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sabato 29 marzo 2025

Il nervo ottico – María Gainza

 


Il nervo ottico – María Gainza
(trad. Marco Amerighi)
Neri Pozza editore (I ed.2004)

Il nervo ottico è un'autofiction abbastanza sui generis, un romanzo costituito da capitoli che possono rappresentare anche racconti a sé e risultano costruiti tutti con lo stesso schema: la narrazione in prima persona di una protagonista molto simile all'autrice (anche lei di nome María e critica d'arte di professione) intrecciata con riflessioni su pittori del XIX e XX secolo, riflessioni che Gainza utilizza con sapienza per spiegare meglio la storia che sta raccontando.
Diciamo subito che le parti in cui la scrittrice argentina parla di arte sono quelle più convincenti, perché mette le sue competenze professionali al servizio della trama e la scrittura procede fluida e coinvolgente. Meno efficace, purtroppo, risulta la sua penna quando racconta le vicende della protagonista e degli altri (pochi) personaggi, che risultano piuttosto "piatte".
L'arte come specchio della vita, un modo per provare a comprenderla, questa sembra essere l'idea intorno alla quale è costruito il libro, però la scrittrice argentina sembra accontentarsi e non la sviluppa come potrebbe, limitandosi a riprodurre il modello che ha elaborato senza cercare di unire i vari fili che ha seminato, lasciando così che i capitoli risultino privi di collegamento e manchi (volutamente?) una visione d'insieme.
Benino, ma non bene. Peccato.

sabato 15 marzo 2025

Testimonianze inattendibili – Vladislav Otrošenko


Testimonianze inattendibili – Vladislav Otrošenko
(trad. Elisa Mario Caramitti)
Voland editore (I ed.1997)

Un testo delizioso. È sufficiente scavare sotto la superficie di quello che a una lettura superficiale potrebbe sembrare poco più di un gioco, per scoprire l'opera raffinata di uno scrittore di razza, il perfetto congegno letterario di una delle firme più interessanti della letteratura russa contemporanea.
Un libro (kniga) – spiega lo stesso Otrošenko in un'intervista a eSamizdat – che non è un romanzo (roman), ma una raccolta di tre racconti (povesti, diversi nella struttura da russkazi e novele) collegati fra loro e scritti in periodi diversi, tre storie che si muovono sul terreno minato nel quale si incrociano realtà, fantasia e mito.
Quello che travolge il lettore è un universo rutilante, una girandola di personaggi e situazioni improbabili: un editore (forse) inesistente, il proprietario di un negozio francese di fotografia, una fantomatica spedizione di un numero imprecisato di reggimenti cosacchi in India finita sull'Himalaya solo per spaventare gli inglesi. In mezzo a una folla di generali, atamani, ufficiali dell'esercito e archivisti, scopriamo l'esistenza e il ruolo quasi metafisico del tamburmaggiore che odiava i viaggi, raccontata in contemporanea alla storia di suo padre che si incrocia con quella del regno del Bhutan e poi facciamo la conoscenza dell'improbabile arte degli jalonneurs e altro ancora… Una serie di fuochi d'artificio senza soluzione di continuità, un caleidoscopio che affascina e diverte ma che rischia di farci classificare sbrigativamente l'autore tra gli epigoni di Gogol' e Borges (e mettiamoci anche Pavić) e morta lì.
Attenzione, però, perché siamo al cospetto di uno scrittore di razza che merita un'analisi più attenta, Otrošenko è uno di quelli, come Vila-Matas e Fresán, che non scrivono letteratura di consumo ma richiedono l'impegno del pubblico. I povesti di Testimonianze inattendibili non sono sterili esercizi di stile, ma il tentativo di trovare una via personale alla narrazione: sono racconti con il doppio fondo, perché la conclusione di ognuno di essi, la verità che ci viene proposta, mostra delle crepe un secondo dopo essere caduta sulla pagina, aprendo il terreno all'interpretazione del lettore. La realtà non esiste, il tempo non esiste, o meglio "non ci sono né passato né futuro, ma soltanto in unico, indivisibile ed eterno Presente. Tutto è come è, tutto è per sempre.". E per completare il quadro, neppure lo spazio esiste, come evidenziano gli jalonneurs con la pantomima con cui disorientano i nemici sul campo di battaglia. L'unica cosa che esiste è la "mutevole e possente immaginazione" dell'Onnipotente. Una specie di infinite jest dal qual non si salva nemmeno la letteratura: i vari testi che non sembrano avere rapporti tra loro, non sono altro che "frammenti scompaginati di un solo e unico Testo, davvero coerente e omnicomprensivo. L'indipendenza dell'uno dall'altro è un illusione, e la loro ricchezza di contenuti ingannevole, poiché ciascuno, preso separatamente, rappresenta un confuso episodio, ina proposizione incompleta e talvolta soltanto un grandioso morfema o un divino segno d'interpunzione, e non racchiude in sé neppure un'infinitesimale inezia di quello stupefacente significato che trarrà origine dalla loro completa fusione in un Testo definitivamente rivelato e autenticamente compiuto." Vladislav Otrošenko, circoletto rosso su questo nome.

sabato 8 marzo 2025

La pazienza dell'acqua sopra ogni pietra – Alejandra Kamiya

 


La pazienza dell'acqua sopra ogni pietra – Alejandra Kamiya
(trad. Elisa Tramontin)
La Nuova Frontiera editore (I ed. 2023)

Una raccolta di racconti che testimonia l'indiscutibile capacità dell'autrice argentina di padroneggiare questo genere letterario. Quella di Kamiya è una voce facilmente riconoscibile, anche per via della prosa poetica con cui interpreta le pagine. Una scrittura accattivante, una buona gestione del ritmo e dei tempi della narrazione, dell'uso del colpo di scena, del non detto, della sospensione, dell'incursione del surreale nella quotidianità… eppure.
Già, c'è qualcosa che non convince fino in fondo. Si tratta di racconti ben costruiti ma che mancano di anima, di profondità, rimangono in superficie senza addentare la pagina, suscitano emozioni che però l'autrice tiene a freno con mano sicura, come se non volesse scoprirsi più di tanto. L'impressione è che Kamiya stia esplorando le possibilità del romanzo senza trovare davvero la propria strada: ci sono racconti che dialogano tra loro e che richiamano, molto alla lontana, la struttura di Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson, alternati ad altri che vanno in direzione diverse, tentativi di narrazione al condizionale, animali parlanti, irruzione dell'onirico nel reale, il fantastico…
Peccato, perché la scrittura è di livello ma forse si gioverebbe della scelta di un registro preciso (e il surreale mi pare quello più congeniale all'autrice), di una strada da percorrere con più decisione e più in profondità. Invece La pazienza dell'acqua sopra ogni pietra a volte a volte sembra essere un esercizio di stile, storie su filo di un calligrafismo fine a se stesso, bei racconti che si dimenticano con facilità.

sabato 1 marzo 2025

Spam – Rafael Spregelburd



Spam – Rafael Spregelburd
(trad. Manuela Cherubini)
Cue Press editore (I ed. 2015)



Un'opera teatrale che racconta un mese della vita di un uomo che ha perso la memoria. I trentun capitoli che destrutturano la narrazione non seguendo l'ordine cronologico sono già una dichiarazione d'intenti: il tempo, uno dei cardini su cui si regge la nostra esistenza, è andato in frantumi, l'uomo e la società stanno andando in frantumi.
Troviamo Mario Monti (nomen omen), protagonista del testo, in una stanza d'albergo con uno smoking usato, scatole piene di bambole e un laptop, un bizzarro armamentario partendo dal quale cerca di ricostruire la sua storia. "Viaggio senza valigia. Senza passato. Però ho la connessione. È quel che ho." Parole chiare, una metafora potente della contemporaneità e dello smarrimento di identità. La falsa illusione di demandare alla cronologia del computer il ruolo della memoria personale: davvero lì dentro c'è tutto quello che siamo, spazzatura compresa (e viene in mente il Delillo di Underwood)?
La scrittura semplice e il tono apparentemente giocoso e leggero, creano un corto circuito con la drammaticità degli avvenimenti che fanno da sfondo alla vana ricerca del protagonista di mettere ordine nella sua vita. Con ironia amara (e ci sarebbe da discutere anche sul ruolo negativo giocato dal ricorso all'ironia da parte della contemporaneità, Giorgio Vasta docet), Spregelburd descrive l'irruzione del virtuale nelle nostre vite, sottolineando come internet sia diventato lo standard su cui sono conformate e come questo standard abbia modificato la comunicazione. La promessa di semplificazione con cui era stata accolta la nuova tecnologia si è rivelata un cavallo di Troia che ha portato dentro la società solo disordine e complessità. È un mondo sconosciuto, che non permette più al protagonista di Spam di orientarsi e nel suo tentativo di mantenersi a galla Mario Monti precipita sempre più nelle sabbie mobili di una quotidianità che mescolando reale e virtuale, lo ha reso invisibile in entrambi i mondi.
Le parole mentono ma gli oggetti da soli non ci permettono di orientarci nella notte.

sabato 22 febbraio 2025

Corpi idrici – Gerald Murnane



Corpi idrici – Gerald Murnane
(trad. Elena Malanga)
La nave di Teseo editore (I ed. 2018)

I racconti compresi in questa raccolta rappresentano un ottimo punto di partenza per avvicinarsi alla scrittura di Murnane. Non è semplice prendere le misure all'autore australiano perché dietro la facciata di convenzionalità si nasconde un battitore libero, un viaggiatore solitario nello spazio del postmoderno (inteso in senso molto lato), un po' come lo è stata Clarice Lispector nell'ambito del modernismo. Mi riferisco unicamente all'atteggiamento nei confronti della pagina bianca, a come entrambi decidano di costruirsi da soli gli strumenti necessari ad affrontare l'impresa e va da sé che si tratta di strumenti diversi e che le analogie tra i due autori finiscano qui.
Quelli di Corpi idrici, sono racconti costruiti su trame esili e che non vanno da nessuna parte: i temi sono il ricordo, le corse di cavalli, il rapporto contradditorio con la religione, i sensi di colpa, le inibizioni adolescenziali che i personaggi si trascinano ben oltre quell'età e poco altro. Si tratta di storie caratterizzate da un rigore formale e una precisione dei dettagli che l'autore spinge all'eccesso, appesantendo la narrazione con continui riferimenti spazio-temporali al punto che l'ossessività sembra essere l'aspetto dominante della scrittura. Anche la postura della voce narrante contribuisce al senso di straniamento: si tratta di una terza persona che dice quello che i protagonisti fanno o pensano, tenendo così il lettore lontano dall'azione. Tutto ciò, unito all'assenza dei nomi propri, comporta un depotenziamento della partecipazione emotiva del lettore che non riesce a identificarsi con i personaggi.
Perché questa scelta? Perché quello che interessa all'autore, non è raccontare una bella storia, ma mostrare come immagini e sentimenti si possano trasformare in parole, come la scrittura trasformi il mondo invisibile in mondo visibile.
Si è detto da qualche parte che i racconti di Murnane sono simile alle scatole di Joseph Cornell e mi sembra un paragone corretto: attraverso le storie lo scrittore australiano ci fa entrare nel suo laboratorio di scrittura e ci mostra come tutto parta da un'immagine, dalla descrizione di dettagli che fanno da amplificatore per la narrazione creando una rete, un ordine tra fatti, persone, immagini e pensieri, una mappa spazio-temporale che ingloba realtà e fantasia formando altre immagini collegate fra loro.
Ecco la scrittura di Murnane: non i fatti ma l'atmosfera, non l'azione ma quello che nasce dall'immagine.



domenica 26 gennaio 2025

Montevideo – Enrique Vila-Matas


Montevideo – Enrique Vila-Matas
(trad. Elena Liverani)
Feltrinelli editore (I ed. 2022)


Libro di libri. E di scrittori. Perché ne compaiono a decine nelle pagine di Montevideo, in una girandola che stordisce il lettore costretto a rincorrere l'autore tra Parigi, Barcellona, Lisbona e Montevideo, finendo sempre con il fiato corto perché quando gli sembra di averlo raggiunto scopre che il narratore ha spostato l'orizzonte un po' più in là.
Libro di libri. E di tesi. Vila-Matas, in bilico tra il rigore dello studioso che esplora le possibilità del postmoderno e il piacere del cultore di divertimenti sofisticati, galleggia tra l'essere il più borgesiano degli scrittori contemporanei e il più erudito dei giocolieri di parole. Si parla, come sempre nella bibliografia dell'autore catalano, di scrittura e letteratura; di quest'ultima ci regala un catalogo di cinque tendenze, categorie attraverso le quali salta nel corso della trama, come se cercasse una strada personale alla narrazione, reinventando continuamente la forma romanzo e aggiungendo da questo punto di vista un ulteriore tassello alla ricerca sviluppata nelle opere precedenti.
Libro di idee. Una mare magnum di idee che si rincorrono, aprono porte su camere sconosciute oppure si arrestano davanti a un vicolo cieco. Idee che non cercano la coerenza ma traggono linfa dall'ambiguità nella quale si generano e volano alla ricerca di un luogo dove far dialogare realtà e fantasia, presenza e assenza, un luogo simile alla stanza tutta per sé di Virgina Woolf: la porta come via di fuga, passaggio verso un'altra dimensione, speranza di salvezza.

Curioso che tra tutti i riferimenti a Cortázar dei quali è disseminato Montevideo, sia quello a Componibile 62 – che compare quasi per caso – il più rilevante. Anche nel romanzo dello scrittore argentino infatti, ritroviamo la ricerca di un varco, un passaggio verso una zona ideale, un spazio di libertà che assomiglia molto a quella zona di ambiguità, quel regno di possibilità verso cui tende la ricerca di Vila-Matas.

domenica 19 gennaio 2025

Il ponte sulla Drina– Ivo Andrić

 


Il ponte sulla Drina– Ivo Andrić
(trad. Bruno Meriggi)
Mondadori editore (I ed. 1945)

"La vita è un miracolo impenetrabile, perché si consuma e si disfà incessantemente, eppure dura e sta salda come il ponte sulla Drina."

Lo stile di Andrić è quello che ritroviamo in Kiš e in Pavić: il respiro delle terre slave, l'incrocio di culture e religioni diverse, storie che sembrano rubate dalle Mille e una notte, un calamo di reale e fantastico nel quale hanno intinto la penna scrittori di talento.
Un viaggio lungo quattrocento anni lungo la frontiera che divide l'Est dall'Ovest; il ponte di Višegrad come metafora di una linea che unisce storia e epica, Oriente e occidente, favolistica e romanzo, vecchi e giovani, mutamento e tradizione. Perché il ponte unisce, non divide. E resiste – sempre uguale a se stesso – al passare del tempo, mentre la vita scorre sotto le sue arcate come le acque del fiume Drina, a volte impetuosa, a volte lenta.
La grande capacità affabulatoria dell'autore si esprime non solo attraverso le decine di racconti di esistenze diverse che intreccia mescolando storia e leggenda con penna sicura, ma anche nel ritmo che riesce ad imprimere alla narrazione dimostrando di saper leggere perfettamente la storia. Fino agli eventi della seconda metà dell'Ottocento, infatti, il romanzo si caratterizza per una scrittura ampia, raccontando i momenti di conflitto e di sostegno reciproco tra le comunità turche, ebraiche e cristiane di Višegrad; è un equilibrio che sembra quasi cristallizzato, almeno fino al 1878, quando l'occupazione austriaca mette in moto il motore della storia. Fino ad allora i mutamenti erano stati soli politici ma dall'ultimo quarto del XIX secolo diventano anche sociali e si crea una linea di frattura destinata ad allargarsi sempre più. Se all'inizio il conflitto tra nuovo ed antico trova un equilibrio, con la vita esteriore che procede secondo i dettami del progresso e quella interiore che lavora nel silenzio, le nuove idee acquisteranno spazio sempre più rapidamente, precipitando la storia lungo un piano inclinato che culmina nel 1914, anno spartiacque tra due epoche.
Con un ritmo che diventa stringente, Andrić interpreta in maniera splendida la velocità del cambiamento, identificando nella ferrovia prima e nella stampa poi i principali vettori del nuovo che avanza e nella generazione dei "giovani ribelli" il protagonista della nuova era. Sono ragazzi istruiti, che portano le idee di libertà e dignità dell'individuo in un ambiente che era vissuto per centinaia d'anni all'interno di una bolla. La parola come succedaneo dell'azione, l'idea come succedaneo della realtà: è una generazione ricca di illusioni e che vuole cambiare il mondo, ma si sa che di buone intenzioni… L'accelerazione impressa agli avvenimenti si rivelerà un Moloch ingovernabile, principi, valori e punti di riferimento che vigevano da secoli saranno rimpiazzati da disordine e confusione, che culmineranno con la tragica caccia al serbo.
"nella vita non c'è niente di risolto, niente si risolve, né esiste la possibilità di soluzioni complete, ma tutto è difficile e ingarbugliato."

sabato 11 gennaio 2025

Un nuovo nome. Settologia VI-VII – Jon Fosse

 


Un nuovo nome. Settologia VI-VII – Jon Fosse
(trad. Margherita Podestà Heir)
La nave di Teseo editore (I ed. 2021)

L'ultimo volume della Settologia è un lento approssimarsi alla fine.
Asle, che aveva dedicato la vita a dipingere per esorcizzare il dolore, senza però riuscire a eliminare davvero le immagini che gli facevano male ma solo a renderle più sbiadite e a farle parlare in maniera silenziosa, decide di abbandonare la pittura e convivere con la sofferenza perché ora aspira a scomparire nel vuoto e nel silenzio lasciando che le immagini che ha in testa si fondano in una sola che non può essere dipinta e che gli trasmette calma e pace, un'immagine interiore alla quale ha cercato di avvicinarsi negli anni in cui ha dipinto e che, come i sui quadri, resta inconclusa perché esprime una tensione verso un altrove indistinto.
Il dipinto come fusione di forma e contenuto che diventano spirito, immagine come anima e materia che unite insieme avvicinano l'uomo a Dio. Dio che è al tempo stesso lontano e vicino, "buio luminoso insito nel profonde dell'essere umano", "assenza che è presenza", un'unione degli opposti simile a quella che realizza l'Arte.

Asle, che ha dedicato la vita a dipingere per avvicinare quella luce dentro di sé e lentano da sé è Fosse stesso, che ha dedicato la vita a scrivere con il medesimo scopo, con la stessa fermezza nel perseguirlo e la stessa certezza di non poterlo raggiungere.

domenica 29 dicembre 2024

Austerlitz – W.G. Sebald

 


Austerlitz – W.G. Sebald
(trad. Ada Vigliani)
Adelphi editore (I ed. 2001)


Sul tentativo di penetrare l'oscurità in cui siamo immersi.

W.G. Sebald è probabilmente l'autore che più ha influenzato la generazione di scrittori attuale e Austerlitz il romanzo che l'ha innalzato fino al ruolo di personalità di culto nel panorama letterario del primo quarto del XXI secolo.
La trama si dipana a partire dall'incontro della voce narrante con Jacques Austerlitz, professore di storia dell'Architettura, in una sala d'attesa della stazione ferroviaria di Anversa nel 1967. Da lì nasce una frequentazione episodica, fatta di conversazioni che vertono sulla struttura di edifici e costruzioni, chiacchierate apparentemente casuali che si interrompono per riprendere all'incontro successivo in un altro luogo, ampliandosi e arricchendosi di digressioni come cerchi generati da un sasso che cade in uno stagno. È la prosa caratteristica di Sebald: una scrittura che procede per associazioni di idee, uno stile ellittico che mescola realtà e finzione, arricchendo la narrazione con inserti fotografici e superando il genere romanzo ibridandolo con la biografia, il racconto di viaggio, il saggio. Una prosa più attenta ai temi che allo sviluppo dei personaggi, che a volte finiscono per risultare un po' deboli.
Dalle riflessioni sull'arte le discussioni si allargano al rapporto tra spazio e tempo, al viaggio e al movimento. Argomenti che scivolano inesorabilmente uno nell'altro, spingendo il protagonista ad andare indietro con il pensiero, alla giovinezza prima e all'infanzia poi, in un viaggio alla ricerca del tempo perduto e delle sue origini.

Austerlitz è un libro che pone la lotta tra oblio e memoria al centro del dibattito letterario. Da una parte ci sono i meccanismi di difesa, i tentativi di rimozione che l'inconscio mette in atto per non cancellare il passato e proteggersi dalle sofferenze, dall'altra il bisogno di sapere chi siamo, la volontà di vedere il proprio percorso nella sua interezza, senza tralasciare alcun particolare, conoscere la propria storia per dare un senso all'esistenza, ricordare il passato per tenerlo vivo. E in mezzo c'è l'uomo immerso nel labirinto della storia, che si sforza di vivere l'istante, di raggiungere quel luogo fuori dal tempo da dove si abbraccia tutto con uno sguardo, il punto fermo del mondo che ruota, l'Ehrebung del Burnt Norton eliotiano.
"Mi sono sempre ribellato al potere del tempo escludendomi dai cosiddetti eventi temporali, nella speranza – come penso oggi, disse Austerlitz – che il tempo non passasse, non fosse passato, che mi si concedesse di risalirne in fretta il corso alle sue spalle, che là tutto fosse come prima o, per meglio dire, che tutti i punti temporali potessero esistere simultaneamente gli uni accanto agli altri, cioè che nulla di quanto racconta la storia sia vero, che quanto è avvenuto non sia ancora avvenuto, ma stia appunto accadendo nell’istante in cui noi ci pensiamo, il che naturalmente dischiude peraltro la desolante prospettiva di una miseria imperitura e di una sofferenza senza fine."

"A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce. Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, disse Austerlitz, mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto."

sabato 14 dicembre 2024

Il mio anno di riposo e oblio – Ottessa Moshfegh

 


Il mio anno di riposo e oblio – Ottessa Moshfegh
(trad. Gioia Guerzoni)
Feltrinelli editore (I ed. 2018)

Romanzo interessante. Il tema trattato, il disagio esistenziale di una ragazza WASP, bellissima e ricca all'alba del nuovo millennio, sembra la sceneggiatura di un film hollywoodiano e presenta almeno due rischi evidenti: manca di originalità e presta il fianco a semplificazioni e facili cadute nei luoghi comuni (che comunque nel romanzo ci sono, soprattutto nella descrizione dei personaggi secondari). La bravura di Moshfegh consiste nel saper operare una scelta narrativa coraggiosa e controcorrente: il sonno come medicina per superare i traumi e resettare un'esistenza ingarbugliata, mettere la sordina ai sentimenti, scendere per un giro dalla giostra della vita per poi ripartire in maniera diversa. Ma non è tutto qui, con una scrittura essenziale priva di lampi particolari, sostenuta da venature di humor nero che provano a renderla meno scarna, l'autrice riesce a tratteggiare una protagonista dalla personalità complessa, ricca di sfaccettature, che sfugge alle schematizzazioni e si rivela capace di interpretare un ruolo di Bartleby contemporaneo in maniera credibile.
Allargando il ragionamento dal particolare all'universale, ne risulta un romanzo che rappresenta anche un invito a non fermarsi all'apparenza delle cose, alla semplicità che copre la complessità, alla velocità che nasconde la lentezza, al convenzionale che sopraffà l'individualismo.
"Il dolore non è l'unico banco di prova per crescere, mi dissi. Il sonno aveva funzionato. Mi sentivo morbida e calma e sentivo le cose. Era una bella sensazione."

 

sabato 7 dicembre 2024

Poeta cileno – Alejandro Zambra



Poeta cileno – Alejandro Zambra
(trad. Maria Nicola)
Sellerio editore (I ed. 2020)


El Chino.

Un libro che procede lungo due linee narrative: da un lato il rapporto padre ("padrastro")-figlio e dall'altro la descrizione della comunità dei poeti cileni. A fare da trait d'union tra le due parti è il senso di appartenenza, il discutere, lo stare insieme. Interessante notare come l'intera trama scorra lungo una china abbastanza liquida: i rapporti tra gli individui non evolvono, le cose finiscono, i personaggi non si impegnano fino in fondo per costruire qualcosa che duri nel tempo. Così il rapporto tra Gonzalo e Carla finisce, così quello tra lui e Vicente (il figlio di lei) si interrompe, così l'ambizione di Gonzalo di diventare poeta si esaurisce dopo la pubblicazione del primo libro e alla fine solo il giovane Vicente sembra deciso ad affrontare la sfida per realizzare i propri sogni con convinzione, come se l'autore affidasse alle nuove generazioni le speranze per un domani migliore.
Zambra è il golden boy della letteratura latino-americana e Bolaño il modello al quale si ispira apertamente, al punto che Rodrigo Fresán ha definito questo libro "I detective domestici", per indicare come l'autore prediliga nella narrazione una dimensione intima piuttosto di quella epica scelta dal suo più famoso connazionale. Proprio questo sembra il "minus" di Zambra, che sembra avere le capacità di fare di più, di andare in profondità e invece si accontenta di rimanere nel perimetro del pop. È un peccato, perché si tratta di uno scrittore che padroneggia la tecnica e ha fantasia, eppure a tratti sembra pigro. Come Recoba, privilegia la giocata ma manca d'intensità, lavora per sé e non per la squadra. Scrive bene – come Recoba giocava bene – ma il Chino non era il Pibe e Zambra non è Bolaño.


domenica 1 dicembre 2024

Per sempre – Richard Ford



Per sempre – Richard Ford
(trad. Cristiana Mennella)
Feltrinelli editore (I ed. 2023)


La vita è un pasticcino invaso dalle formiche.

Frank Bascombe si presenta appesantito all'ultimo giro di pista. Gli anni passano, e anche se rimane il solito antieroe che abbiamo imparato a conoscere negli altri capitoli della saga, preoccupato unicamente di "salvare la situazione", qui si cala nel ruolo con qualche difficoltà in più.
Certo, la situazione non sembra dargli una mano, e proprio mentre è impegnato a tracciare un bilancio della sua esistenza, abbandonandosi a una serie di speculazioni sul tema della felicità, ecco che arriva la notizia del figlio condannato da una diagnosi infausta come quella di SLA e il buon Frank si ritrova a fare i conti con la drammaticità di una realtà che nessuno vorrebbe mai affrontare. Dalla vita alla morte, dalla felicità alla disperazione, d'un tratto l'occupazione di Bascombe diventa mantenere la barca in linea di galleggiamento, senza preoccuparsi più di tanto della rotta e accontentandosi dei brevi lampi di luce che il buio della vita gli lascia intravedere.
La trama è sottile sottile (un viaggio padre-figlio al Monumento nazionale del Monte Rushmore, quello delle sculture dei quattro presidenti), la scrittura scorrevole, semplice, a tratti piatta, ma ciò che convince meno è il registro utilizzato da Ford, un'ironia che galleggia a tratti tra cinismo e cazzeggio post-adolescenziale ("forse potremmo parlare di più. Invece di fare solo battute" – ammette il protagonista); probabilmente si tratta di un filtro per non andare fino in fondo ed evitare di affrontare la situazione in maniera diretta, ma da uno scrittore come Ford ci si aspetterebbe di più, anche perché ha già dimostrato (penso, ad esempio, a Lo stato delle cose) di saperlo fare egregiamente. Così finisce che anche i dialoghi – che formalmente sarebbero dei veri pezzi di bravura – lascino insoddisfatti, al punto che il protagonista riesce a dire qualcosa di veramente incisivo riguardo al tema del libro solo nelle prime e poi nelle ultime pagine, in monologhi nei quali Bascombe si mette a nudo con la schiettezza che l'ha contraddistinto negli altri romanzi di Ford e si dimostra in grado di regalarci interessanti osservazioni sulla sua idea di letteratura.
"Ho scoperto che i giovani scrittori sono tutti brillanti; capacissimi di capire e indicare con precisione la causa di qualcosa. Cosa causa il desiderio. Cosa causa il senso di colpa. Cosa causa inquietudine e disperazione o gioia. Perché la tragedia è tragica e la commedia è comica e come si collegano. Non è forse quello che vogliamo apprendere dalla letteratura, dal momento che saperlo può avviarci alla comprensione pratica della vera felicità?
Proprio il trucco che non mi è mai riuscito durante il mio periodo da imbrattacarte alla fine degli anni sessanta, ma in mia difesa dirò che non credevo di dover trattare certi argomenti."
"Una volta ho letto su un manuale di scrittura che in un buon romanzo qualunque cosa può essere seguita da qualunque cosa e che nulla segue necessariamente qualcos’altro. Per me è stata una rivelazione, e un sollievo immenso, perché la vita è proprio questo: un pasticcino invaso dalle formiche. Non pensavo di dover ragionare sulle cause. E sinceramente lo penso ancora oggi."

sabato 23 novembre 2024

Ieri – Juan Emar




Ieri – Juan Emar
(trad. Bruno Arpaia)
Safarà editore (I ed. 1935)

Emar. Ecco un altro punto sulla retta immaginaria che parte da Macedonio Fernández, tocca Felisberto Hernández e arriva fino a Fernando Bermúdez. È un filo sottile sul quale camminano gli equilibristi della letteratura, una corda tesa sopra le nostre teste dalla quale surrealisti e visionari guardano dall'alto il nostro mondo così diverso dal loro. Autori che con sguardo malinconico e divertito si fanno beffe della realtà e quando sembrano sul punto di cadere si levano in volo come personaggi chagalliani.
Emar, che disegna quadri che al nostro occhio sembrano assurdi. Una decapitazione, lo scontro tra uno struzzo e un leone, l'incontro con un amico pittore e la sua strampalata teoria dei colori… Sembra di essere una palla magica che rimbalza da una parte all'altra; andiamo! Andiamocene! – dicono il protagonista e la moglie nel loro saltabeccare da una scena alla successiva. Fino a raggiungere la sala d'attesa di una stazione, dove il movimento si arresta e di colpo ci troviamo nella mente del personaggio principale, impegnato a trarre il senso di tutto quello che succede dall'osservazione di un uomo grasso. Dai dettagli zampillano pensieri a cascata che lo portano in un bagno pubblico, dove crede di aver trovato finalmente il grimaldello per uscire dal tempo ma che si rivela invece l'ennesimo ingranaggio inceppato, nel quale rischia di precipitare.
Proprio il tempo sembra essere il tema fondamentale del romanzo, ma il suo studio, che dovrebbe permettere al protagonista di giungere alla conoscenza attraverso una specie di percorso iniziatico sul bordo della follia, lo porterà alla conclusione di non poter raggiungere il suo scopo. La scoperta, nicciana, della circolarità del tempo, con ieri che continua a vivere per sempre, sarà la pietra tombale sulla sua aspirazione a trovare un varco che gli permetta di approdare all'assoluto.
Quel che resta allora è lo spazio, l'osservazione della realtà, ma anche in questo caso le cose non vanno meglio. La ricchezza dei particolari, degli aspetti e delle sfumature con cui le cose si presentano alla nostra osservazione, finisce per sprofondare il protagonista in una dimensione nella quale oggetti e pensieri sembrano rifratti attraverso un prisma che moltiplica connessioni, punti di vista e mondi possibili. Impossibile così raggiungere una verità che rimetta insieme i pezzi di una realtà e di una mente in frantumi.




domenica 27 ottobre 2024

Clarice Lispector – La città assediata



Clarice Lispector – La città assediata
(trad. Roberto Francavilla, Elena Manzato)
Adelphi (I ed. 1949)


Ancora un libro di Clarice Lispector. Ancora una lettura difficile e importante, seppure dalla trama assai esile. La storia di Lucrécia, una ragazza priva di ingegno che negli anni Venti del Novecento vive a São Geraldo, un sobborgo immaginario, guardando con occhio obliquo la vita e il mondo attorno a sé e sognando un matrimonio che la porti via da lì per raggiungere la grande città. Lucrécia realizzerà il suo progetto, ma solo per un breve tempo. Un viaggio di andata e ritorno, che la riporterà da dove è partita, al suo luogo di osservazione su una periferia che si sta trasformando.
Tutto qui. Un romanzo modernista per temi e scrittura (l'urbanizzazione, la storia d'amore, la ricerca di nuove forme di espressione, il focus sulla soggettività e le modalità percettive…) che fa da cornice alle riflessioni dell'autrice, capaci – come sempre succede nelle opere di Lispector – di disorientare e insieme incuriosire il lettore, condotto per mano sul ciglio dell'abisso senza però riuscire a vedere cosa c'è sul fondo.
Romanzo difficile e importante, si diceva, perché getta le basi di una "teoria della conoscenza" che qui appare ancora frammentaria per non dire contraddittoria, che verrà affinata nei romanzi successivi fino al suo completo (e vertiginoso) raggiungimento nella Passione secondo G.H. Teoria della conoscenza come strumento che la scrittrice brasiliana utilizzerà poi per scandagliare le profondità dell'anima e nell'indagine sull'istante e sul linguaggio, temi che costituiscono il centro della sua ricerca letteraria.
Tornando a La città assediata, la scelta di una protagonista che non brilla per capacità intellettive, è finalizzata a ridurre l'importanza della ragione nel suo modo di approcciarsi al mondo, facendo sì che privilegi una conoscenza istintiva, che passa attraverso lo sguardo (non a caso ricorre spesso il paragone tra la protagonista e il cavallo). È come se l'autrice cercasse di eliminare nella sua ricerca tutti i rumori di fondo, le riflessioni, i ragionamenti, i fili logici che rischierebbero di attorcigliare il gomitolo che cerca di sbrigliare, di rendere torbida quell'acqua che vorrebbe fosse cristallina.
Reale, per Lucrécia è ciò che vede e vedere è il modo di dare forma alla realtà ("in lei e in un cavallo l'impressione era l'espressione"), imitare le cose è l'unico modo per conoscerle ma la difficoltà è proprio penetrare la vera natura delle cose, la stessa difficoltà del pittore che dipingendo un oggetto deve riuscire a riprodurne l'essenza. "La cosa veramente fondamentale era non comprendere. Nemmeno la propria gioia," Sì, perché l''atto del comprendere implica un passaggio in più, un ruolo attivo del soggetto che applica la sua immaginazione all'oggetto finendo per trasformarlo in qualcosa di diverso da quello che è: "la sua paura era di andar oltre ciò che vedeva", la paura di pensare perché "pensare sarebbe stato soltanto inventare".

sabato 28 settembre 2024

Enrique Vila-Matas – Dublinesque


Enrique Vila-Matas – Dublinesque
(trad. Elena Liverani)
Feltrinelli (I ed. 2010)

La letteratura non è morta.

La storia di Samuel Riba, editore in crisi, che vive l'approssimarsi dei sessant'anni come la fine della sua carriera professionale e insieme di un'epoca. Un matrimonio in crisi, l'incapacità di recidere il cordone ombelicale che lo lega ancora ai vecchi genitori, poca a nessuna vita sociale da quando ha smesso di bere, questi sono gli aspetti principali di un disagio esistenziale che lo attira in un territorio, quello della solitudine, per il quale prova paura e attrazione in egual misura.
Riba è un uomo malinconico, che come il personaggio di un film di Cronenberg "vaga confuso e perplesso per una vita che non comprende" e cerca rifugio nella vita immaginata dei suoi libri, un uomo che non ha mai compreso la natura dell'entusiasmo e che nell'isolamento elabora le sue strampalate e affascinanti teorie. Come quella del "romanzo futuro", che pone La riva delle Sirti a paradigma della letteratura a venire, prima di gettarla in un cestino dell'albergo lionese dove l'aveva partorita, celebrandone metaforicamente il funerale.
Già, il funerale. Il punto verso il quale convergono tutti i suoi pensieri. L'idea di celebrare il funerale della "Galassia Gutenberg: la morte del libro cartaceo, la morte di un certo tipo di cultura, la morte di un mondo. Un funerale da celebrarsi insieme a un gruppo di amici a Dublino per il Bloomsday, secondo i dettami di un sogno quanto mai vivido fatto in ospedale.

Dublinesque è un libro eccezionale: libro di libri, romanzo psicologico, esistenziale, apocalittico, anti-realista…, un libro che unisce Joyce e Beckett (l'alfa e l'omega, l'inizio e la fine) con Vilém Vok, in una trama che tiene insieme vero e falso in un post-moderno declinato alla spagnola che non risulta per nulla artificioso. Samuel Riba è uno splendido anti-eroe moderno, un personaggio contraddittorio che saprà morire – letterariamente – e rinascere, per "riavvicinarsi al mondo che non può essere quello del cataclisma finale", agli inconvenienti di una vita che risulterà in grado di cambiarlo consentendogli di "vivere un nuovo momento nel centro del mondo". Vila-Matas è uno scrittore esigente, che ci sfida apertamente chiedendoci di uscire dalla palude del conformismo per trasformarci in "lettori attivi", di dimostrarci all'altezza del libri che leggiamo, di non fermarci all'apparenza e di scavare tra le pagine, come dice in un'intervista.
"Il lettore attivo partecipa al libro, lo completa e aiuta lo scrittore con la propria intelligenza, contribuisce in maniera concreta alla buona riuscita del libro stesso. Perché ci mette dentro il proprio sapere e la propria esperienza. Entra in contatto, e spesso anche in contrasto diretto con l'autore, con l'opera che ha scelto di avere tra le mani."

domenica 25 agosto 2024

Can Xue –La Strada di fango giallo

 


Can Xue –La Strada di fango giallo
(trad. Maria Rita Masci)
Utopia 2024 (I ed. 1987)

"Al margine della città si trovava una strada di fango giallo, la ricordo molto bene. Eppure tutti sostengono che non sia mai esistita."

Due righe sono sufficienti a Can Xue per introdurci nella storia e insieme farci comprendere che questa non sarà una passeggiata.
La strada di fango giallo è un Nessundove che forse non esiste, un espediente letterario nel quale vive una comunità straniata sospesa tra sonno e veglia, che cerca di comprendere una realtà che non è alla sua portata. Ogni accadimento è interpretato come se fosse il sogno di qualcosa, ma non si sa cosa. L'apparizione di Wang Ziguang, ad esempio: immagine, persona, luce, o forse fuoco fatuo. Un ideale, il segno che "d'ora in avanti la nostra vita subirà un grande cambiamento". Ma "nessuno può affermare con certezza che Wang Ziguang esista davvero, che si chiami così e che sia venuto".
Un mondo che ha perso i punti di riferimento, abitato da personaggi quasi beckettiani, che vivono su uno sfondo marcescente senza comunicare, monadi che seguono supposizioni personali, sordi alla voce degli altri, che a pensieri confusi fanno seguire azioni incoerenti, fino ad imitare i comportamenti della massa senza una ragione che apparente. Affiora l'idea di una cospirazione per sovvertire l'ordine, ma quale ordine? Quale idea?
Un'umanità di gattini ciechi, privi di punti di riferimento, che ricorda sinistramente i tempi della pandemia: stessa incapacità di comprendere e quindi affrontare la situazione. Incubi e fantasie prive di senso hanno sostituito pensieri e ragionamenti, manca una logica, mancano i collegamenti. Un buco nel muro diventa il pretesto per scatenare congetture infinite e sconclusionate, così che ai personaggi non restano altro che azioni folle e parole prive di senso che traducono in suono il vuoto esistenziale di chi le pronuncia.
I personaggi del romanzo vivono in un impasse infinito, in un'enorme distopia: tutto è inutile, nulla ha speranza e l'umanità sprofonda lentamente nella buca che ha costruito mentre la Natura, l'altro caposaldo al quale Can Xue appoggia la sua idea di scrittura, subisce la violenza dell'uomo, fino a quando non si ribella attraverso le malattie e il cambiamento climatico, fino a riprendersi il suo posto. Questa a mio avviso è la cifra del romanzo.

Non è semplice avvicinarsi a questa scrittrice, perché non parla alla mente ma all'anima del lettore. La sua è una scrittura che non segue sentieri tracciati da altri ma sembra muoversi come una danza, un dipinto in movimento, e ci dice che un'altra letteratura è possibile.

sabato 10 agosto 2024

Orhan Pamuk – Il museo dell'innocenza

 


Orhan Pamuk – Il museo dell'innocenza
(trad. Barbara La Rosa Salim)
Einaudi 2009, I ed. 2008


Psicopatologia dell'ossessione amorosa.

Lettura interessante, anche se alla fine si ha l'impressione che quello che c'era da dire sull'argomento l'abbia detto una scrittrice vissuta molti anni prima e pochi chilometri più a sud di Pamuk.

A me pare uguale agli dèi
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli

e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.

Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.

E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.

sabato 3 agosto 2024

Carlos Fuentes – Gli anni con Laura Díaz

 


Carlos Fuentes – Gli anni con Laura Díaz
(trad. Ilide Carmignani)
Il Saggiatore 2008, I ed. 1999


Il cammino dei Santiago.

"Conoscevo la storia, ignoravo la verità. Anche la mia presenza, in un certo senso era una menzogna."
Un incipit potente, che dice già molto sulle intenzioni dell'autore: la storia nella realtà letteraria è verità e menzogna, come spiega Fuentes in un'intervista a The Austin Chronicle:
"la storia è un processo senza fine. E se consegni il passato solo al passato, lo stai consegnando a un museo. Una delle grandi funzioni del romanzo è stata quella di rendere il passato un presente vivo. Di dare alla storia la dimensione che manca ai libri di storia. Posso leggere tutti i libri di storia che voglio sulla Russia del XIX secolo, ma non capirò la Russia del XIX secolo se non leggo Gogol e Dostoevskij e Tolstoj e Turgenev, per esempio. Quindi c'è quella dimensione di mantenere viva la storia.
Quindi il rapporto con la realtà, la realtà è sufficiente a se stessa. Eccolo! Non chiede agli scrittori di venire a scriverne. Ciò che fa uno scrittore è creare un'altra realtà, aggiungere alla realtà. Non semplicemente riflettere la realtà, ma aggiungere qualcosa alla realtà che non c'è. Amleto non ci sarebbe se Shakespeare non l'avesse scritto. Don Chisciotte non ci sarebbe se Cervantes non l'avesse scritto. E non possiamo immaginare un mondo senza Amleto o Don Chisciotte. Eppure non c'erano nella realtà. Se gli scrittori non fossero venuti e non li avessero scritti, beh, niente Amleto e niente Don Chisciotte. Quindi questa è un'aggiunta alla realtà, arricchisce la realtà, crea una nuova o ulteriore realtà."
Gli anni con Laura Díaz è un romanzo che abbraccia cento anni di storia, del Messico, ma anche del Novecento, con particolare riferimento alla Guerra Civile spagnola. Una riflessione sulla natura dell'uomo e sull'evoluzione sociale di una nazione, senza trascurare il ruolo dell'arte e della religione in questo processo. Un romanzone di stampo novecentesco, che grazie ad una scrittura di gran classe si illumina fino a diventare un romanzo totale. Passioni politiche, amori, ambizioni personali, ideali artistici, dubbi esistenziali… non credo che nelle intenzioni dell'autore ci sia la volontà di creare una narrazione epica, quanto piuttosto rileggere la storia, interpretandola a posteriori alla luce dei sentimenti e dei pensieri degli uomini che ne sono protagonisti e non oggetti.
Difficile non pensare all'altro grande romanzo di Fuentes, La morte di Artemio Cruz, e leggere le due opere come un dittico. Da una parte l'uomo di potere, che dedica l'esistenza a raggiungere il successo e mantenerlo, dall'altra una figura femminile alla ricerca di se stessa e del suo ruolo nel mondo. Uno fa la storia, l'altra cerca di comprenderla, sforzandosi di andare oltre l'apparenza, curiosa di quello che si nasconde dietro alle parole, "la Laura ragionevole e la Laura impulsiva, la Laura vitale e la Laura vile". Laura che vive inseguendo i sogni più che la realtà.
"…Enedina e io ricordammo ogni cosa e quello che non ricordavamo, lo immaginammo, e quello che non immaginavamo, lo scartammo come indegno di una vita vissuta per l'inseparabile possibilità di essere e non essere, di portare a compimento una parte dell'esistenza sacrificandone un'altra, sempre sapendo che non si può possedere alcunché completamente, né la verità, né l'errore, né la conoscenza, né il ricordo, perché discendiamo da amori incompleti anche se intensi, da memorie intense anche se incomplete, e non possiamo ereditare altro che quello che ci hanno lasciato i nostri antenati, la comunanza del passato e la volontà dell'avvenire, uniti nel presente della memoria, dal desiderio e dalla consapevolezza che ogni atto d'amore oggi porta finalmente a compimento l'atto d'amore iniziato ieri. Il ricordo attuale consacrava, pur deformandolo, il ricordo di ieri. L'immaginazione di oggi era la verità di ieri e di domani."

sabato 27 luglio 2024

Miguel Ángel Asturias – Uomini di mais


Miguel Ángel Asturias – Uomini di mais
(trad. Cesco Vian)
Rizzoli editore, 1967, I ed. 1949


La Commedia Umana.
 
Il mais è centro e perimetro di questo grande romanzo, pietra miliare della letteratura sudamericana. Quel mais con cui è stato creato l'uomo secondo le antiche leggende guatemalteche, e quel mais del quale l'uomo ha fatto commercio infrangendo così le leggi religiose, corrompendo la sua natura, alterando l'ambiente con le coltivazioni intensive e innescando un meccanismo perverso che sostituendo il divino con il denaro ha finito per portarlo alla rovina.
Il tema è il conflitto tra gli indigeni e i "ladinos", i "maceiros" (appunto, uomini del mais), lo scontro tra tradizione e cambiamento, forza del mito e nichilismo dei nuovi arrivati. Va da sé che le simpatie di Asturias vanno tutte al mondo indigeno, capace di opporre alla fredda realtà bidimensionale dei ladinos la superiorità di un universo che non ha limiti di spazio e tempo, nel quale i protagonisti sono qui e anche altrove, capaci di cambiare forma e tramutarsi in animali. Un universo che offre alla scrittore, oltre all'orgoglio dell'appartenenza, infinite possibilità di forma e contenuto, e che l'autore riesce a cogliere anche grazie alle sue frequentazioni con il surrealismo europeo, che declina in chiave personale aprendo la strada a quello che sarà poi il realismo magico.
Uomini di mais, è un libro che, pur risentendo del peso degli anni con parti della trama che risultano un po' "di maniera", compensa queste piccole sbavature grazie ad una scrittura lussureggiante, capace di regalarci anche un finale incredibile, una specie di Divina Commedia concentrata in poche pagine, con una discesa agli Inferi e poi un'ascesa sublime verso un Paradiso indio che da sole valgono la lettura di quest'opera.

sabato 13 luglio 2024

Augusto Roa Bastos – Io il supremo

 


Augusto Roa Bastos – Io il supremo
(trad. Stefano Bossi)
Feltrinelli editore, 1978, I ed. 1988

Scrivere false verità.

La narrativa sudamericana è spesso un terreno ambiguo: facile e difficile, dice e non dice. Dice e mentre dice, dice qualcos'altro, o forse non dice niente e si diverte a prenderti in giro. Ti sfida a seguirla per sentieri impervi e dopo due passi ti accorgi che sei già sprofondato nel fitto di una giungla, privo di qualsiasi punto di riferimento. Con la narrativa sudamericana a poco servono le unità aristoteliche che costituiscono il canone o le altre categorie che siamo soliti applicare al romanzo classico, quello che serve è disponibilità a lasciarsi stupire, a immergersi in tanta confusione e bellezza senza cercare il bandolo della matassa, il filo logico che ci porti fuori dal labirinto, quello che serve è la capacità di volare sopra le pagine per riuscire ad ammirare, se non comprendere integralmente, la costruzione letteraria che si estende sotto i nostri occhi.
Io il supremo è una cattedrale uscita dal genio di un architetto visionario: Io il supremo è la Sagrada Familia e Roa Bastos il Gaudì (uno dei Gaudì) della narrativa sudamericana, che sceglie di romanzare la storia di José Gaspar Rodríguez de Francia, dittatore del Paraguay dal 1816 al 1840, come mai nessuno aveva fatto prima.
Un libro caratterizzato da una prosa torrenziale, barocchissima fumosa, ricca di digressioni, allitterazioni e giochi di parole. Stili e punti di vista diversi si accavallano senza dar tregua al lettore: conversazioni in prima persona del Presidente con il suo segretario, parti del "quaderno privato" del Supremo, flussi di coscienza, dialoghi con se stesso, memoriali, considerazioni di un punto di vista esterno e, alla fine, anche pareri di storici sulla figura di Gaspar Rodríguez… il tutto sviluppato su più piano temporali che si intersecano confondendosi e abbracciano l'intero corso della vita del dittatore ma si estendono anche per molti anni dopo la sua morte.
Difficile tener dietro a un garbuglio simile, eppure la scelta dell'autore risulta perfettamente in linea con l'immagine del personaggio che vuole tratteggiare: il Supremo è un uomo solo, un autarchico, nazionalista, illuminista e gattopardesco, ma soprattutto una personalità complessa e contraddittoria che aspira ad andare oltre i limiti della sua identità per riuscire ad abbracciare il Tutto. Un cinico disilluso convinto di essere un passo avanti agli altri e al contempo di non essere niente, che crede di essere superiore ma questo non basta a soddisfarlo. Una personalità ricca di sfaccettature e della quale è quasi impossibile venire a capo, un Don Chisciotte ottocentesco, forse pazzo e forse statista, o probabilmente entrambi, un grande personaggio che grazie alla prosa di Roa Bastos riesce a trascendere la dimensione storica per assurgere a un livello quasi di leggenda.
In fondo, è proprio il racconto in chiave farsesca dello scrittore paraguayano che smitizza la storia, mostrando come gli uomini che la fanno siano molto al di sotto delle loro ambizioni e come sia inutile tentare un resoconto dei fatti per provare a darne una spiegazione. "Le parole rimangono per dare un significato all'impossibile. Nessuna storia può essere raccontata. Il vero linguaggio non è ancora nato."
Scrivere diventa l'unico modo di sentirsi vivo, perché "si scrive quando non si può agire. Scrivere false verità."

Difficile dire dove finisca il Supremo e dove inizi Roa Bastos, nel furioso corpo a corpo del protagonista con la scrittura, che aspira a raggiungere una dimensione "totale", in grado di dire l'indicibile ma che a tempo stesso mostra la sua limitatezza e, in ultima analisi, l'inutilità ("alla scrittura poco importa se viene usata per la verità o la menzogna"). La scrittura quindi come strumento ambiguo ma straordinario, in grado di reinventare la realtà, e basterebbe questa considerazione che scaturisce dalla lettura di questo libro per proiettarlo nell'Olimpo letterario.