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sabato 14 dicembre 2024

Il mio anno di riposo e oblio – Ottessa Moshfegh

 


Il mio anno di riposo e oblio – Ottessa Moshfegh
(trad. Gioia Guerzoni)
Feltrinelli editore (I ed. 2018)

Romanzo interessante. Il tema trattato, il disagio esistenziale di una ragazza WASP, bellissima e ricca all'alba del nuovo millennio, sembra la sceneggiatura di un film hollywoodiano e presenta almeno due rischi evidenti: manca di originalità e presta il fianco a semplificazioni e facili cadute nei luoghi comuni (che comunque nel romanzo ci sono, soprattutto nella descrizione dei personaggi secondari). La bravura di Moshfegh consiste nel saper operare una scelta narrativa coraggiosa e controcorrente: il sonno come medicina per superare i traumi e resettare un'esistenza ingarbugliata, mettere la sordina ai sentimenti, scendere per un giro dalla giostra della vita per poi ripartire in maniera diversa. Ma non è tutto qui, con una scrittura essenziale priva di lampi particolari, sostenuta da venature di humor nero che provano a renderla meno scarna, l'autrice riesce a tratteggiare una protagonista dalla personalità complessa, ricca di sfaccettature, che sfugge alle schematizzazioni e si rivela capace di interpretare un ruolo di Bartleby contemporaneo in maniera credibile.
Allargando il ragionamento dal particolare all'universale, ne risulta un romanzo che rappresenta anche un invito a non fermarsi all'apparenza delle cose, alla semplicità che copre la complessità, alla velocità che nasconde la lentezza, al convenzionale che sopraffà l'individualismo.
"Il dolore non è l'unico banco di prova per crescere, mi dissi. Il sonno aveva funzionato. Mi sentivo morbida e calma e sentivo le cose. Era una bella sensazione."

 

domenica 1 dicembre 2024

Per sempre – Richard Ford



Per sempre – Richard Ford
(trad. Cristiana Mennella)
Feltrinelli editore (I ed. 2023)


La vita è un pasticcino invaso dalle formiche.

Frank Bascombe si presenta appesantito all'ultimo giro di pista. Gli anni passano, e anche se rimane il solito antieroe che abbiamo imparato a conoscere negli altri capitoli della saga, preoccupato unicamente di "salvare la situazione", qui si cala nel ruolo con qualche difficoltà in più.
Certo, la situazione non sembra dargli una mano, e proprio mentre è impegnato a tracciare un bilancio della sua esistenza, abbandonandosi a una serie di speculazioni sul tema della felicità, ecco che arriva la notizia del figlio condannato da una diagnosi infausta come quella di SLA e il buon Frank si ritrova a fare i conti con la drammaticità di una realtà che nessuno vorrebbe mai affrontare. Dalla vita alla morte, dalla felicità alla disperazione, d'un tratto l'occupazione di Bascombe diventa mantenere la barca in linea di galleggiamento, senza preoccuparsi più di tanto della rotta e accontentandosi dei brevi lampi di luce che il buio della vita gli lascia intravedere.
La trama è sottile sottile (un viaggio padre-figlio al Monumento nazionale del Monte Rushmore, quello delle sculture dei quattro presidenti), la scrittura scorrevole, semplice, a tratti piatta, ma ciò che convince meno è il registro utilizzato da Ford, un'ironia che galleggia a tratti tra cinismo e cazzeggio post-adolescenziale ("forse potremmo parlare di più. Invece di fare solo battute" – ammette il protagonista); probabilmente si tratta di un filtro per non andare fino in fondo ed evitare di affrontare la situazione in maniera diretta, ma da uno scrittore come Ford ci si aspetterebbe di più, anche perché ha già dimostrato (penso, ad esempio, a Lo stato delle cose) di saperlo fare egregiamente. Così finisce che anche i dialoghi – che formalmente sarebbero dei veri pezzi di bravura – lascino insoddisfatti, al punto che il protagonista riesce a dire qualcosa di veramente incisivo riguardo al tema del libro solo nelle prime e poi nelle ultime pagine, in monologhi nei quali Bascombe si mette a nudo con la schiettezza che l'ha contraddistinto negli altri romanzi di Ford e si dimostra in grado di regalarci interessanti osservazioni sulla sua idea di letteratura.
"Ho scoperto che i giovani scrittori sono tutti brillanti; capacissimi di capire e indicare con precisione la causa di qualcosa. Cosa causa il desiderio. Cosa causa il senso di colpa. Cosa causa inquietudine e disperazione o gioia. Perché la tragedia è tragica e la commedia è comica e come si collegano. Non è forse quello che vogliamo apprendere dalla letteratura, dal momento che saperlo può avviarci alla comprensione pratica della vera felicità?
Proprio il trucco che non mi è mai riuscito durante il mio periodo da imbrattacarte alla fine degli anni sessanta, ma in mia difesa dirò che non credevo di dover trattare certi argomenti."
"Una volta ho letto su un manuale di scrittura che in un buon romanzo qualunque cosa può essere seguita da qualunque cosa e che nulla segue necessariamente qualcos’altro. Per me è stata una rivelazione, e un sollievo immenso, perché la vita è proprio questo: un pasticcino invaso dalle formiche. Non pensavo di dover ragionare sulle cause. E sinceramente lo penso ancora oggi."

domenica 2 giugno 2024

David Markson – L'amante di Wittgenstein

 


David Markson – L'amante di Wittgenstein
(trad. Sara Reggiani)
Edizioni Clichy, 2016 – I ed. 1988

La storia di Kate, la protagonista di questo libro, è fatta di un prima, nel quale era moglie e madre, e di un dopo, nel quale vaga sulla terra come ultimo sopravvissuto della specie umana e scrive di sé mescolando ricordi, pensieri e fantasie, forse veri e forse falsi.
Detta così sembrerebbe la trama di un romanzo come tanti del genere fantastico-apocalittico con un piede nello sperimentale, se non fosse che le intenzioni dell'autore guardano in una direzione diversa e molto più ambiziosa: dare una trasposizione letteraria alle proposizioni filosofiche del Tractatus di Wittgenstein, impresa spregiudicata e affascinante che Markson affronta con una scrittura fatta di frasi brevi e ricche di ripetizioni e correzioni, di digressioni, avvenimenti e persone ricordati male o fuori contesto. È un punto di vista parziale, imperfetto, fallace, che non descrive la realtà ma l'idea di Kate/Wittgenstein del mondo che si rivela essere un mondo invivibile: un deserto di solitudine, una cella nella quale ruminare pensieri che si avvitano tragicamente su se stessi con la protagonista intenta a costruire mondi che poi distrugge come una novella Penelope.
In ultima analisi, L'amante di Wittgenstein è anche una riflessione sui limiti del linguaggio come strumento di comunicazione, perché tutte le riflessioni di Kate rimangono chiuse nella sua testa e quindi condannate alla sterilità.

domenica 3 marzo 2024

Cormac McCarthy – Stella Maris



Cormac McCarthy – Stella Maris
(trad. Maurizia Balmelli)
Einaudi editore, 2023 – I ed. 2022


Il passo d'addio di McCarthy è un romanzo destrutturato e ridotto a dialoghi, lontano dalla prosa consueta delle opere più rappresentative dell'autore statunitense ma simile per gli aspetti formali a Sunset Limited e anche a La coscienza di Andrew di Doctorow. Si tratta di un testo concettuale, che sacrifica l'attenzione agli elementi della scrittura per concentrarsi sull'idea pura, sfidando il lettore su un terreno quanto mai impervio.
Come in un ring, incrociano i guantoni in una singolare tenzone dialettica Alicia Western, la ragazza prodigio de Il passeggero, e il dottor Cohen psichiatra della clinica nella quale la ragazza è ospitata. Alicia è un genio dal quoziente intellettivo altissimo e dalle potenzialità inestimabili ma che finisce per spingere così in profondità le sue riflessioni da approdare sull'orlo del baratro. La matematica, che aveva abbracciato con la convinzione che fosse una stella polare in grado di illuminarla sulle verità dell'universo, si rivela una fede fallace, incapace di fornirle le risposte di cui ha bisogno e così il linguaggio – tema centrale del romanzo – si rivela una forza devastante ("Molto devastante. Proporzionalmente alla sua importanza. Distruzione creativa. Sono certamente andati persi talenti e abilità di ogni tipo. Perlopiù comunicativi. Ma anche cose come l'arte della navigazione e probabilmente perfino la ricchezza dei sogni. Alla fin fine questo strano nuovo codice deve aver almeno in parte sostituito il mondo con quello che se ne può dire. La realtà con l'opinione. Il racconto con l'approfondimento,"). Cosa rimane allora? Forse la musica, "completamente autoreferenziale e coerente in ogni sua parte", "un mistero che va addirittura oltre ogni speranza di comprensione. La musica non è un linguaggio. Non allude a niente se non a se stessa".
La musica, allora, salverà il mondo? Probabilmente no, sicuramente non salverà Alicia, convinta "che il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere", che "la nostra esistenza del mondo sia sostanzialmente un proteggersi dallo sgradevole dato di fatto che i mondo non sa che siamo qui" e che l'immaginario sia preferibile al reale.

sabato 4 dicembre 2021

Il re pallido – David Foster Wallace

 
L'opera struggente di un formidabile genio.

Frammenti che brillano nel buio, brandelli di un grande romanzo rimasto in potenza. Quello che resta sono idee, parti non collegate, un percorso abbozzato ma sufficiente a far trasparire la grandezza di Foster Wallace, la sua capacità di fare letteratura partendo da ogni cosa, in questo caso la noia, la routine del quotidiano.
Introspezione, scavo nella psicologia dei personaggi, descrizioni acute, dialoghi di struggente bellezza (il capitolo 46 su tutti), costruzione attenta e un rigore formale che sfiorano la perfezione e poi, soprattutto, l'empatia, la capacità di stabilire un contatto profondo con i protagonisti della storia, comprenderli nelle loro debolezze e comprendendoli, amarli.
"Il cane odiava quella catena. Ma aveva una sua dignità. Quello che faceva era non tendere mai la catena del tutto. Non si allontanava mai nemmeno quel tanto da sentire che tirava. Nemmeno se arrivava il postino, o un rappresentante. Per dignità, il cane fingeva di aver scelto di stare entro quello spazio che guarda caso rientrava nella lunghezza della catena. Niente al di fuori di quello spazio lo interessava. Interesse zero. Perciò non si accorgeva mai della catena. Non la odiava. La catena. L'aveva privata della sua importanza. Forse non fingeva, forse aveva davvero scelto di restringere il suo mondo a quel piccolo cerchio. Aveva un potere tutto suo. Una vita intera legato a quella catena. Quanto volevo bene a quel maledetto cane."

domenica 22 novembre 2020

Brevemente risplendiamo sulla terra – Ocean Vuong

 

Non ti sto raccontando una storia ma piuttosto un naufragio, i pezzi galleggiano, finalmente leggibili.

 L'esordio di Ocean Vuong nella narrativa è un romanzo che sotto le vesti di una lettera alla madre analfabeta che non potrà mai leggerla, racconta la storia di un ragazzino vietnamita e della sua famiglia (madre e nonna) emigrati negli Stati Uniti. Una cornice classica (il romanzo di formazione) per un quadro moderno, almeno a giudicare dalla ricchezza e dalla complessità dei temi sviluppati da Vuong nella sottotrama e dallo stile del libro.

Utilizzando una scrittura "musicale", a tratti poetica, con la quale costruisce un romanzo per immagini nel quale non manca un uso sapiente delle metafore, l'autore  affronta infatti una serie di riflessioni che spaziano dall'identità culturale e sessuale del protagonista al rapporto con la madre, dalla Bellezza ai modi ed alle difficoltà di amare, senza trascurare la continua attenzione all'importanza del linguaggio.

Un libro sul tentativo di essere felici, un'opera prima decisamente convincente di un autore che sembra avere molto da dire e soprattutto di sapere come dirlo.

domenica 25 ottobre 2020

Le palme selvagge – William Faukner

 


Due storie raccontate in parallelo e che trattano due vicende lontanissime una dall'altra: Palme selvagge e Il vecchio.

La prima narra le vicende di due amanti adulterini che cercano di vivere la loro relazione fuori dalle convenzioni, dal denaro e dai luoghi comuni della società, consapevoli di combattere una battaglia persa in partenza perché, come dice Charlotte, "naturalmente non posiamo batterli, naturalmente noi siamo condannati."

La seconda è la storia di un carcerato al quale durante un'inondazione del Mississippi viene affidato l'incarico di salvare dalle acque una donna incinta e che rifiuterà l'occasione di evadere per portare a termine il suo compito "cercando soltanto di mantenere a galla la barca finché poteva". È il racconto di un uomo che "voleva così poco. Non voleva nulla per sé. Voleva soltanto liberarsi della donna, di quel ventre, e stava cercando di farlo nella maniera giusta, non per se stesso, ma per lei".

Sono due storie dure, cupe, senza lieto fine, nelle quali assistiamo all' inesorabile scivolare dei protagonisti dentro alle loro vite seppure in maniera difforme: ne Le palme selvagge lottando, invano, per sottrarsi al destino e ne Il vecchio rinunciando in partenza a combattere.

Con un ricorso frequente al flusso di coscienza, ai periodi lunghi e al cambiamento dei punti di vista, l'autore disegna atmosfere cupe che incombono sui personaggi e danno un senso di inevitabilità alla loro sconfitta. La penna di Faulkner scruta nell'animo di protagonisti e figure minori con abilità dostoevskijana restituendoci una serie di caratteri quanto mai complessi e intriganti e indagando con la stessa lucidità del maestro russo la crisi dell'uomo all'interno della crisi della società, utilizzando la Natura, a tratti ostile, a tratti indifferente ma mai partecipe delle sofferenze dei personaggi per sottolineare la durezza delle loro vite.

I due racconti sembrano scritti uno in antitesi all'altro: se nel primo si parla di due persone che cercano di fuggire dalla società, nel secondo c'è un carcerato che lotta per tornare indietro, se i due amanti infrangono le leggi, il detenuto cerca di rispettarle, se gli adulteri cercano l'amore, il carcerato lo rifiuta dopo essere stato scottato… eppure le analogie sono molte di più delle contraddizioni e Faulkner è il solito pianista che gioca con i tasti evitando la cacofonia e riuscendo a tirar fuori una sinfonia da suoni che sembrano contrastanti.

Quello che accomuna i due protagonisti è la voglia di rispondere solo al senso di responsabilità verso se stessi e non al sentire comune, un andare contro corrente che finiranno per pagare in prima persona. Ciò che alla fine rimane a Harry e al vecchio carcerato sarà solo il ricordo, l'unico spazio nel quale immaginare di sentirsi liberi per dare un senso alla loro sconfitta.

sabato 5 ottobre 2019

William Gaddis – L'agonia dell'agape



Impressionante. Un saggio in forma di romanzo che ci dice come Gaddis avesse capito tutto già molto tempo prima di noi, un libro profetico al punto da vaticinare in qualche misura anche il crollo dei mercati del 2007.
L'agonia dell'agape è il racconto di un personaggio beckettiano animato da un furore bernhardiano che sapendo di avere ancora poco tempo a disposizione cerca di mettere ordine nelle sue carte e nei suoi pensieri finendo però risucchiato all'interno di quello stesso caos che cerca di combattere. Il ritmo della prosa è incalzante, la narrazione frammentaria, fatta di divagazioni frutto di idee complesse che ben lungi dal chiarire i concetti che cercano di esplorare aprono strade che conducono in nuove direzioni: un flusso di coscienza che risponde all'esigenza dell'autore di comunicare al lettore il suo bisogno di difendere l'arte e di scacciare i mercanti dal tempio.
Qui si parla del "collasso di tutto", di come cioè le nuove tecnologie hanno improvvisamente cambiato le carte in tavola ridefinendo, tra l'altro, la figura dell'artista e quella dell'opera d'arte. Viviamo – dice Gaddis – in un mondo che sembra accontentarsi di bisogni primari e che, come il bambino, cerca il piacere ed evita il dolore. La quantità del piacere, questo è il punto, è diventata il fine dell'uomo, non la qualità; l'intrattenimento è il nuovo centro dei bisogni della società e il denaro ne è diventato la divinità incontrastata.
Gaddis è un gigante e al tempo stesso un Don Chisciotte lanciato contro i mulini a vento, un eroe impegnato in una battaglia impari dall'esito già segnato e che pure deve essere combattuta. Nel suo j'accuse non teme di apparire snob o elitario e lancia i suoi strali con precisione chirurgica: si vive in superficie e nel momento, si fruisce delle cose senza il bisogno di doverle comprendere, lo scopo è appagare i bisogni immediati, le pulsioni più elementari, soddisfare il pubblico ed assecondarne gli umori.
Portare tutto e a tutti è il mantra dell'epoca in cui viviamo e non implica nessun intento pedagogico ma segue piuttosto la logica del guadagno. Tutto e a tutti, grazie alle moderne tecnologie e all'automazione:  non serve più applicarsi nell'atto creativo e lavorare per sviluppare il proprio talento perché non solo ogni oggetto ma anche ogni atto artistico è riproducibile e quindi già riprodotto, serializzato e quindi tradito nello spirito (interessante, in questo senso, è il riferimento di Gaddis al dopplergänger di Goljadkin nel Sosia dostoevskijano). L'artista classico non esiste più, sostituito dall'esecutore/imitatore con le copie che moltiplicano all'infinito l'originale finendo per dare immanenza a ciò che per definizione deve essere transitorio, autentico, non riproducibile.
La bussola è impazzita, si è perso l'amore (agape) per la creazione.

"…il crollo dell’autenticità il crollo della religione il crollo dei valori, quella che Huizinga definì una delle fasi più importanti nella storia della civiltà, e Walter Benjamin lo riprende nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica da qualche parte in questa pila, l’opera d’arte autentica si fonda su un rituale dice lui, e aspetti signor Benjamin, ci devo arrivare, qui a metà del Settecento romantico il godimento estetico nel culto dell’arte era il privilegio di pochi. Stavo dicendo, signor Huizinga, che l’opera d’arte autentica aveva il suo fondamento in un rituale, e la riproducibilità di massa l’ha liberata da questa esistenza parassitaria. Ah, proprio così signor Benjamin proprio così, alla fine del secolo la religione stava perdendo colpi e l’arte arrivò a sostituirla, dice questo? Certamente signor Huizinga, e aggiungerei che questa enorme quantità di riproduzioni tecniche delle opere d’arte poteva essere manipolata, ha modificato il modo in cui le masse consideravano l’arte e le ha manipolate a sua volta. Inavvertitamente signor Benjamin, lei potrebbe dire che adesso l’arte è diventata dominio pubblico, per i più o meno istruiti Monna Lisa e l'Ultima cena sono diventate arte da calendari da appendere sopra l’acquaio della cucina. Certamente signor Huizinga, Paul Valéry aveva capito che ci saremmo arrivati, immagini visive e uditive portate nelle case da lontano come acqua gas ed elettricità e infine, che Dio ci aiuti tutti, la televisione. Affermativo signor Benjamin, con il meccanizzazione, la pubblicità le opere d’arte sono realizzate direttamente per la vendita, ecco è questa l’America. È sempre stata questa, signor Huizinga. Lo è sempre stata, signor Benjamin. Tutto diventa un oggetto commerciale il mercato stabilisce il prezzo. E il prezzo diventa il criterio di ogni cosa. Certamente signor Huizinga! L’autenticità viene azzerata quando l’unicità di ogni realtà viene superata dalla ricezione della sua riproduzione, pertanto l’arte è predisposta alla sua riproducibilità. Date loro la possibilità di scegliere, signor Benjamin, e le masse sceglieranno sempre il falso".

domenica 23 settembre 2018

Joy Williams – L’ospite d’onore



 “Siamo soli in un mondo senza senso”

C’è solitudine nei racconti di Joy Williams, storie abitate da personaggi che sembrano non saper più comprendere l’altro, incapaci di condividere, chiusi nel loro bozzolo come se una frattura impossibile da rimarginare li separasse dal resto del mondo.
Spesso il motore della trama è un trauma, una tragedia che le persone non riescono ad affrontare, come se non avessero gli strumenti adeguati per farlo. Storie di disagio, di alcolismo (Ossa di balena, Foglie), di incomunicabilità, caratterizzate dal bisogno che qualcuno dica qualcosa e insieme dalla consapevolezza che la gente non sa più parlare: “Parlami” – dice la protagonista di Estate, ma quello che sa dirgli suo marito non è sufficiente. “È stenografia, solo squallida stenografia”.
Tutto è difficile a definire, da mettere a fuoco, anche i sentimenti (“Constance ci pensò su. Forse l’amore non era né l’obiettivo né la risposta. Forse la comprensione era più importante dell’amore, e forse la forma più alta di comprensione era la comprensione di se stessi, delle proprie motivazioni, dei propri desideri e delle proprie capacità. Constance si costrinse a rifletterci, ma l’idea non le piaceva in granché. Lasciò perdere”).
Sono i bambini quelli che incarnano al meglio il contrasto tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere e l’autrice è maestra nel descrivere quel momento della vita in cui le pulsioni non hanno ancora preso la forma di sentimenti, quello stato di provvisorietà in cui sogno e realtà si mescolano. Si tratta di una condizione propria dell’infanzia e dell’adolescenza e che con il tempo dovrebbe portare i personaggi ad evolvere, a definire i propri contorni acquisendo la consapevolezza propria della maturità, ma i personaggi di Joy Williams non sembrano in grado di fare questo passo, rimanendo condannati a vivere in una specie di limbo (“Avrebbe voluto dire qualcosa,” – pensa la protagonista de Il piccolo inverno – “ma no, non era nemmeno quello. Non voleva dire niente. Voleva capire qualcosa che non era in grado di dire.”).
Se la quotidianità si rivela un terreno sterile, nel quale gli attori di queste storie faticano a ritrovarsi, allora il surreale costituisce una via d’uscita quasi obbligata, un modo per spostare le cose su un piano diverso, un piano nel quale una pianta può diventare l’unica compagna di vita (ne Il giardiniere una felce “è circondata da tanto spazio in cui tutto può succedere, ma di sentimenti sa poco o nulla, perché è matta. Quindi è una confidente perfetta.”), una macchina sgangherata può finire in salotto (Ruggine) e una lampada può accompagnare una donna in giro per l’America alla ricerca della sua vera vocazione (Congresso).

Joy Williams racconta le sue storie con frasi brevi, secche, affilate come lame, attenta a lasciar emergere i caratteri dei personaggi più dalle descrizione dei loro comportamenti che da quello che dicono o pensano, seguendo i canoni di un minimalismo che ricorda Carver pur mantenendo una propria originalità.

domenica 3 giugno 2018

David Means – Il punto




 “E così adesso l’universo è un cazzo di casino. Non c’è un cazzo di niente che possiamo fare.”

Tra gli scrittori di racconti statunitensi contemporanei, David Means è uno dei due o tre che considero imprescindibili. Lui, Saunders e D’Ambrosio (ci sarebbero anche Mary Robison e Amy Hampel, ma di loro ho letto troppo poco). Poi vengono Aimee Bender, Canty, Adrian, Lipsyte… ma dopo.
Means è Means: scrittura non particolarmente scorrevole e di impatto non immediato per racconti stranianti e duri, sia per gli argomenti trattati ma soprattutto per il vuoto interiore dei personaggi descritti. Un vuoto doloroso, soprattutto emotivo, che li spinge a muoversi come anime perse nella nebbia. A guidarne i comportamenti non c’è più la luce della ragione, la morale è diventata una parola svuotata da ogni significato e loro sono simulacri che vagano nel buio di esistenze vuote, cercando di afferrare qualcosa usando l’istinto come unica guida. Quello che balugina nella loro notte sono solo brandelli di sentimenti, qualche emozione, luci sempre più fioche, sempre più rade.
I racconti de Il punto ci parlano di furti, violenze, rapine, omicidi, di momenti di svolta che non rappresentano però delle epifanie, ma solo istanti durante i quali è cambiato o avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Sono racconti costruiti con perizia e mestiere: spesso Means ci introduce nella narrazione come se conoscessimo già i fatti, altre volte omette particolari e frequentemente la trama si sviluppa su un doppio binario, da un lato quello che accade e dall’altro quello che i protagonisti pensano. Ecco, mi sembra che uno dei tratti comuni ai racconti di questa raccolta sia proprio la necessità da parte dei personaggi di raccontarsi storie  per provare a tenere  insieme una realtà che sembra andare alla deriva.

sabato 3 marzo 2018

Cormac McCarthy - Meridiano di sangue


“Tutte le cose del mondo sbocciano, maturano e muoiono, ma in quelle dell'uomo non c'è tramonto e il mezzodì del suo fiorire è già l'inizio della notte. Il suo spirito si esaurisce nel momento stesso in cui raggiunge l'acme. Per lui il meridiano è insieme il crepuscolo e la sera del giorno.”

Meridiano di sangue è l’epica della frontiera raccontata con voce potente. Parole nette, che risuonano chiare e forti come quelle di un’omelia pronunciata dal pulpito di una cattedrale gotica. Si levano verso l’alto, dure e affilate come la lama di un coltello e poi riecheggiano contro le fredde pareti della Chiesa senza perdere un briciolo della loro capacità evocativa. Solo verso la conclusione il ritmo della narrazione muta e McCarthy si diverte a confondere le acque, sfumando i contorni per lasciarci un finale semi-aperto.
È la violenza il centro e la periferia di questo libro, Un Moloch mai sazio, che esige sempre nuovi sacrifici, un mostro che non conosce regole e travolge tutto quello che incontra sul suo percorso. È una violenza incontrollabile, che se all’inizio si presenta sotto le mentite spoglie di un mezzo utile a portare l’ordine, nel corso della narrazione getta la maschera per rivelarsi nella sua vera realtà: una Bestia assettata di sangue, non un mezzo ma il fine che trova la sua espressione attraverso la guerra (Ciò che gli uomini pensano della guerra non ha importanza, disse il giudice. La guerra perdura nel tempo. Tanto varrebbe chiedere agli uomini cosa pensano della pietra. La guerra c'è sempre stata. Prima che nascesse l'uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà. Così e non diversamente).
Il ragazzo, il capitano Glanton e il giudice Holden sono i tre protagonisti del libro, personaggi che sembrerebbero incarnare tre aspetti diversi della violenza: quella intesa come unica possibilità, quella come mestiere e quella come “vocazione”. Violenza di pancia, di testa e di cuore, forse. O forse solo sfumature, modi diversi di percorrere un’unica strada che non conosce ritorno ma solo un crescendo esponenziale destinato a spegnersi con la stessa violenza di cui si è nutrito.
La legge morale è un'invenzione dell'umanità per deprivare il forte a vantaggio del debole. La legge storica la sovverte di continuo, dice il giudice e in nome della legge del più forte giustifica i suoi atti. La violenza come destino dell’uomo, quindi. Una violenza tanto più tragica perché inutile, dato che il nuovo ordine che essa impone sarà destinato a sua volta ad essere spazzato via. Un po’ come, nella poesia della Szymborska.

LA FINE E L’INIZIO

Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.

Non è fotogenico,
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.

C’è chi, con la scopa in mano,
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.

Ma presto lì si aggireranno altri
che troveranno il tutto
un po’ noioso.

C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.

Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con una spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.

sabato 13 gennaio 2018

William Faulkner – Assalonne, Assalonne!



Sul canone “gentiano”
Ci sono scrittori dei quali, una volta terminato un libro, mi viene subito voglia di leggerne un altro e poi un altro ancora. Questo non vale per Faulkner, almeno non nel mio caso. Perché non trovo consolatori e neppure “piacevoli” i suoi libri, piuttosto impegnativi e amari e spesso ho la necessità di intervallarne la lettura con qualcosa di differente.
Assalonne, Assalonne! non fa eccezione alla regola, anzi può essere considerato paradigmatico in questo senso. Faulkner è scrittore che richiede al lettore attenzione, molta attenzione, e lo fa con un incipit che mette subito le cose in chiaro e sembra più respingere che invogliare a proseguire la lettura:
“Da’ un po’ dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora l’ufficio perché così l’aveva chiamato suo padre—una buia stanza calda senz’aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati perché quand’era ragazza lei qualcuno era convinto che la luce e l’aria mossa portassero alcove e che al buio facesse comunque più fresco, una stanza che (come il sole andava battendo sempre più piano su quel lato della casa) si zebrava di lame gialle dense di pulviscolo che Quentin pensava formato di minuscole scaglie della stessa vecchia vernice rinsecchita e morta in via di scrostarsi dalle persiane e sospinta all’interno come dalla forza del vento. C’era una pianta di glicini che fioriva per la seconda volta quell’estate su una graticciata di legno davanti a una finestra, da cui ogni tanto entravano i passeri a folate intermittenti, levando un secco suono vivido e polveroso prima di andarsene: e dirimpetto a Quentin, Miss Coldfield nell’eterno lutto che portava ormai da quarantatré anni, se per una sorella, il padre o un marito mancato nessuno sapeva, seduta eretta nella dritta seggiola dura tanto alta per lei che le gambe le pendevano ritte e rigide come se avesse stinchi e caviglie di ferro, staccate dal pavimento con quell’aria di rabbia impotente e statica che hanno i piedi dei bambini, e parlava con quella sua cupa voce scarna e stupefatta fin quando si finiva per non poter più ascoltare e il senso stesso dell’udito si confondeva e il sepolto oggetto della sua frustrazione impotente eppure indomabile ricompariva, quasi evocato da quell’offeso ricapitolare, quieto disattento e innocuo, dalla paziente, sognante polvere vittoriosa.”
La prima cosa che colpisce è che un solo aggettivo per descrivere il pomeriggio non è sufficiente a descriverne l’atmosfera, tanto da rendere necessario impiegarne ben cinque. La seconda è che la narrazione sembra scorrere lenta, lentissima, ma nelle profondità si agita una sintassi “demoniaca”, che all’interno di frasi lunghe o lunghissime distribuisce virgole e parentesi a profusione, creando subordinate e ipotassi che appesantiscono la prosa rendendo farraginoso un racconto che non sembra arrivare mai al punto. Ci si sforza di andare avanti, ma si è costretti a tornare indietro, a rileggere, a cercare il filo che permetta di sbrogliare la matassa. Impresa inutile perché non c’è un filo, ma tanti fili. Faulkner non è tipo da scorciatoie, da concessioni al lettore. E ne sa una più del diavolo:  da un momento all’altro cambia la voce narrante (senza avvertirci, si capisce), la sequenza temporale si sposta avanti e indietro nel tempo e la lettura da farraginosa diventa irritante così che prima o poi l’attenzione si smarrisce nelle pieghe del discorso. Con Faulkner questo non te lo puoi permettere e allora devi tornare indietro per cercare un punto di ripristino (come si dice oggi…) da cui ripartire.
E allora chi te lo fa fare? Perché devi andare avanti se la lettura è così faticosa? Difficile dare una spiegazione. Forse vai avanti proprio per questo, per il piacere della sfida, per vedere dove l’autore ti vuole portare. Oppure, più semplicemente, vai avanti perché sai che questo libro è un capolavoro e la particolarità dello stile è uno degli elementi su cui si regge quell’enorme cattedrale che è Assalonne, Assalonne! , un libro enorme che in fin dei conti è solo il tentativo di non dimenticare, di tenere viva la storia di Thomas Sutpen  (“Noi abbiamo vecchi racconti tramandati di bocca in bocca; riesumiamo da vecchi bauli e casse e cassetti lettere senza indirizzo o firma, in cui uomini e donne che un giorno vissero e respirarono sono adesso mere iniziali o soprannomi coniati da qualche affetto ora incomprensibile che a noi suonano come sanscrito o Chock-taw; noi vediamo confusamente delle persone, le persone nel cui sangue e seme vivente noi stessi giacevamo in un sonno d'attesa, in quella umbratile attenuazione del tempo, assurte ora a proporzioni eroiche, tornate a compiere i loro atti di semplice passione e semplice violenza, impervie al tempo e inesplicabili. Sì, Judith, Bon, Henry, Sutpen: tutti quanti. Loro ci sono, eppure manca qualcosa; sono come una formula chimica riesumata insieme alle lettere da quel cassone dimenticato, accuratamente, la carta vecchia e sbiadita che va in pezzi, la scrittura sbiadita, quasi indecifrabile, eppure piena di significato, familiare quanto a forma e senso, nome e presenza di forze volatili, e senzienti; tu le ricomponi nelle proporzioni volute, ma nulla accade; tu rileggi, pedante e attento, riflettendo bene, accertandoti di non aver dimenticato nulla, di non aver commesso errori di calcolo; tu le ricomponi ancora e ancora e nulla accade: semplicemente le parole, i simboli, le forme in se stesse, umbratili inscrutabili e serene, contro quel turgido sfondo di un orribile e sanguinoso groviglio di affari umani.”).
Già, la storia di Thomas Sutpen, ma non solo, perché Assalonne, Assalonne! è una saga, un grande romanzo corale, nel quale le voci degli altri personaggi non si limitano a fare da controcanto ma esprimono altrettanti caratteri e aspetti psicologici. Un libro nel quale uomini e donne vivono e parlano in stretta connessione perché:
“Tu vieni al mondo e tenti e non sai perché solo continui a tentare e vieni al mondo insieme a un mucchio di altre persone, tutta aggrovigliata a loro, come loro tentando, dovendo muovere braccia e gambe con cordicelle, solo che le stesse cordicelle sono legate a tutte le altre braccia e gambe e gli altri tentano tutti quanti e neanche loro sanno perché, tranne che le cordicelle si impicciano tutte a vicenda come sarebbe a dire cinque o sei persone tutte intente a cercar di fare una stuoia sullo stesso telaio solo che ciascuna vuol tessere la stuoia secondo il proprio disegno; e non può avere importanza, lo sapete, sennò Coloro i quali impiantarono il telaio avrebbero predisposto le cose un po' meglio, eppure deve avere importanza purché tu seguiti a tentare o a dover continuare a tentare e poi tutt'a un tratto è finita e tutto quel che ti rimane è un blocco di pietra con qualche scalfittura sopra purché ci sia stato qualcuno a ricordarsi di far scalfire e collocare il marmo, o che ne abbia avuto il tempo, e ci piove sopra e il sole ci splende e dopo un po' non si ricordano neppure il nome e quello che le scalfitture tentavano di dire, e non ha importanza. E così forse se tu potessi andare da qualcuno, quanto più estraneo tanto meglio, e dargli qualcosa – un pezzo di carta – qualcosa, qualunque cosa, non certo perché abbia un significato in sé e gli altri non debbono neppure leggerlo o tenerlo, nemmeno preoccuparsi di buttarlo via o distruggerlo, almeno sarebbe qualcosa giusto perché sarebbe accaduto, sarebbe ricordato quand'anche solo passando da una mano all'altra, da una mente all'altra, e sarebbe almeno una scalfittura, qualcosa, qualcosa da poter lasciare un segno su qualcosa che fu una volta per il motivo che può morire un giorno, mentre il blocco di pietra non può essere è perché non può mai diventare fu perché non può mai morire o perire…"


Nella mia idea di canone letterario, Faulkner occupa un posto di rilievo. Lo colloco su una retta ideale che collega Dostoevskij a Foster Wallace. Al primo lo lega la scelta dei temi, perché solo personalità fornite di mezzi potenti possono permettersi di mettere al centro della loro narrazione la Vita, la Morte e l’Uomo e soprattutto scavare così in profondità in ognuno di questi ambiti e poi c’è la polifonia, la capacità di dar voce a tutti i personaggi, Foster Wallace invece, è un collegamento che mi è venuto in mente proprio per lo stile, per la scelta coraggiosa e anacronistica di entrambi di rifiutare la via breve di una narrazione semplice e logica, per inerpicarsi lungo sentieri rischiosi ma che sono la maniera più vera di restituire al lettore tutta la complessità del sentire e ragionare dell’uomo.

sabato 4 marzo 2017

Marilynne Robinson – Le cure domestiche




Quasi un ossimoro

Una storia di donne e di legami familiari, raccontata in prima persona da Ruth, una delle due sorelle protagoniste del romanzo. Una prosa attenta alla scelta delle parole, precisa, ricca di descrizioni minuziose e di descrizioni che la fanno sembrare quasi “anti-moderna”. Una prosa carica di simboli: il buio e la luce e poi l’acqua, su tutti.
Sono i pensieri, più che i dialoghi, a caratterizzare un racconto nel quale il tono lirico usato dalla Robinson per narrare l’anaffettività dei personaggi, stride come gesso che graffia la lavagna.
Le cose succedono, e pur nella loro drammaticità vivono solo in quell’istante, perché un attimo dopo che sono passate sembra che una coltre di polvere le ricopra:
“Questa quiete perfetta si era stabilita in casa loro dopo la morte del padre. Quell’evento aveva sconvolto la sostanza stessa delle loro vite. Tempo, aria e luce portarono ondate e ondate di trauma, finché tutto il trauma non si esaurí, e tempo e spazio e luce ridivennero immobili e nulla parve piú tremare, e nulla parve piú piegarsi. Il disastro era svanito nel nulla, come il treno stesso, e se la calma che lo seguí non fu piú grande della calma che l’aveva preceduto, l’impressione fu comunque quella.”
È come se l’inevitabilità della vita rendesse superflua qualsiasi riflessione, inutile qualsiasi abbandono emotivo:
 “Nel giro di un mese tutta la vita in letargo e la decomposizione interrotta sarebbero ricominciate daccapo. Nel giro di un mese non si sarebbe sentita in lutto”.
Questo il contesto nel quale Ruth e Lucille crescono. Tra adulti che si sfilano più o meno volontariamente dalle loro responsabilità (“tutta la nostra famiglia amava mantenere le distanze. Questa era la definizione piú imparziale delle nostre migliori qualità, e la descrizione piú gentile dei nostri peggiori difetti”), o che quando sono presenti, come Sylvie, non sono in grado di “fare casa” in senso classico perché “i suoi pensieri erano sempre altrove”. Sarà proprio Sylvie a mettere in crisi il rapporto simbiotico che lega le due sorelle, spingendole su due strada diverse: Lucille deciderà di uscire dall’isolamento facendo un passo verso gli altri, verso la luce e l’omologazione, verso quella sicurezza che la vita degli altri sembrano offrirle, Ruth invece seguirà Sylvie lungo la strada buia e stretta di chi vive senza certezze ed è consapevole della propria fragilità e che la teme ma non abbastanza da rinunciarvi (“Credo di non sapere cosa penso –. Questa confessione mi imbarazzò. Per me allora era fonte sia di terrore sia di conforto il fatto di sapere che spesso sembravo invisibile o, per meglio dire, sembravo esistere in modo minimo e incompleto. Mi sembrava di non avere impatto sul mondo, e di avere in cambio il privilegio di poterlo osservare a sua insaputa. Ma la mia allusione a questa sensazione di spettrale inconsistenza suonò strana alle mie stesse orecchie e il sudore incominciò a coprirmi tutto il corpo, dichiarandomi immediatamente colpevole di palese corporeità”).
Come detto, la cifra di questo romanzo mi sembra proprio lo iato tra la prosa piana de  Le cure domestiche e i concetti che la Robinson ci propone: ad un concetto di “fare casa” classico (quello inseguito da Lucille), che rincorre affannosamente il miglioramento e la stabilità sacrificando tutto quello che sembra non servire e soprattutto cancellando un passato non in linea con le proprie aspettative, Ruth (/Robinson) contrappone  un punto di vista decisamente anticonformista che rifiuta il modello della sorella (“mi sembrò che Lucille si sarebbe data da fare per sempre, pungolando, spingendo, blandendo, come se potesse supplire alla volontà che a me mancava, per costringermi dentro una forma decente e trascinarmi oltre le frontiere che immettevano in quell’altro mondo, dove mi pareva che non avrei mai potuto desiderare di entrare. Poiché mi sembrava che niente di ciò che avevo perso o che potevo perdere potesse essere ritrovato là, o, per dirla in altro modo, mi sembrava che qualcosa di quello che avevo perso potesse essere trovato nella casa di Sylvie”) e sceglie di non rinunciare ai ricordi, un modello di vita che mette al centro gli individui e non le cose (emblematico, a questo proposito, l’incendio della casa prima di abbandonare la città). Andare contro il comune sentire non è una scelta semplice, è un procedere rischioso, sempre  in bilico sopra ad un filo, con il rischio di cadere da un momento all’altro, concetto che la Robinson rende meravigliosamente con la metafora dell’acqua, quella del fiume in cui era precipitato il treno del nonno prima e nel quale si era gettata la madre delle due sorelle dopo, fiume che Sylvie e Ruth sfideranno passando sulla ferrovia che lo sovrasta, correndo il rischio di cadere a loro volta per poter essere libere di “fare casa” da un’altra parte.

domenica 7 agosto 2016

David James Poissant - Il paradiso degli animali


carverismi

Ho difficoltà a esprimere un giudizio su questi racconti, complessivamente ben scritti eppure privi in parecchi casi di una loro identità.
Racconti che mettono al centro gente che non ce l’ha fatta: che ci ha provato e ha fallito, che ci ha provato per un po’ e poi si è accontentata o che non ha potuto nemmeno provarci. Sfortunati, falliti, vite in stand by, uomini rimasti ai margini di un mondo che procede dritto per la sua strada, rami secchi che il fiume ha spinto verso la riva destinati a non raggiungere mai il mare. Esistenze segnate da qualcosa che a un certo punto si è rotto e che ora faticano a costruirsi un presente, un rapporto con gli altri.
Storie che parlano di gente che per tutta la vita ha cercato di nascondere la polvere sotto il tappeto e che di colpo si trova a dover fare i conti con la realtà, e non si tratta di conti semplici. Storie di difficoltà a comunicare, di problemi di empatia, di incapacità a dare o ricevere affetto. Storie di persone disilluse, costrette dalla vita ad abbassare l’asticella delle loro aspettative e che adesso aspirano alla normalità più che ad una felicità che sembra ormai una chimera. Una normalità fatta di sentimenti condivisi, di calore umano, di quell’amore che sembra correre via come un treno in corsa sul quale è difficile salire, ma dal quale è facilissimo cadere.

Tutto bene? Mica tanto.
Per cominciare direi che se mi fossi fermato alla quarta di copertina non avrei mai letto questo libro: in solo sette righe ci sono tre mostri sacri come Flannery O’Connor, George Saunders e Raymond Carver tirati fuori completamente a sproposito  (almeno i primi due, perché il terzo merita un discorso a parte) e poi un invito alla lettura che secondo me non c’entra niente, ma proprio niente, con questi racconti: Questo libro è per chi sogna di viaggiare su un furgoncino Volkswagen in compagnia di un labrador nero, per chi ama i film di Wes Anderson e il deserto di Bagdad Café, e per chi a volte teme di essere un pazzo ma in realtà è caduto in un cerchio magico da cui riuscirà prima o poi a uscire.
A prescindere poi da come è presentato il libro, quello che ho trovato poco convincente è stato l’uso troppo “scoperto” di certi stereotipi: i riti di passaggio (Il ragazzo che sparisce), il genio bambino (La geometria della disperazione) usato prima da Salinger e poi diventato cliché, la persona priva di un arto (Il braccio) che ricorda un racconto di F. O’Connor, la perdita di un figlio…  A questo aggiungerei che alcuni racconti mi sono sembrati un po’ troppo “didascalici”, ma soprattutto che un po’ in tutta la raccolta (ad eccezioni di un paio di racconti attraversati da una vene surreale, come Il lupo e Il bambino che brilla, e che per questo sembrano un po’ dei corpi estranei) si nota un “carverismo” fin troppo di maniera, nel senso che Poissant riprende ambientazione e stile dell’originale senza però svilupparli in modo personale (come invece fa Kevin Canty, per fare un esempio). L’imitazione di Carver in certi racconti diventa “totale”: dalla costruzione della frase, ai dialoghi, all’alternarsi di descrizioni d’ambiente con improvvise focalizzazioni su dettagli minimi, al non detto, alle piccole incrinature nei rapporti tra i personaggi che lasciano intuire voragini… Carverismo ai massimi livelli, ma, appunto, -ismo.
Peccato perché quando l’autore lascia la strada maestra dimostra di saper camminare anche le proprie gambe. L’ultimo racconto, quello che da il titolo alla raccolta, è una specie di on the road in solitaria, la storia di un vinto che non può fare a meno di combattere, una corsa del protagonista contro il tempo sapendo già che il tempo non potrà essere sconfitto. Un racconto nel quale Poissant abbandona il carverismo di stretta osservanza per uno stile più lirico, più personale. Più vero.

Complessivamente ho trovato Il paradiso degli animali un prodotto ben confezionato, il problema è che “prodotto” non è esattamente un termine a cui mi piace pensare quando parlo di libri.

sabato 23 luglio 2016

Rivka Galchen – Innovazioni americane



Storytellers generazione 2.0

Nella mia mappa degli scrittori di racconti statunitensi, Rivka Galchen (con Chris Adrian ed Aimee Bender, tra gli altri), si inserisce nella scia degli epigoni di George Saunders, frequentatori cioè di un realismo magico scritto tra (molte) virgolette, perché declinato da ognuno degli interpreti in maniera personale, con cambiamenti di stile e di ispirazione da racconto a racconto.
Questo vale anche per  Innovazioni americane, una raccolta piuttosto eterogenea nella quale si alternano storie dall’impianto “classico” ad altre decisamente surreali. Succede così di imbattersi in oggetti che decidono di abbandonare la casa che li ospita (C’era una volta un impero, racconto che mi ha fatto pensare addirittura a Felisberto Hernandez), frigoriferi che si riempiono da soli (Mercato immobiliare), donne alle quali spunta una mammella sul dorso (Innovazioni americane) o personaggi che viaggiano nel tempo (La zona della dissimilitudine), accanto a questi troviamo poi racconti decisamente diversi, come il bellissimo Blu frutti di bosco, con la descrizione del sentimento amoroso visto con gli occhi e descritto attraverso le parole di una bambina: il suo inaspettato accendersi, la fiamma che brucia alta e potente e poi si spegne in un attimo.
Galchen, come A. Bender, sembra voler ampliare lo spettro della narrazione, mettendo reale e fantastico sullo stesso piano, lascandoli poi interagire come se non ci fosse contraddizione. Emblematico, a questo, proposito è il primo racconto della serie, L’ordine perduto, nel quale la narrazione sembra procedere in maniera piuttosto lineare, con la protagonista che riesce a sfuggire la realtà fino a che il marito non la mette davanti all’evidenza. È a questo punto che si produce una specie di collisione tra la verità che la donna racconta, quella che immagina e quella che propone il marito, sorprendentemente l’autrice sceglie di non far deflagrare il conflitto ma di risolverlo sfumandolo nell’assurdo (Chissà, forse in questo rapporto la sognatrice sono proprio io. Forse sono il l’uomo), quasi un sollevarsi in un volo chagalliano sulle cose.