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sabato 2 settembre 2023

Libro di memorie – Péter Nádas

 

Libro di memorie – Péter Nádas
(trad. Laura Sgarioto)
Dalai editore 2012 – I ed. 1986


Meccanica delle emozioni.

La memoria, tema da sempre centrale nella narrativa, sta riscuotendo un rinnovato interesse nel panorama degli autori contemporanei, con declinazioni particolarmente originali soprattutto da parte di chi ha vissuto oltre cortina (A. Blandiana e M. Stepanova docent). In Libro di memorie, Péter Nádas lo affronta confezionando un romanzone di stampo novecentesco, caratterizzato da una prosa a metà tra il proustiano e il mitteleuropeo (T. Mann, H. Broch, R. Musil), uno stile lento, ricco di improvvise epifanie, descrizioni minuziose e insistenti, così controcorrente rispetto alla tendenza della narrativa attuale e una trama di non semplice interpretazione con tre parti distinte che si succedono come una sinfonia nella quale i salti temporo-spaziali e le ellissi rappresentano la regola, mettendo alla prova l'attenzione del lettore.
Il protagonista è un giovane scrittore ungherese mai nominato, del quale viene narrata la storia, a partire dalla giovinezza e dai rapporti conflittuali con il padre negli anni '50, fino alla vita bohémienne con un complicato triangolo sentimentale a Berlino vent'anni dopo. In parallelo si sviluppa la storia di Thomas, invenzione del protagonista, autore di un romanzo sulla Germania del primo Novecento e in chiusura del romanzo si aggiunge a scompigliare le carte il racconto di un amico dello scrittore, che inserisce un punto di vista differente contraddicendone in parte la narrazione autobiografica che abbiamo letto fino a quel punto. Abbastanza per gettarci nello sconforto e spingerci a domandarci se lo sforzo di seguire Nádas attraverso settecento e più pagine è valso la pena.
La mia risposta è sì, non solo perché Susan Sontag ha definito questa opera “il più grande romanzo scritto nel nostro tempo e uno dei più grandi libri del secolo”. Nádas è un maestro della meccanica delle emozioni, che esplora con attenzione e profondità, quasi lispectoriano nella ricerca di ciò che si cela dietro all'apparenza e insieme nel non volerlo scoprire per continuare a sognarlo e spingersi sempre oltre.
Il protagonista è una personalità scissa, che vive il disagio esistenziale della sua situazione, un individualista impegnato nell'introspezione in un ambiente, quello dell'omologazione dell'Est Europa, che guarda con sospetto queste tendenze "devianti". Un uomo alla ricerca spasmodica di un equilibrio che prova a costruire sulle sabbie mobili di un rapporto con gli altri che sembra necessitare sempre di un "terzo" attore, di un altro punto di vista che invece di chiarire la situazione non può fare altro che complicarla. Un uomo che guarda dentro se stesso lasciandosi guidare dall'emotività, dalle sensazioni più che dal raziocinio, forze che invece di avvinarlo alla riva lo spingono sempre più verso le acque alte e pericolose delle contraddizioni, spinte centrifughe che cerca di bilanciare senza riuscire a raggiungere quell'armonia alla quale tende. Un'anima che vive la realtà dell'inverosimiglianza e si affanna nella ricerca di una terza via tra pensiero etico ed estetico, finendo schiacciata dal castello delle sue congetture e dal peso della relatività delle cose.

Lettura difficile ma sicuramente sorprendente, importante e stimolante.

sabato 17 luglio 2021

Kornél Esti – Dezső Kosztolányi


«Tra la vita e la letteratura Esti sceglie sempre la letteratura, poiché quella è la vita.»


Diciotto capitoli che sono altrettanti racconti singoli che nel loro complesso vanno a costruire il romanzo della vita di Kornél Esti, alter ego o meglio "doppio" dell'autore.
Un tipo frivolo, snob, che vive al di fuori degli schemi della società del tempo, quello che oggi definiremo un "non omologato".
«Mio fratello e mio opposto.» lo definisce l'autore «Uguale in tutto e diverso in tutto. Io ho raccolto, tu hai sparpagliato, io mi sono sposato, tu sei rimasto celibe, io adoro la mia gente, la mia lingua, respiro e vivo solamente in patria, ma tu, giramondo, voli sopra le nazioni, libero e garrisci l'eterna rivoluzione. Ho bisogno di te. Senza di te sono vuoto e mi annoio. Aiutami, altrimenti perisco.»
Due facce della stessa medaglia: uno sa solo vivere e l'altro solo scrivere, da qui la decisione di diventare coautori. Kornél Esti racconterà le sue avventure e l'autore le scriverà. Un romanzo? Un diario di viaggio? Una biografia romanzata? Tutti e tre insieme.
Frammenti, episodi di vita, le mirabolanti avventure di Kornél Esti, un "marziano" a spasso per l'Europa del primo Novecento.
Episodi che già dal titolo dei capitoli riecheggiano quelli del Don Chisciotte. Come l'eroe dalla trista figura, Kornél Esti si scontra infatti con un mondo del quale fatica a prendere le misure, risultando spesso fuori luogo.
«Esti non capiva la vita; non aveva idea perché fosse nato in questo mondo. Pensava solo che chi era capitato in quest'avventura dallo scopo ignoto, che termina con l'annullamento, fosse sollevato da qualsiasi responsabilità e avesse il diritto di fare ciò che voleva: per esempio sdraiarsi in mezzo alla strada e iniziare a lamentarsi senza ragione e senza meritarsi alcuna disapprovazione. Ma proprio perché considerava la vita nel suo insieme priva di senso, ne capiva ogni piccola parte presa una a una, ogni persona senza eccezione, ogni punto di vista nobile e infame che fosse, ogni teoria, e l adottava immediatamente.»
«Vivere così, nell'insensatezza massima sguazzando tra le insensatezze minime, secondo lui non era stupido, anzi era forse il odo di vivere più giusto e più sensato.»
I miti della società non fanno presa sulla personalità di Kornél Esti, anche l'improvvisa ricchezza diventa per lui una scocciatura, così che decide di distribuire il denaro ereditato ma non destinandolo ad opere bene, bensì distribuendolo a casaccio, proprio come l'aveva ricevuto.
«Io non sono nato per salvare questa umanità che, quando non è colpita da incendi, alluvioni e pestilenze, mette in piedi le guerre e provoca artificialmente incendi, alluvioni e pestilenze. Ho abbandonato a se stessa, già da tempo, la cosiddetta società e non mi sento neppure tutt'uno con essa. Mia parente è la natura: folle, indomita e viva.»
Kornél Esti è un'anima pura, che guarda al caos della vita con gli occhi del bambino, affascinato dalla possibilità di intrattenere una conversazione con un bulgaro senza conoscere la lingua, ma solo con sguardi ed espressioni del viso.
Si prende gioco della ragione, la sfida e la mette in dubbio ad ogni passo e nel suo gioco iconoclasta non dimentica le élite culturali del tempo, soprattutto i poeti con la loro «visione del mondo pomposa e sentimentale» e i legislatori, gli organizzatori della cosa pubblica:
«Io ho sperimentato che si possono mantenere concordia e pace nella vita pubblica solamente se lasciamo che ogni cosa vada per la sua strada, se non ci intromettiamo nelle leggi eterne della vita; che non dipendono dalla nostra volontà, e pertanto difficilmente possiamo cambiarne qualcosa.»

«Finora tutto il disordine sulla Terra è stato generato dal fatto che alcuni hanno voluto fare ordine, tutto lo sporco si è creato perché alcuni si sono messi a spazzare. Cercate di capire, la vera maledizione a questo mondo è l'organizzazione, e la vera felicità invece sono la disorganizzazione, il caso, il capriccio.»
Kornél Esti è homo aestheticus, un folletto dei boschi che si diverte a osservare con sguardo beffardo e bonario i suoi simili e i loro sforzi per guadagnarsi un posto comodo nella vita, così simili al personaggio dell'ultimo capitolo che dopo aver sgomitato tanto per ottenere un posto a sedere sul tram, non riesce a godersi il piccolo trionfo appena conseguito perché la vettura è appena giunta al capolinea.

sabato 6 febbraio 2021

Guerra e guerra – László Krasznahorkai

 


La Bellezza salverà il mondo.

Terzo in ordine di tempo dei romanzi di Krasznahorkai arrivati in Italia (Satantango è del 1985, Melancolia della resistenza del 1989 e Guerra e guerra del 1999), ed ennesimo capolavoro dello scrittore ungherese.
«È finita, di nuovo…», dice già nelle prime righe Korin, il protagonista di È arrivato Isaia, il racconto che fa da prologo al romanzo, «Tutto è rovinato, tutto è abbruttito.»
Già, abbruttito. L'uomo, con l'ausilio divino, ha rovinato il mondo spazzando via la bellezza e rendendo ogni cosa rozza e volgare. Non c'è speranza, nessuna possibilità di comprendere, la storia ha cancellato le idee stesse di nobile e sublime e lui, Korin, ha visto il futuro e ne è rimasto inorridito.
Korin è un archivista che sin da piccolo «riusciva a identificarsi solo con la sconfitta» e con il dolore che l'accompagnava, un uomo che improvvisamente precipita in uno sconforto esistenziale ma la cui vita subisce una svolta dopo la scoperta di un manoscritto («un testo impressionante, epocale, emozionante e geniale») che diventa per lui l'unico scopo di vita e che decide di consegnare all'immortalità affidandolo ad Internet. È un manoscritto che racconta di quattro personaggi che in vari momenti del tempo e dello spazio incontrano la bellezza ma proprio quando sembrano sul punto di creare un paradiso in terra sono costretti a fuggire dallo scoppiare di una guerra che sembra essere ogni volta inevitabile.
La figura allucinata di Korin si staglia sull'indifferenza di un mondo destinato alla catastrofe e leva forte il suo grido di dolore: «io non sono impazzito, ma vedo le cose con una tale chiarezza che è come se lo fossi.». Forse è proprio così e la follia è l'unica ancora di salvezza che rimane all'uomo, follia intesa come uscita dai canoni che scandiscono le nostre vite. Korin finirà così per legare il proprio destino a quello dei quattro personaggi forzando il diaframma che divide realtà e finzione per provare a sottrarli alla loro sorte grazie al potere salvifico dell'Arte.
Guerra e Guerra è un libro enorme nel quale Krasznahorkai affida le sue riflessioni a lunghi monologhi, con frasi contorte che cercano di correggere, chiarire… e intanto ci tirano sempre più dentro alla trama, partecipi di un mondo complesso, fatto di processi mentali un magma di parole dove tutto è in movimento verso un dove che non si chiarisce. Una tensione costante che non garantisce la certezza dell'approdo sicuro, un viaggio avventuroso e carico di insidie che vale la pena di essere vissuto.

«Cerco di trovare una via tra realtà e finzione,» dice Krasznahorkai in un'intervista del 2011 a Music & Literature «tra il peso dell'esistenza e della finzione. La giusta proporzione è il problema principale nell'arte oggi, penso, tra finzione e realtà. Forse questo è un problema irrisolvibile, ma cerco di risolverlo, nel mio caso, in letteratura.»


Links
https://www.doppiozero.com/materiali/guerra-e-guerra-storia-e-romanzo
https://www.newyorker.com/magazine/2011/07/04/madness-and-civilization
https://www.musicandliterature.org/features/2013/12/11/a-conversation-with-lszl-krasznahorkai

sabato 11 maggio 2019

Ádám Bodor – Boscomatto



C'è ancora tempo per la speranza?

Boscomatto è un libro strano ad iniziare dal titolo, perché in realtà qui non si parla mai di un bosco matto ma, eventualmente, di un bosco muto e allora meglio sarebbe stato attenersi alla traduzione letterale del titolo originale, gli uccelli della Verhovina.
Un libro nel quale ritroviamo le atmosfere sinistre di Satantango di Krasznahorkai ma anche personaggi bislacchi che ricordano quelli de La scuola degli sciocchi di Sokolov, come Danczura con la sua camicia gialla con la quale attira le farfalle che poi si mangia, la signorina Klara Burszie che trascorre il tempo in attesa che si avveri il vaticinio che le è stato fatto dell'arrivo di un ufficiale ungherese che la porti via da lì, la sarta Aliwanka che profetizza utilizzando l'acqua, Nika Karanika che è in grado di richiamare i morti alla vita e mille altre strane figure di cui è inutile sta qui a dar conto.
Il paesino di Jablonska Poljana sperso nella regione della Verhovina cui si accennava, è un microcosmo inospitale abbandonato anche dagli uccelli che dopo esser stati respinti dall'uomo hanno ormai rinunciato a nidificare in quelle zone; quello dipinto da Bodor è un mondo in disarmo, abitato da silenzi e da strani uomini che sembrano vivere più per abitudine che per convinzione. Un mondo chiuso, che sembra essere controllato dall'esterno, con il tempo che è diventato un lunghissimo presente ("Scuoto la testa, lo sguardo, alzo gli occhi al cielo: domani? Dopodomani? Anche quello è ormai oggi."). Si vive nell'attesa e nel timore di qualcuno che arrivi da fuori a cambiare la status quo, un qualcuno che si ignora chi sia e non si sa perché dovrebbe sovvertire quell'ordine. Un libro di atmosfere, più che di fatti, con la sensazione di incombenza e insieme di ineluttabilità ed inesplicabilità che accompagna il lettore dalla prima all'ultima pagina. Boscomatto è il racconto della lunga attesa di una comunità ("Attendiamo che magari venga qualcuno. […] A dire il vero attendiamo solo il passare del tempo.") che ha messo la sordina ai sentimenti  e che riesce a provare al massimo pulsioni perché quando qualcuno dei personaggi prova ad avvicinarsi ad un altro sembra aver dimenticato il modo di farlo, i gesti, le parole: gli abitanti di  Jablonska Poljana sono uomini e donne disabituato al contatto, induriti dalla vita.
Un microcosmo che sembra essere la metafora della nostra società: le cose succedono – sembra dire Bodor – ed è inutile provare a dare loro un senso perché la vita non ha senso e l'unica possibilità che ci è data è quella di provare ad adattarci ad essa per non finire travolti da quello che sarà.
Boscomatto è il racconto di un lungo crollo, la morte di un sistema per autoconsunzione, un gran libro, elegante ma duro, che sembra non lasciare spiragli di luce al lettore. Attenzione, però, perché alla fine si affacciano in cielo dei piccoli uccelli, i codirossi: c'è ancora tempo per la speranza?

sabato 25 febbraio 2017

László Krasznahorkai - Satantango



Fisiopatologia dell'attesa.

Una scrittura densa, materica, con frasi lunghe e ricche di subordinate che cercano di riprodurre su carta la lingua parlata, rinunciando così a semplificare i concetti ma esponendoli per come vengono fuori, anche in maniera farraginosa. Una lettura a tratti faticosa, con la quale si fatica ad entrare in sintonia, ma che ripaga dell’attenzione che richiede perché a forza di farsi strada nei meandri della narrazione di Krasznahorkai si finisce per ritrovarsi nel bel mezzo della storia. Una storia che è attraente e al tempo stesso straniante, che racconta ma non spiega e complica quando finge di chiarire.
Una storia raccontata per immagini, per tessere che poste una accanto all’altra vanno a costituire il mosaico di Satantango, un mosaico che sembra privo di un centro, nel senso che non c’è un protagonista assoluto ma una serie di personaggi (tutti molto bel tratteggiati e sviluppati nei loro caratteri) ognuno dei quali è protagonista della “sua” storia, della storia che vive e racconta dal suo punto di vista. Cambiamenti di prospettiva (lo stesso avvenimento visto attraverso occhi diversi) e alternanza dei piani temporali (per tacere dei simboli e delle fughe in avanti, in un mondo onirico tra fantasia e realtà), caratterizzano un romanzo dominato da un’atmosfera cupa, fatta di pioggia, oscurità e fango.
Fango come metafora che tutto sommerge e rende uguale, fango che rallenta i movimenti e che costringe all’immobilità. Quell’immobilità nella quale si trovano tanto bene i protagonisti della storia, un gruppo di disperati che attende l’attesa di Ieremiás, il deus ex machina che promette di portarli fuori dalle secche nelle quali la loro vita è precipitata. Futaki, Halics, Kerkes la signora e il signor Schmidt e gli altri sono morti che camminano, ciechi che vagano nel buio come i protagonisti del romanzo saramaghiano, uomini e donne che si sono auto-condannati all’attesa: aspettano per indolenza, per incapacità, perché ci hanno provato ed hanno fallito, perché non hanno mai trovato la forza per provarci… Aspettano perché non sanno far altro e intanto che aspettano cercano di dimenticare la realtà con l’alcool e con la danza, quel tango satanico che è l’ultimo sberleffo, l’unico sistema che conoscono per dimostrare a se stessi di essere vivi, almeno fino a quando non sarà passata la sbornia e tutto tornerà come prima.
Ieremiás è il Godot tanto atteso, che a differenza dell’eroe beckettiano però ad un certo punto si materializza, anche se con le sorprendenti fattezze del Don Chisciotte cervantiano con tanto di Sancho Panza al seguito (il fidato Petrina). Solo le fattezze però, ché Satantango non è un romanzo di eroi o di lieto fine e Ieremiás si rivelerà essere un truffatore di basso cabotaggio, un piccolo uomo che vive di espedienti come tutti gli altri. Non è più tempo di messia, sembra dirci Krasznahorkai, eppure quando il cielo è grigio e i tempi sono confusi gli uomini non possono fare a meno di cercarli, e di mettere nelle mani di qualcuno le loro vite. Poco importa chi sia quel qualcuno, l’importante è che sappia accendere ancora una speranza, che è l’unica (l’ultima) cosa a tenere in vita persone che da tempo hanno smesso di credere in qualcosa, e pazienza se poi speranza fa rima con illusione.

Satantango è un gran romanzo, ricco di spunti e con tanti piani di lettura, simboli (le campane, ad esempio), sprazzi di fantastico (la bambina morta – una delle figure più riuscite e sorprendenti del libro - che fluttua in aria come un personaggio chagalliano), zone oscure, pugni nello stomaco (la sadica fascinazione dei bambini per la violenza) e poi un finale che sembra tornare all’inizio, quasi a suggerire che è il personaggio del dottore il vero autore della storia che sta raccontando.

sabato 26 settembre 2015

Ferenc Karinthy – Epepe



Tra Kafka e Saramago

Romanzo che, sorprendentemente, prende le mosse da una domanda tipica della produzione saramaghiana dagli anni '80 in poi: cosa succederebbe se?
Se la penisola iberica si staccasse dall'Europa (La zattera di pietra), se gli uomini diventassero improvvisamente ciechi (Cecità), se non si morisse più (Le intermittenze della morte), se alle elezioni tutti votassero scheda bianca (Saggio sulla lucidità), sono alcuni degli incipit usati dal mastro di Azihaga e cosa succederebbe se di colpo ci trovassimo tra gente che non parla la nostra lingua è quello del libro di Karinthy.
Un romanzo distopico, il dramma di un uomo condannato a vivere in un mondo nel quale non riesce a farsi capire ma del quale è costretto ad accettare le regole. Un mondo che da l'impressione di correre verso il nulla, in cui tutti vanno di fretta oppure sono in coda per ottenere qualcosa, ma in un caso o nell'altro sono indifferenti al dramma che il protagonista vive. Nessuno ha tempo da perdere con lui, le cose sembrano succedersi senza un motivo preciso e anche una rivolta popolare che scoppierà inspiegata e improvvisa, altrettanto rapidamente verrà repressa e dimenticata.
A rischiarare il buio nel quale le circostante hanno precipitato il povero Budai sarà (non a caso) una donna (Epepe, Pepe, Dede, Veve, Bebe, Edede o come diavolo si chiama...), l'addetta agli ascensori dell'albergo, l'unica persona con la quale il protagonista del romanzo riuscirà a stabilire un abbozzo di contatto. Una comunicazione destinata a scorrere più a livello emotivo che verbale, nella quale Budai per la prima volta proverà ad abbandonare il consueto terreno della razionalità, fatta di mille tentativi tanto ingegnosi quanto infruttuosi di comprendere l'alfabeto di quello strano posto, per affidarsi al cuore, sforzandosi di prestare attenzione non più ai suoni che escono dalla bocca di Epepe quanto al tono della sua voce, alle inflessioni, ai gesti, per provare a interpretare con l'immaginazione quello che la ragazza dice. Una comunicazione giocata sul piano della sensibilità, quel tipo di relazione che, sembra dire Karinthy, si può sperimentare solo con una donna.
Epepe è un romanzo sulla difficoltà e insieme sulla necessità di comunicare e su come un corto circuito di questo meccanismo possa condurre all'alienazione. Difficile non leggere in queste pagine anche un riferimento politico: il libro è del 1970, scritto poco dopo i fatti della Primavera di Praga e le code, la sensazione di straniamento, di vivere sotto un giogo, di non aver voce e, soprattutto, la rivolta repressa nel sangue e cancellata il mattino dopo come se non fosse mai esistita, sembrerebbero riferimenti abbastanza precisi a quello che succedeva in quegli anni nell'Europa dell'Est.


domenica 20 luglio 2014

László Krasznahorkai – Melancolia della resistenza


Libro strano e bellissimo. Una prosa densa, frasi lunghe e nessun 'a capo', periodi che costringono il lettore a rimanere sempre concentrato per non perdere il filo del discorso, in netta controtendenza rispetto a tanta letteratura contemporanea. Una scrittura che serve (anche) a farci entrare nel romanzo a poco a poco, con trama e personaggi che si rivelano con tempi - anche qui - più lenti rispetto a quelli a cui siamo abituati. Krasznahorkai costruisce un romanzo sul quale incombe un'atmosfera nebbiosa e cupa che mette in dubbio le certezze fin dalla prima pagina: 

 ...l'ordine delle abitudini non era più indiscutibile, la confusione si ramificava indomabile a sconvolgere la normale quotidianità, il futuro appariva insidioso, il passato lontano e dimenticato, mentre il normale corso delle giornate era talmente imprevedibile che la gente si era arresa... 

 Melancolia della resistenza è un romanzo corale, nel quale l'autore sceglie di farsi da parte e lasciare la parola ai protagonisti. La storia è raccontata da ognuno dei personaggi secondo il suo punto di vista, ognuno è chiamato a dire come si confronta con il caos che compare all'improvviso a sgretolare un ordine che si credeva immutabile. Ed ecco scorrere sotto i nostri occhi una teoria di strategie, di comportamenti, di tecniche diverse che ognuno mette in opera per affrontare la partita con la vita. 
 C'è chi si difende, come la signora Pflaum:

..abituata a osservare il folle turbinio del mondo esterno dal suo benefico rifugio, e dalla considerevole distanza di quell'universo intimo tutto era così estraneo da apparire incerto, nebbioso, informe, confuso, come adesso – di nuovo seduta dietro la sicurezza, finora impeccabile di una porta chiusa a chiave, come se bastasse una serratura per dimenticare il mondo... 

e chi gioca in attacco, come la signora Eszter: 

 ...Sentendosi padrona del futuro, guardava la città con gli occhi di un'audace ereditiera, convinta di trovarsi alle soglie di “un'era radicalmente nuova, gravida di promesse, che avrebbe spazzato via tutto”... 
...Il dubbio in lei non esisteva, non temeva l'imprevisto, si sentiva sicura di sé come solo lei sapeva esserlo... ...un soldato fatto e finito, che conosceva solo un ritmo, la marcia, e una sola melodia, la carica... 
...Voleva che riscoprissero principi sani come la forza, l'azione, il re-a-li-smo, bisognava “spazzar via” i mercanti di illusioni, gli ingannatori, i deboli, che non volevano riconoscere la legge che ci governa: la vita è una guerra di vinti e vincitori... 
...C'era un solo segreto, “non bisogna vedere a certe piccole, viscide illusioni, ma fare i conti solo con le cose concrete”. Questo era il punto più importante, “non cedere” a illusioni generalmente devastanti, come la storia che “il mondo è governato da un cosiddetto Dio, dalla morale, e naturalmente dalla bontà”, per lei il mondo degli uomini era piuttosto “un canneto di meschini interessi”, un canneto dove comanda il vento, e il vento era lei... 

C'è poi chi la partita ha rinunciato a giocarla, come il signor Eszter, che si dichiara vinto e sceglie di chiudersi in casa accettando di essere stato sconfitto dalla vita e convinto del fallimento dell'umanità, dell'impossibilità di comprendere il disegno del creatore perché non esistono né disegno né creatore e l'universo è solo un alternarsi ineluttabile di distruzione e creazione, una lotta tra ciò che resiste e ciò che tenta di sconfiggere la resistenza, sul quale è inutile speculare. Un tempo aveva sperato che la musica fosse l'unica possibilità per resistere e opporsi alla “appiccicosa lordura” del mondo, ma presto aveva dovuto ammettere che anche questa era solo un'illusione, per cui aveva deciso di ritirarsi, distaccarsi, dedicarsi esclusivamente alla gioia inesprimibile della rinuncia. 
E c'è anche chi ha provato a fuggire rifugiandosi nella follia, come Valuska che vive nel suo mondo di fantasia: 

...navigava col pensiero e con le visioni, si muoveva libero nello spazio immenso e imperscrutabile come se quello fosse il suo vero mondo, in questo, prigioniero della sua libertà, non riusciva a trovare posto... 
...il suo cervello, preda di un meravigliato stupore, era completamente scollegato dalle normali faccende terrene. Camminava “a occhi chiusi, instancabile, con l'animo perso nell'incurabile bellezza del suo cosmo personale”... 

almeno fino a quando la realtà irrompe con la brutalità della violenza insensata a distruggere le fragili difese che si era costruito e lo costringe all'impasse 

...poiché il paesaggio originale non c'era più sulla carta, e in quello nuovo non sarebbe stato capace di muovere un solo passo alla vecchia maniera, la cosa migliore era dimenticare tutto... 
...ormai anche il “suo cuore” era morto, aveva imparato “a stare con i piedi per terra e tutto era ormai chiaro”, non credeva più che “il mondo fosse un luogo magico” … 
...era uscito da un sogno malato, ma giocoso, e si era “risvegliato in un deserto” dove le cose non sono null'altro che entità tangibili... 

 E poi c'è la gente, la massa anonima che non capisce quello che succede e si rifugia nella superstizione e non sapendo reagire al caos si chiude in se stessa, diventando facile preda tanto per chi porta distruzione quanto per chi vuole impadronirsi del potere. 
Melancolia della resistenza è un libro sulla natura e la storia dell'uomo, sulla crisi della società, sull'ignavia delle masse e sulla pericolosità dell'ambizione dei singoli, ma soprattutto un libro sul senso della vita, che racconta non tanto la lotta eroica dell'uomo nella vana ricerca di trovare una logica nell'universo, un'armonia nelle cose del mondo, quanto quello che succede dopo che l'uomo si è reso conto dell'inutilità dei suoi sforzi e si è arreso al fallimento, quando come unica forma di difesa, non gli resta altro che una resistenza passiva nei confronti della vita.