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domenica 5 agosto 2018

Antoine Volodine – Gli animali che amiamo




Non sei tu, sono io…

Sbaglierò, sicuramente sono io a non aver compreso il valore dell’opera, il suo intento, il disegno che c’è dietro e le intenzioni dell’autore… ma questo libro proprio non mi è piaciuto.
Peccato perché la copertina è bella, il progetto grafico accattivante ma l’impressione è che alla fine il pacchetto sia migliore del contenuto, che Volodine sia rimasto prigioniero della sua creatura e che a forza di teorizzare sul post-esotismo si sia dimenticato per strada la trama o non l’abbia supportata a sufficienza.
Ma chi sono io per criticare l’autore di Angeli minori e di Terminus radioso, uno che è pubblicato da Gallimard e che ha vinto il Prix Médicis nel 2014? Nessuno, proprio nessuno. E allora, scusa tanto Volodine se non ho capito questo libro. Non sei tu, sono io.

sabato 22 luglio 2017

Antoine Volodine – Terminus radioso


Viaggio alla fine del mondo

L’umanità immaginata da Volodine in questo libro è abitata da morti che camminano, personaggi inconsapevoli della loro condizione che si aggirano straniati tra le macerie di quel che resta. Post-capitalisti, post-comunisti… post-vivi probabilmente o peggio, perché il dramma del personaggi di Terminus radioso nasce non solo dal fatto di essere morti, ma di essere morti che non riescono a morire completamente, uomini e donne che vivono nei sogni e negli incubi di altri e che neppure lì riescono ad essere liberi, simili per certi versi ai dannati dell’Inferno, condannati ad espiare all’infinito le loro colpe. Burattini, li definisce a un certo punto l’autore, chiamati a recitare a comando una parte. Simulacri che vagano come ubriachi per un mondo deserto, esseri senza regole e principi, con in tasca solo qualche vaga reminiscenza di ideali egualitari.
Nessuna redenzione né lieto fine: quelle di Terminus radioso sono pagine cupe, claustrofobiche, che a tratti riecheggiano l’eco della Strada McCarthiana. Il tempo sembra scorrere senza senso, la vita sembra scorrere senza senso. Gli ideali sono diventati illusioni e le illusioni rimpianti: tutto è perso e l’unica cosa che rimane sono i ricordi, quei ricordi ai quali Kronauer, il protagonista, cerca di attaccarsi disperatamente ma che altrettanto inesorabilmente sente scivolare via.
Quel che resta sono manciate di sentimenti e soprattutto istinti e pulsioni, flebili segnali di una vita che corre via veloce in attesa che anche l’ultimo uomo si estingua e la natura riprenda il suo posto, una natura trasformata dalle radiazioni create dall’uomo, martoriata ma mai doma e che per tutto il libro rimane in paziente attesa, come una bestia ferita che attende solo il momento della vendetta.

Leggendo Volodine, l’impressione è che a volte paghi pegno al proprio dogmatismo, al fatto di aver costruito una letteratura (parlo del post-esotismo) un po’ troppo rigida nella sua architettura, con la conseguenza di essere ripetitiva negli argomenti, nel loro sviluppo e nelle finalità narrative. Da questo punto di vista ho trovato Terminus radioso molto simile ad Angeli minori, che per certi versi ho preferito.

P.S.: nella terza di copertina si legge che “Volodine firma un romanzo fosco e ironico che intona un inno all’umorismo del disastro, alla fuga dal reale, alle tecniche di resistenza di fronte al buio, alla notte, alla catastrofe”.
Ironico? Umorismo? Tecniche di resistenza al buio? Cioè: questo sarebbe un libro che fa ridere?
Se è così confesso che di Terminus radioso io non ho capito niente.

sabato 8 luglio 2017

Antoine Volodine – Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima



Resistere non serve a niente?

La storia del post-esotismo nel racconto di Lutz Bassmann, un uomo che attende la morte rinchiuso nel braccio di massima sicurezza da ventisette anni, guardando le fotografie dei suoi amici defunti mentre l’umidità avvolge ogni cosa e fuori piove incessantemente.
Bassmann è solo un portavoce, l’ultimo sopravvissuto di un gruppo che non esiste più, superstite senza speranze che attende di portare a termine la definitiva disfatta. A lui il compito di prolungare l’esistenza di quelli che l’hanno preceduto, a lui il compito di far vivere la loro memoria attraverso il colloquio con due cronisti della stampa organica al sistema che si interessano (o fingono di farlo) alla storia del post-esotismo.
La narrazione è resa farraginosa  da brevi “lezioni” sugli aspetti formali del post-esotismo che ne interrompono bruscamente il corso e il racconto di Bassmann è quello di un uomo consapevole della sconfitta che cerca di soffiare sulle braci della memoria per non lasciar spegnere il fuoco. Parla di un movimento avverso e ostile allo status quo, un movimento di resistenza che cerca di nascondere le sue intenzioni per non dare vantaggi all’avversario e che vede anche nel lettore un possibile nemico. Un movimento che tiene il mondo a distanza, attento a non fare commerci con la nostra realtà per non lasciarsi contaminare e corrompere da essa, così esterno da far diventare virtuale quello che per noi è il mondo reale.
Volodine è un visionario, un Pessoa a tratti più “strutturato”, che con il post-esotismo costruisce un luogo del pensiero dove non mancano le contraddizioni, considerato che è a un tempo nichilismo ma anche zona franca dove poter coltivare una deriva egualitaria. Un movimento che sembra una interpretazione in chiave letteraria di questi anni complicati: il post-esotismo come risposta allo sgretolamento degli ideali, al fallimento dell’utopia socialista e alla deriva capitalista.

Resistere non serve a nulla? No, resistere per Volodine sembra essere l’unica possibilità.

sabato 1 ottobre 2016

Antoine Volodine – Angeli minori




Il mondo ai confini del mondo

Dopo Gospodinov e Cărtărescu ecco Volodine. Un altro messaggero degli dei mandato a dirci che il romanzo non è morto, ma gode di splendida salute.
Un romanzo diverso da quello che abbiamo conosciuto finora, meno chiuso in se stesso e più aperto in tutte le direzioni, un romanzo che mescola reale e visionario, che racconta senza sentire il bisogno di spiegare, che utilizza tutti i registri e le tecniche narrative che ritiene necessarie e magari inserisce nella narrazione note di biologia, scienza, religione e quant’altro possa risultare funzionale alla storia.
Una novità che parte da lontano, visto che già Kundera, nella prefazione de “I sonnambuli” di Broch scrive:

“Con un’euforica fiducia in se stesso Broch, durante la stesura dei Sonnambuli, afferma (in alcune lettere) che il suo romanzo rappresenta una nuova tappa della storia del romanzo. Dopo la lunga era del romanzo «psicologico», scrive, è giunto il tempo del romanzo «gnoseologico». Infatti, nell’epoca in cui le scienze si specializzano sempre di più, addentrandosi in un tunnel senza uscita, solo il romanzo può ancora cogliere l’esistenza umana in tutta la sua estensione, in tutta la sua totalità. Nel nostro tempo, afferma, «la conoscenza è la sola morale del romanzo».
Un tale ampliamento dell’orizzonte noetico esigeva un ampliamento formale altrettanto radicale. Broch ha saputo incorporare nel suo romanzo diversi generi letterari. Ciò è particolarmente evidente nella terza parte della trilogia: c’è una story che narra la vita di Huguenau (narrazione interrotta da una breve parte scritta come fosse un dialogo teatrale e da un’altra dall’andamento aforistico); c’è una novella che racconta la vita intima di una donna perduta; poi un reportage su un ospedale militare; poi uno strano racconto sull’Esercito della Salvezza (scritto per lo più in versi). E infine un saggio filosofico sulla «disgregazione dei valori» (che non disdegna il linguaggio scientifico). Tutte queste parti sono articolate in molti capitoli i quali, correlati e combinati, danno vita a un sorprendente insieme polifonico (il termine è di Broch) che l’arte del romanzo non aveva mai conosciuto.

Quando Sartre, nel dopoguerra, parla della necessità di cogliere non i caratteri e la loro psicologia, ma le situazioni fondamentali nelle quali si rivela l’esistenza umana, definisce così, nei termini che gli sono propri, la grande svolta compiuta vent’anni prima da Broch. Ma è soprattutto il grande romanzo latinoamericano che dagli anni cinquanta e sessanta continua sulla strada aperta da Broch. Penso a Ernesto Sabato che, nel 1974, afferma, in modo assolutamente brochiano, che «nel mondo moderno abbandonato dalla filosofia, frazionato in centinaia di specializzazioni scientifiche, il romanzo resta l'ultimo osservatorio da dove si può abbracciare la vita umana come un tutto»”

Novità formali e di contenuti, che Volodine interpreta con una scrittura non semplice, ma che pretende attenzione costante da parte del lettore che assiste ad una narrazione frammentaria, affidata alle voci di quarantanove personaggi (gli “Angeli minori” a cui allude il titolo) impegnati a raccontare brandelli delle loro vite che cucite insieme vanno a costituire la trama del romanzo. Questi frammenti, “narrat” li chiama l’autore, sono istantanee, fotografie di un momento, tasselli che Volodine getta sul pavimento lasciando al lettore il compito e il piacere di ricomporre il puzzle.
Compito non semplice, visto che siamo in un territorio di confine, a cavallo tra apocalittico e distopico, una zona dove reale e immaginario si mescolano e i punti di riferimento diventano pochissimi. Qui il tempo e lo spazio che siamo abituati a conoscere non hanno cittadinanza, le coordinate temporali sono confuse (sembra di essere in un eterno presente o meglio in un continuum atemporale) e le distanze si misurano in ettametri o in migliaia di chilometri che i personaggi sembrano percorrere in pochi attimi.
Quello di “Angeli minori” è un mondo ai confini del mondo, un’umanità post-umana, fatta di vecchie immortali impegnate a soffiare la vita su un fantoccio di stracci per far rinascere quegli ideali egualitari che sembrano scomparsi. Le vecchie riusciranno nell’impresa di creare dal nulla un essere in grado di incarnare queste idee, una creatura che non è più umana ma non si sa bene che cosa sia, che però finirà per tradire il suo mandato riportando in vita il capitalismo e le sue degenerazioni.
Detto questo, è bene aggiungere che questo libro è molto più di una trama più o meno lineare, i “narrat” attraverso i quali si snoda pescano nel fondo della coscienza dei personaggi e quello che viene alla superficie è un misto di memoria, sogni, fantasie, illusioni, ambizioni, incubi, associazioni di idee e pensieri frammentari. Il risultato è un materiale difficile da maneggiare e impossibile da scomporre, un magma indistinto che probabilmente è anche l’unico modo di dar voce all’inconscio di ognuno, perché cercando di tradurlo con l’alfabeto della ragione finiremmo per tradirlo. I “narrat” sono dunque quello che rimane dell’inconscio quando viene portato alla luce, quel misto di vero e falso che ci portiamo dietro, che ci confonde ma che ci aiuta a vivere.
Di nuovo torniamo a Broch, al romanzo come unico strumento in grado di cogliere l’esistenza umana in tutta la sua estensione, in tutta la sua totalità.