non posso esserne certo perché sono anni che non ho sue notizie. Strana domanda, ha osservato l’uomo con il monocolo ed in effetti verrebbe da chiedersi cosa possa importare alla signorina Sampaio se il dottor Ricardo Reis ha scritto altre odi oltre alle pubblicate, dato che anche di queste poche lei non ha mai saputo nulla. In realtà la domanda non è per nulla strana, almeno per noi che sappiamo che in questo momento la ragazza dal collo lungo e sottile sta pensando ad una cartolina speditale dal dottor Reis e finita ora chissà dove. Nostalgia già di questa nostra età era l’inizio di quella che doveva essere una poesia dedicata a lei, con buona pace dell’ingegner de Campos che non crede che il suo amico abbia più scritto nulla, E’ buffo, prosegue l’ingegnere, ora che mi ci fa pensare credo che in casa di Pessoa ci siano almeno un paio di casse piene di poesie ed altra roba che abbiamo scritto in questi anni. Tutto materiale inedito, che quello che abbiamo pubblicato è solo una piccola parte, E come mai aveva tutto Pessoa, interviene la signora Zenobia, che fino a questo punto non aveva ancora parlato, Perché noi avremmo buttato via tutto, io e Ricardo Reis non eravamo mai contenti di quello che scrivevamo, riempivamo il foglio di cancellazioni fino a renderlo illeggibile, Fernando era quello più meticoloso del gruppo, era un po’ la nostra memoria, quello che si occupava di archiviare i nostri lavori. Ve l’ho detto, eravamo una specie di club, dove ognuno di noi aveva debiti di riconoscenza, letterariamente parlando, nei confronti degli altri, ci criticavamo ma anche ci influenzavamo a vicenda, bisticciavamo e poi tornavamo amici ogni volta. E’ difficile spiegarlo a chi ne è fuori ma è come se fossimo stati legati da un filo, tante perline colorate, tutte diverse per forma, colore, dimensioni, ma tutte grani dello stesso rosario, se mi è permesso un paragone un po’ blasfemo che forse con il rosario non avevamo molto a che fare, E non ha mai pensato a pubblicare il contenuto di quei bauli, insiste Zenobia, o almeno a recuperarlo, non teme che possa finire in mani sbagliate o peggio ancora andare smarrito, Le dirò signora, in tutta franchezza non ho mai pensato a tornare in possesso di quelle carte, e quanto alla possibilità di pubblicarle, dubito fortemente che possano interessare a qualcuno, Non vorrei mettere in dubbio le sue parole, interviene Jimenez, ma mi risulta difficile credere che uno scrittore non provi attaccamento verso le sue opere, ci pensi bene caro amico e valuti meglio la cosa, in fondo lei ha oggi l’opportunità di mostrarsi ai lettori per quello che è e non per il gruppo nel quale si è sempre identificato, Non avevo mai pensato a quello che mi state dicendo, dice l’uomo con il monocolo, e devo dire che l’idea mi stuzzica, ma non nel senso in cui l’intendete voi. Voglio dire l’idea di non esistere, l’idea che un giorno saltino fuori da quelle casse le nostre scartoffie e che qualcuno possa interpretarle come opera di Pessoa e noi, intendo io, Ricardo Reis ed Albero Caeiro come pseudonimi scelti da Fernando, come se non fossimo mai vissuti, Magari lo penseranno anche di me, osserva Jusep Torres Campalans, a ben pensarci la mia situazione ha parecchie analogie con la sua, sono solo, non ho famiglia né radici, solo pochi, pochissimi quadri che non so neppure che fine abbiano fatto, magari un giorno ci sarà qualcuno che dirà che non sono mai esistito, e la cosa in fondo non dispiace neppure a me. Fino ad ora il giovane dottore non ha ancora parlato, ad eccezione della brevissima presentazione a cui non ha potuto sottrarsi, e se è per questo non parlerà neppure adesso, ma a noi che abbiamo la possibilità di leggere nei pensieri di queste persone preme informare il lettore che anch’egli è della specie dei Campos e dei Campalans, di quelli cioè che amano l’anonimato, anche se non sappiamo quanto per scelta ragionata, quanto per timidezza e quanto per sfiducia nelle proprie capacità. Quello che sappiamo è che sta pensando a quanto gli piacerebbe sedere al tavolo a fianco per osservare queste persone senza dare nell’occhio, a quanto sarebbe interessante studiarne i visi, i gesti, senza sembrare curioso. Chi non è di questa specie è invece la signorina Sampaio, che però a differenza del giovane dottore non si vergogna a far conoscere a tutti il suo pensiero, Anche se questa mano mi ricorda che mi trascino dietro qualcosa di morto anch’io, dice, tuttavia credo di essere viva e un domani mi piacerebbe che ci fosse chi mi ricordi, Ma certo che è viva signorina, chiosa l’ingegner de Campos, ci mancherebbe che prendesse troppo sul serio i nostri ragionamenti, che noi stavamo solo scherzando, immaginando quanto a volte possa essere comodo l’anonimato, non si preoccupi, la prego, che per quanto possono valere le mie parole io le assicuro che lei è viva, vivissima, almeno né più né meno di quanto lo siamo noi.



domenica 16 dicembre 2012

un giorno e non finì la frase. Capitolo secondo.


Capitolo secondo

Se una farfalla in Brasile un giorno


Si parte. Se il fischio che si è levato dall’Highland Monarch poco fa è stato solo un colpetto di avvertimento, un segnale discreto buttato là tanto per dire, Cari signori, ci dispiace distogliervi dalle vostre occupazioni, ma ci corre l’obbligo di avvisarvi che stiamo per prendere il largo, compensando con il pregio della brevità il fastidio arrecato ai timpani, ora la situazione è diversa e la sirena può permettersi di essere finalmente se stessa e fare la voce grossa senza tentennamenti. E’ il momento degli addii, senza possibilità di ripensamento, chi c’è c’è e chi non c’è s’arrangi, come dicono i bambini, la nave va, ed un sibilo vigoroso è la colonna sonora di tanta partenza. Un fischio lungo e sgradevole, un concerto monocorde che sovrasta per intensità ogni altro suono e si dilata a raggiera in cerchi sempre più ampi, fino a penetrare nella testa delle persone in maniera così decisa da spiazzare anche i pensieri, e forse è un effetto voluto, che chi ha il compito di organizzare le partenze sa bene che quasi sempre si tratterebbe di pensieri tristi.
Come valorosi soldati impegnati nella strenua difesa del loro fortino assediato dai nemici, i viaggiatori hanno già occupato le balaustre lungo il perimetro della nave e dalle loro posizioni scrutano con attenzione il molo di Alçantara alla ricerca di parenti ed amici. I più veloci hanno fatto in tempo a posare le valigie nelle cabine a loro assegnate ed ora si muovono con disinvoltura cercando la posizione migliore, i più accorti hanno preferito sopportare l’impaccio di trascinarsi appresso i bagagli ma sono riusciti ad occupare i posti di poppa, che sono i migliori, con l’esperienza di quelli cha sanno che a volte vale la pena di fare un piccolo sacrificio quando si sa che può essere seguito da un grande premio, e gli indecisi, i lenti, i ritardatari, insomma la maggioranza di quanti sono saliti sul piroscafo a Lisbona, sono costretti ad accontentarsi di una scomoda collocazione lungo i ponti laterali, una scelta obbligata, un ripiego, che da lì è difficile vedere ed essere visti dalla gente che assiepa la banchina. Chi primo arriva meglio alloggia, questa è la regola non scritta che vale da sempre in circostanze come questa, e nessuno stia qui a parlare di cavalleria, di far spazio alle signore od ai bambini, che su questa nave di anime belle intenzionate a cedere un posto conquistato a fatica non se ne vede l’ombra.
Si parte, e il primo impulso è di precipitarsi in sala macchine per costringere l’addetto a schiacciare quel maledetto pulsante e far tacere per sempre la nota malefica. Sembra che ci sia un compiacimento da parte del transatlantico nel reiterare all’infinito il suo fischio, quasi a cancellare ogni dubbio sull’importanza del momento. La sirena dell’Highland Monarch come equivalente sonoro di una riga nera tirata su un foglio bianco a dividerlo in due con gesto tanto deciso quanto significativo. Attenzione signori, il suono che sentite è lo spartiacque fra il prima che avete vissuto ed il dopo che vi aspetta, quello che è stato è stato, si parte e da ora in poi l’unica legge a contare sarà quella del piroscafo. E’ un rumore intollerabile anche per i timpani più allenati, un rumore che per assurdo potrebbe non finire mai e coprire per sempre ogni altra voce, cancellando ogni possibilità di relazione, ogni pensiero. Considerazioni bislacche, figlie della collera, che nascono con la notte e si dissolvono all’alba, che poi ci si accorge che non è così, che non è mai morto nessuno per colpa di un rumore e con il passare del tempo ci si abitua a tutto. Già, a tutto. In fondo se l’uomo è arrivato fin dove è arrivato non lo deve certo al fatto di essere una macchina perfetta, ma alle sue capacità di adattamento. La perfezione non è poi quella gran cosa che raccontano, è anzi un limite, che incatena ed impedisce di crescere ulteriormente, la duttilità è il segreto, l’attitudine a cambiare con il mutare delle situazioni. E’ sempre stato così, anche in natura e la storia dell’evoluzione è lì davanti testimoniarlo. L’animale che non riusciva a stare dietro alle situazioni climatiche ed ambientali era destinato a soccombere e ad estinguersi, quello che ci riusciva poteva sopravvivere ed andare avanti, almeno sino al mutamento successivo. Certo, se spostiamo il discorso dalla natura al campo sociale le cose cambiano, e non poco, che quando un animale per salvarsi cambia pelle lo consideriamo in maniera positiva, ma se a cambiar pelle per riuscire a stare a galla nelle situazioni della vita è un uomo lo giudicheremo, ben che vada, un opportunista, ma si sa come vanno le cose, quello che è buono in un ambito non è detto che lo sia anche in un altro. E comunque questo è un altro discorso, che quello che vogliamo dire è che non sarà certo un suono, per quanto molesto, a cancellare il pensieri dalla testa delle persone imbarcate sull’Highland Monarch. E se fossimo di quelli abituati a vedere il bicchiere mezzo pieno, ed a trovare un lato positivo in ogni cosa, aggiungeremo qui che anche il baccano, in fondo, può risultare utile, non fosse altro per coprire i pianti e le grida della gente accalcata sul molo e sulla nave. Accontentiamoci del male minore, come si dice in questi casi, e giacché non è possibile sottrarci alla visione dei fiumi di lacrime che solcano i volti di chi va e di chi resta, ringraziamo la sirena che ci fa la grazia di non ascoltare il sonoro di questo spettacolo. 
L’aver trovato qualcosa di positivo in mezzo a questo girone dantesco ci ha messo di buon umore, così che la vista di un rubizzo signore di mezza età, con i radi capelli grigi spettinati dalla confusione, in equilibrio malfermo sopra una pila di valige, intento a scandagliare con sguardo serio il molo tenendo la mano destra sulla fronte come fosse una sentinella di una delle caravelle di Colombo pronta ad urlare Terra, Terra a squarciagola, ci suscita una risata che a stento riusciamo trattenere. Scusateci tanto ma quella mano a cosa serve, ci chiediamo, che in questo momento il porto è avvolto da una cappa di nebbia e di sole che possa offuscare la vista non c’è n’è la minima traccia. Non sembri irriguardoso nei confronti di questa gente, che sappiamo bene quanto struggente è il momento, ma la cerimonia della partenza oltre a celebrare il distacco, con tutto il carico di angoscia e disperazione che questo implica, porta con se anche più di un aspetto comico. E’ un po’ come quando si assiste ad un funerale nel quale, nonostante la gravità del momento, non riusciamo a sentirci coinvolti più di tanto, è fatale che l’attenzione dopo un po’ cali ed a volte si finisca per buttare l’occhio su episodi che per pudore ci limiteremo a definire imbarazzanti, ma che isolati dal contesto sembrerebbero francamente ridicoli. Alzi la mano chi non ha mai dovuto trattenere non dico una grassa risata ma almeno un mezzo sorriso ad un funerale, chi non ha dovuto mordersi la lingua o girarsi dall’altra parte o costringere i suoi pensieri a prendere un’altra strada per non tradire un improvviso moto di ilarità. E’ una cosa normale, non è cattiveria, né mancanza di rispetto, probabilmente è un modo come un altro per esorcizzare le paure, un tentativo di prendere le distanze e sconfiggere l’angoscia. Mettiamola così, a volte si ride per non piangere, e se qualcuno ha ancora dei dubbi gli ricorderemo qui che le barzellette sui funerali non le abbiamo di certo inventate noi. Insomma, sarà per colpa della distanza, che è notevole, sarà per via della nebbia, che avanza senza sosta, aggiungiamoci pure che anche l’emozione fa il suo nel giocare brutti scherzi, ma come non ridere del fatto che i saluti che si levano di qua e quelli che si levano di là non vadano proprio a buon fine ma anzi si incrocino in maniera bizzarra. Non è colpa nostra, ad esempio, se quella donna con il vestito a fiori che vediamo sul molo mentre con la mano sinistra si tiene il petto e con la destra agita un fazzoletto all’indirizzo della nave, credendo di riconoscere nella mano che si sbraccia da uno dei parapetti il proprio figlio, sta in realtà salutando un perfetto sconosciuto, mentre il figlio prediletto, con il cuore in gola per l’emozione, sta dirigendo i suoi baci in direzione di una signora che in comune con la madre ha solo la chioma candida. Ma in fondo cosa importa, che siamo tutti fratelli e sorelle, e l’emozione della partenza è la somma di tutto quello che ci portiamo dentro e non fa molta differenza a chi la comunichiamo. E si vede che quello di salutare la gente sbagliata è uno sport che riscuote un discreto successo sul molo di Alçantara, almeno a giudicare dal comportamento del padre della ragazza esile dal collo lungo e sottile, che sembra impegnato a rivolgere i suoi saluti in una direzione che è quella opposta a quella che occupa la figlia sulla nave, ed il fatto di essere in buona compagnia in questa sorta di inganno collettivo non è certo di alcun conforto. Lo vediamo sorridente, mentre agita la mano e poi si china verso una signora al suo fianco, le passa un braccio sulla spalla e con l’altro indica un punto imprecisato della fiancata dell’Highland Monarch, al che la signora abbozza un sorriso muove a sua volta la mano, seppur con meno vigore. E come noi lo vede anche la signorina in questione, e pur accorgendosi che il padre non sta salutando lei ma chissà chi, non si scompone più di tanto e soprattutto non si sottrae al rito collettivo dei saluti, ma adempie al compito che il momento richiede in maniera quasi distaccata, come se fosse un dovere da espletare prima possibile. Composta e misurata guarda in direzione del genitore increspando le labbra in un mezzo sorriso, un sorriso che è d’affetto, di comprensione e di ineluttabilità insieme, ed anche, ma sì, diciamolo, di delusione, poi alza appena la mano destra movendola leggermente in direzione del molo, una cosa di pochi secondi, che poi la abbassa per ricongiungerla alla sinistra che era rimasta abbandonata lungo il corpo. Come una mandria di animali selvatici che odora l’aria per annusare eventuali pericoli, la folla schiacciata contro la balaustra sembra aver riconosciuto la signorina come altro da sé, per questo se ne tiene prudentemente discosta, ma se gli animali usano l’olfatto per avvertire la presenza del più piccolo cambiamento nell’ambiente intorno a loro, la massa, che non è dotata della stessa abilità, è costretta ad accontentarsi di interpretare altri segnali, come il portamento austero, quasi rigido, della ragazza che incute deferenza in chi la osserva, ed il suo sguardo attento, fisso verso un punto lontano, che sembra isolarla dalla scena e renderla inavvicinabile come una principessa richiusa in una torre.
E giacché abbiamo iniziato questo racconto leggendo nella mente della gente, ci piacerà continuare ancora un po’ il nostro gioco. Abbandonato l’uomo con il monocolo al suo destino, sono i pensieri della ragazza quelli che ci interessano ora, pensieri che però ci dicono poco, che è difficile entrare nella vita di qualcuno in un punto scelto a caso e credere di poter capire tutto quello che è successo prima, ci limiteremo così a registrarne le riflessioni senza affannarci a cercare di capire ogni parola, sperando che quello che non ci è chiaro adesso lo possa diventare con il seguito della storia.
Se la mamma non fosse morta, pensa la signorina esile dal collo lungo e sottile, se questo cuore dispettoso non avesse improvvisamente iniziato a darmi dei problemi, se papà non avesse rovinato tutto innamorandosi di quella donna, se quel dottore venuto da Rio non fosse sparito nel nulla, se cinque mesi fa non fosse mancata anche la nonna, se i medici di Coimbra avessero badato ai fatti loro invece di dare consigli sciagurati a papà credendo di aiutarmi, se i miei zii brasiliani non fossero stati per una volta così generosi, se questa mano. Ferma, ferma. Tanti se, troppi. Un fiume di se che tracima in ogni direzione e che ci trova impreparati, che non immaginavamo certo di scoprire così tante cose quando abbiamo deciso di dare un’occhiata dentro alla testa di questa signorina. Chiediamo venia, ci dispiace aver curiosato con animo leggero nei pensieri di una ragazza così afflitta, una persona come questa merita tutta la nostra comprensione e non possiamo far altro che scusarci per la nostra indelicatezza e dirci dispiaciuti per le disgrazie di cui si lamenta, anche se al momento non siamo in grado di comprenderle tutte. Ma la storia della ragazza dal collo lungo e sottile è solo una fra le più di mille che potremo sentire su questa nave, che i suoi se sono i se dell’altra gente che si è appena imbarcata, magari non proprio i soliti, ma equivalenti. Se Hitler e Mussolini non avessero creato l’Asse, sta pensando ad esempio quel signore con barba e baffi, là in fondo. Se la guerra civile non avesse incendiato la Spagna, è il tarlo che abita nella testa di quella coppia con due bambini che sembrano gemelli e che sta piangendo mentre si abbraccia, se Salazar non avesse appoggiato i nazionalisti rischiando di trascinarci tutti in un conflitto che rischia di incendiare l’Europa e non solo, è la considerazione di quel giovane che abbiamo appena visto salutare una signora dai capelli bianchi come se fosse sua madre, ma che sua madre non è. Se, se, se. Se che ne incrociano altri come persone che si incontrano al centro di una piazza. Se i venti di crisi non mi avessero spinto ad emigrare per cercare fortuna in Argentina, pensa più d’uno dei ragazzi che viaggiano in terza classe, se il mio amore non mi avesse abbandonato ad un mese dalle nozze, è il pensiero di quel bel giovane con i baffi all’insù che ha scelto il nuovo continente per rifarsi una vita, ma è anche, strano a dirsi, lo stesso pensiero di quella sartina che si asciuga il sudore dalla fronte seduta sulle valige e che dire bella proprio non si può, la quale sta viaggiando verso il Sud America per un altro matrimonio, che i suoi genitori hanno combinato con un uomo che lei neppure conosce e che speriamo per lei possa essere più fortunato di quello che ha visto sfumare ai piedi dell’altare. Visto che ci troviamo ad assistere ad un’esposizione di se altrui, non ci sarà niente di male se ci permettiamo di aggiungerne qualcuno di tasca nostra. Se M. T. non avesse affidato il suo messaggio d’amore alle acque del Tamigi ma l’avesse consegnata direttamente a G. S., è la prima cosa che ci viene in mente, e subito dopo, se non avessimo letto Saramago, e se Saramago non avesse letto Pessoa, e se Pessoa. Ma ora basta, è meglio finirla qui, che a forza di andare a ritroso rischiamo di arrivare a Adamo ed Eva.
In fondo di se come questi è lastricata la strada della vita. Sono i figli di quei bivi che si presentarono un giorno sul nostro cammino, i nipotini di quegli aut aut davanti ai quali siamo stati chiamati un tempo a fare una scelta piuttosto che un’altra e che poi, a distanza di tempo, ci si ripropongono sotto forma di rimpianto, di rimorso, di dubbio postumo, in una parola sotto forma di se. E che senso può avere rammaricarsi per aver preso una strada piuttosto che un’altra tanto tempo prima, quando succede che spesso la nostra scelta non è stata fatta consapevolmente, che con molta onestà dovremo ammettere di esserci affidati in più di un’occasione alla sorte e con la stessa onestà sarà bene riconoscere anche che a volte non ci siamo neppure resi conto di essere ad un crocevia ed altre ancora abbiamo preferito lavarcene le mani, non operando alcuna scelta, demandando questo compito ad altri. Siamo fin patetici quando ci pavoneggiamo da decisionisti ed andiamo così fieri delle nostre capacità da sembrare più alti di una spanna. Ma chi crediamo di prendere in giro, che la sicurezza che esibiamo è solo un tentativo di darci coraggio, di farci guardare avanti e ricacciare i dubbi nelle profondità del nostro animo. Quando operiamo una scelta, non potremo mai essere sicuri che sia quella giusta, non c’è una formula matematica per sapere cosa è meglio in ogni circostanza, il tempo è un giudice che lavora con calma. C’è chi prende le sue decisioni seguendo l’istinto, chi segue il cuore, chi la ragione, chi si fida degli altri, chi tira ad indovinare. Tutti sistemi validi e sbagliati allo stesso tempo, che possono funzionare o no, che magari per un po’ vanno bene e poi si dimostrano inadeguati al bivio successivo, chi può dirlo. Quello che possiamo dire è com’è fatta la vigilia di una scelta, quanti dubbi, incertezze e ripensamenti la abitano. Un’aria pesante e viziata, una cappa fumosa che svanisce per incanto una volta che la decisione è stata presa, sotto energici colpi di ramazza che portano a galla una strana euforia, un’atmosfera quasi di festa, come se fosse necessario celebrare la fine del dubbio con un senso di sollievo, per andare incontro alle conseguenze della nostra scelta con animo più leggero.
La vita è come una partita a scacchi che si gioca contro il destino, su un campo di dimensioni enormi. Non sappiamo quanti pezzi abbiamo a disposizione e neppure come muoverli esattamente, è un gioco che impariamo un po’ per volta, man mano che lo giochiamo. Nonostante la nostra autostima possa essere più o meno grande, per quanti sforzi facciamo per convincerci di aver valutato le cose sotto tutti i punti di vista, ogni pezzo che muoviamo è spinto unicamente dal buonsenso, che non è possibile prevedere lo svolgimento che il gioco prenderà poco più avanti, è un calcolo troppo complicato, anche per le menti più allenate. Inutile atteggiarsi a strateghi, quello che facciamo è contentarci di scelte semplici, simili in questo ad un uomo che avanza movendosi con passo traballante nel buio, tendendo la mano in avanti in modo da accorgersi prima di un possibile pericolo. Quando facciamo una mossa un po’ diversa dal solito, il più delle volte non seguiamo un piano preciso, ma bluffiamo spudoratamente, animati dal piacere del rischio, con l’unico scopo di buttare un sasso in fondo ad un pozzo per vedere quanto è profondo. Ad ogni nostra mossa il destino risponde con una mossa analoga e a volte, quando i suoi pezzi sono vicini a noi, ci è possibile comprendere i motivi che l’hanno ispirata, ma quando i pezzi che il destino muove sono lontani dai nostri occhi la questione si complica non poco, che sappiamo che il nostro avversario ha fatto una mossa ma non quale, forse ce ne renderemo conto più avanti, forse sta accumulando truppe sul nostro lato più debole in previsione di un attacco, forse si sta solo difendendo. Non è facile capire le mosse del destino, anzi, a volte è proprio impossibile, considerando che ce la mettiamo già tutta solo per dare un senso a quelle che facciamo noi, e badare troppo ai movimenti dell’avversario rischierebbe di farci perdere la concentrazione sui nostri pezzi. In mezzo a tanti dubbi, di una cosa sola siamo certi, che la partita deve essere giocata. Non ci possiamo sottrarre al nostro ruolo, le regole che ancora non conosciamo le impareremo via via, sulla nostra pelle, si tratta di far tesoro dei nostri errori, ma non solo, che sarebbe anche troppo facile, in realtà è bene che ci abituiamo alla svelta all’idea che questo gioco ha una componente di imponderabilità dalla quale non si può prescindere. Troppe variabili, troppi fattori da considerare. Ogni volta che un pezzo cambia posizione sulla scacchiera, è tutto lo scenario che muta, strategie che sembravano ben avviate muoiono in un baleno e nel mare delle possibilità si schiudono mille sviluppi futuri, destinati a loro volta ad irrobustirsi od a naufragare con la mossa successiva. E’ bene non innamorarsi troppo di un progetto o di un’idea, che rischiano di essere spazzati via nello spazio di due mosse, questa è una delle lezioni che la partita ci impartisce. E per richiamare bruscamente alla realtà i languidi sognatori che inseguono chimere, sarà bene chiarire ancora una cosa a proposito di questa sfida, che non c’è nessun mistero, nessun dubbio sull’esito. Si sa in partenza chi vince. Vince sempre il destino, è scritto. Noi possiamo solo accontentarci di giocare la nostra partita e cercare di impegnarlo il più a lungo possibile.
Messa così la cosa è meno triste di quanto si possa pensare, che il fatto di non dover portare a casa il risultato finale ci permette di giocare la nostra partita senza assilli. E se anche la gente che affolla le balconate dell’Highland Monarch cominciasse a ragionare in questa maniera e la smettesse di cercare di dare un senso a tutti i se che l’angustiano, avrebbe di che guadagnarne in serenità. A volte è necessario sottrarsi alla logica della causalità ed arrendersi all’idea che esistano anche fenomeni che non sono spiegabili, almeno non ancora. E’ la scienza a dirci questo, che non tutti i sistemi sono lineari, e non sempre ad una piccola variazione dello stato iniziale corrisponde una variazione egualmente piccola dello stato finale. Se così fosse, se potessimo mettere in fila catene di eventi legati dal rapporto causa-effetto, potremmo spiegare praticamente tutto, fino al punto di prevedere una tromba d’aria in Texas dal battito d’ali di una farfalla in Brasile, come diceva Edward Lorenz. Per fortuna non è così, per fortuna ci sono anche i sistemi non lineari, quelli dove ad un cambiamento infinitesimale all’inizio può corrispondere uno scarto enorme alla fine o viceversa, o comunque quei sistemi dove data una variazione iniziale non è possibile prevedere quello che succederà in seguito. In fondo è bello sapere che l’uomo non ha ancora scoperto tutte le leggi della natura. Dover ammettere che il nostro destino non è tutto nelle nostre mani ma anche, e soprattutto, in quelle del Fato, ci fa sentire più fiduciosi. Magari perché riponiamo maggior fiducia nella sorte che negli uomini, ma questo è un discorso che riguarda solo noi.

domenica 4 marzo 2012

Dalle stelle alle stalle (e ritorno)



Pubblicato sul sito del giornale online "Città della Spezia" il racconto Dalle stelle alle stalle (e ritorno) di Héctor Genta, contenuto nell'ebook "La prima Antologia del calcio Astrale" (Cletusproduction ed.)
http://www.cittadellaspezia.it/La-Spezia/Cultura-e-Spettacolo/-Dalle-stelle-alle-stalle-e-ritorno-104194.aspx

domenica 18 dicembre 2011

Strenna natalizia!





E' uscita da pochi giorni l'Antologia del calcio astrale, primo ebook della casa editrice Cletus production. 
L'antologia raccoglie i racconti di un gruppo eterogeneo di scrittori (Cletus Alfonsetti, Stefano Amato, Martino Baldi, Marco Candida, Marco Crestani, Samuele Galassi, Franz Krauspenhaar, Antonio La Malfa, Héctor Genta, Giuseppe Manfridi, Mauro Mirci, Gianni Montieri, Mario Pischedda, Paola Ragnoli, Ezio Tarantino, Rocco Traisci) sul tema del gioco del calcio. La prefazione è di Enrico Vaime. 
Qui è possibile acquistare l'ebook.   

P.S.: scusa Héctor, ma nella raccolta c'è anche un tuo racconto. Ho rivisto io la bozza e poi l'ho spedito senza avvisarti. Non te la prendere (anche se è già la seconda volta che lo faccio...)

sabato 27 novembre 2010

sabato 7 febbraio 2009

Felicità


Un giorno un bambino chiese al padre: “Padre, cos’è la felicità?” Il padre provò a spiegarlo cercando di utilizzare le parole più semplici, aiutandosi con esempi e con metafore. Ma il bambino non capiva, aveva bisogno di qualcosa di reale, da toccare. Il padre ci pensò un po’, poi portò al figlio un fiocco di neve. Ora il bambino era felice, almeno fino a quando del fiocco di neve che aveva preso in mano non rimase che qualche goccia d’acqua. “Padre è questa la felicità?” chiese stupito il bambino “Qualcosa che quando credi di possederla, all’improvviso ti sfugge dalle mani?” “No, figlio mio,” rispose il padre “questa è l’illusione, la falsa idea di felicità. La felicità è quello che rimane dopo, quando penserai al momento in cui avevi in mano il fiocco di neve. Quando ti sarai liberato dall’idea del possesso, solo allora potrai apprezzare la vera felicità.”

[H. Genta]

domenica 12 ottobre 2008


Raccontare il mare, descriverlo accontentandosi di osservarlo da lontano, è innanzi tutto una forma di rispetto, ma anche un modo di prolungare quel piacere che verrebbe a cessare nel momento in cui l’oggetto del nostro racconto fosse toccato.
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L’esperienza con una mano dà e con l’altra toglie, sublimare è una forma raffinata di provare piacere: guardare e non toccare per continuare a desiderare ed alimentare così la voglia.
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Il vero piacere non deve essere tangibile, esso porta sempre con sé anche un po’ di sofferenza.
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La poesia è un modo di sublimare la realtà.

[H. Genta]