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sabato 4 aprile 2020

Quando ormai nulla più importa – Juan Carlos Onetti



Quando ormai nulla più importa è l'ultimo romanzo di Onetti e quello che chiude la saga di Santa María (che qui diventa, curiosamente, Santamaría). Un mondo che collassa su se stesso, un'implosione destinata a lasciare sul campo solo polvere e ricordi.
Protagonista è Carr, un uomo, forse scrittore, che vive o meglio sopravvive a Monte (Montevideo?) Ridotto alla fame e abbandonato dalla moglie decide di rispondere all'annuncio di una misteriosa agenzia che si occupa di traffici poco puliti e con un falso titolo di ingegnere si ritrova a Santamaría per sovraintendere al completamento dei lavori di una diga. Impiego di copertura perché il suo vero ruolo sarà poi quello di vigilare sul fiorente mercato di contrabbando della città.
L'incontro con il dottor Díaz Gray, personaggio chiave della mitologia onettiana, è il momento in cui il lettore capisce esattamente dove si trova: siamo nel sogno di Brausen, il personaggio inventato da Onetti e che a sua volta ha inventato  Santa María ("Signor Brausen/" – è l'inno intonato dalla folla salmodiante di una processione – "per amor tuo/ dacci la pioggia/ e liberaci dal sole."), siamo in un gorgo che trascina sempre più a fondo le figure che lo abitano. Doña Eufrasia ed Elvirita, il turco Abu e il poliziotto Autoridá, le puttane del Chamamé e Angélica Inés, moglie ninfomane e drogata del dottor Díaz Gray… siamo a Santamaría, in un "deserto monotono interrotto a volte da presenze che non arrivano a essere tali, prive com'erano di qualunque significato".
Già, il significato. Più entriamo nelle pagine del romanzo e più il significato delle azioni degli uomini, il senso delle loro vite, inizia a sgretolarsi. Anche l'andamento del diario che Carr sta tenendo lo testimonia: le date si fanno sempre più lontane fino a che si perde la sequenza cronologica, come a dire che anche il tempo oltre a tutto il resto ha perso importanza.
È uno sfaldamento che travolge tutto e tutti, cancellandone a poco a poco anche l'identità: "E all'improvviso cominciò." – scrive Carr un 11 luglio – "Come sempre, atroce e indimenticabile. Al principio, pensavo il mio nome completo e lo ripetevo senza parlare, migliaia di volte, finché cessava di essere il mio nome, non significava più nulla. Ma siccome io continuavo a essere io, dovevo fatalmente domandarmi chi fossi". E ancora, un 22 febbraio: "Cominciai a chiedermi chi sono, e perché io e non un'altra persona; me ne stetti a ripetere mentalmente un numero spropositato di volte il mio vero nome, fino a che questo non perse ogni senso e non venne rimpiazzato da un grande spazio bianco nel quale mi rifugiai senza violenza, ed era l'essere e il non essere."
Polvere e ricordi, si diceva all'inizio, questo alla fine del libro è ciò che resta della saga di Santa María. I personaggi che vissero un tempo sono ora fantasmi spazzati dal vento che vagano tra le macerie sotto forma di ricordi ai quali è inutile cercare di dare un senso.

Con questo libro ho terminato la lettura delle opere di Onetti e quello che resta da fare dopo aver letto tutto Onetti è solo ricominciare da capo.

sabato 9 marzo 2019

Juan Carlos Onetti – Lasciamo che parli il vento



"Mentire è come andare a letto con qualcuno, all'inizio ti vergogni ma poi ci prendi gusto."

Lasciamo che parli il vento racconta le vicende di Medina, che avevamo lasciato commissario a Santa Maria e che ora ritroviamo in esilio volontario a Lavanda, un po' infermiere, un po' pittore, un po' disegnatore per un'agenzia pubblicitaria e alle prese con una serie di rapporti contraddittori: quello di dipendenza con Frieda, quello con Olga e con il figlio di lei (e forse anche suo) Seoane e quello con la giovane Juanina. Tutto è vago e diverso da quello che sembra, una storia che procede tra dubbi e menzogne alle quali piano piano Medina si abitua, trascinandosi con poca convinzione tra le strade e i bassifondi di Lavanda cercando di capire a quale dei cinque sensi affidarsi (forse al sesto) per ritrovare la strada perduta di Santa Maria.
Un ritorno che sarà possibile solo nel sogno, ma un ritorno doloroso. Medina, di nuovo commissario, si troverà nel sottosuolo della città immaginata da Brausen, tra i derelitti che abitano quelle fogne e che lo trascineranno dentro le menzogne delle loro vite e dentro il loro destino.
Lasciamo che parli il vento è un libro non lineare, fatto di episodi che sono altrettanti frammenti della vita del protagonista. La trama è una stradina buia che percorriamo con passo incerto, sempre in dubbio che sia quella giusta e che si illumina di una luce fioca solo nel tratto che stiamo percorrendo. Lo stile è quello classico di Onetti: ricco, carico di metafore, sentenze, attenzione ai particolari, attento a suggerire ma sempre in maniera sibillina, avendo cura di non dare certezze al lettore. Attento, soprattutto, a spegnere con cinismo desolante ogni speranza grazie all'uso di menzogne, strumenti per andare avanti, sopravvivere, anche se non utili per dare un senso alle cose e creare una prospettiva di vita ("Ma in quella vigilia di anno nuovo avevamo voluto star da soli – o ci eravamo avvolti nelle menzogne fino a obbligarci reciprocamente – cercando di sentirci felici. Lei aveva  giurato di mollare tutto, allieve di danza, clienti della sartoria, proposte inattese, per stare sola con me prima di mezzanotte. Io non avevo molte cose cui rinunciare in cambio. Non era la felicità, ma era il minimo sforzo").
I personaggi di questo libro sono figure inafferrabili, perennemente in bilico tra realtà e finzione, con la seconda parte del romanzo che è frutto della fantasia di Medina, a sua volta creazione di quella di Brausen, personaggio creato da Onetti: una spirale perversa che finisce per precipitare il lettore in un mondo di incertezze che è esattamente quello che si propone l'autore, lo scopo del quale è realizzare una storia scritta sull'acqua, basata sulla menzogna perché tutti sono diversi e nessuno capisce nessuno ("Ci sono due cose stupende, se un arriva ad abituarsi, se ce la fa a continuare a vivere. Una è che ormai non mi importa di nulla, come ti dicevo.
- Già. O quasi di nulla.
- E poi che uno arrivi ad accettare che capire è impossibile. Che si sappia arrangiare con quello che può capire senza aver fede in questa comprensione.").

domenica 13 agosto 2017

Triste come lei – Juan Carlos Onetti




“Per me, ormai lo sapete, i fati nudi e crudi non significano niente. L’importante è quello che contengono o quello che comportano; e poi constatare cosa c’è dietro una cosa e dietro ancora fino al fondo definitivo che non raggiungeremo mai.”


Partiamo da qui. Da una dichiarazione d’intenti che racchiude l’intera poetica onettiana, ma che a pensarci bene potrebbe adattarsi anche a uno scrittore stilisticamente lontanissimo dal maestro latinoamericano come R. Carver, a testimonianza che spesso i grandi artisti partono da idee condivise che poi sanno sviluppare in maniera originale.

Partiamo da qui e diciamolo subito: “Triste come lei” è un capolavoro, una serie di racconti che vanno dal 1933 al 1974 e che costituiscono la summa del pensiero di J.C. Onetti.

Qui dentro ci sono più o meno tutti i temi che lo scrittore uruguaiano ha approfondito nei romanzi: c’è la necessità di appoggiarsi al sogno e di credere nelle menzogne per riuscire a sopravvivere nel mondo reale,  e c’è la consapevolezza dell'ineluttabilità del destino, con la conseguente compassione per gli uomini che si illudono di essere gli artefici delle loro fortune mentre in realtà sono solo i figuranti di una commedia scritta da altri. C’è il ricordo, che il tempo trasforma in qualcosa di diverso, modificando quello che è stato in quello che avrebbe potuto essere, e ci sono  il rimpianto e la sconfitta, la solitudine e quel bisogno di espiare al quale non riusciamo mai a sottrarci, condannati a una pena chiamata vita.


E poi c’è la scrittura di Onetti: la capacità di dare profondità ai personaggi attraverso la descrizione di aspetti contradditori del loro carattere e la bellezza di frasi a volte pesanti come sentenze e altre leggere come pennellate, frasi apparentemente semplici ma che contengono all’interno una polverina magica in grado di suscitare immagini e accendere la fantasie del lettore.

Sembra di vederlo, il protagonista del “Il volto della disgrazia”, quando racconta che  “la luce spingeva l’ombra della mia testa fino al bordo del sentiero di sabbia fra gli arbusti”. E anche la ragazza dello stesso racconto che arrivando in bicicletta “muoveva con facile lentezza le gambe, con tranquilla arroganza le gambe riparate da calze grigie” (facile/lentezza e tranquilla/arroganza…). E ancora: il protagonista che dopo aver visto la ragazza calcola “che ci separavano venti metri e meno di trent’anni” e poi rimane a guardare la morte del sole era gli alberi e che scivola “in un lento sonno, in un mondo oliato e senz’aria, dov’ero stato condannato ad avanzare, con enorme sforzo e senza voglia, a bocca aperta, verso l’uscita dove dormiva l’intensa luce indifferente del mattino, irraggiungibile”.


Inutile proseguire, per quanto mi riguarda con “Triste come lei” si chiude la mia caccia al più grande narratore di sempre. 
Juan Carlos Onetti è il più grande di tutti.

domenica 23 aprile 2017

Juan Carlos Onetti – Per una tomba senza nome





Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa María…


…Ma questo non lo sapevamo.
C’è molto Onetti in questo racconto. Sembra quasi di vederlo, il grande maestro, mentre prende una storia come tante, quella della morte di Rita e del suo caprone, e si dirige verso la finestra, sollevandola verso l’alto chiudendo prima un occhio e poi l’altro per osservarla in controluce. Lo seguiamo discreti mentre si avvicina con passo pesante al tavolo da lavoro, spegne con cura la sigaretta nel portacenere, poi si siede e inserisce con gesti precisi la storia all’interno del suo caleidoscopio. Lo osserviamo in silenzio, mentre si toglie gli occhiali, sfrega due dita sugli occhi e poi si piega sullo strumento, iniziando a maneggiarlo con cura. Non ha fretta di terminare il lavoro, ogni tanto distoglie lo sguardo e poi si china di nuovo, aggiustando più volte l’apparecchio fino a quando non è soddisfatto. Solo allora alza la testa e fa un cenno verso di noi, porgendoci il caleidoscopio e invitandoci finalmente a guardare. Ed ecco la meraviglia: la storia di Rita e del suo caprone non esiste più, si è dissolta, scomposta. Al suo posto ci sono le storie: quella di di Jorge Malabia, quella del suo amico Tito Perotti, quella del dottor Diaz Grey (chi si rivede!). Al posto della storia di Rita e del suo caprone c’è ora la storia di Onetti.
Per una tomba senza nome ci parla del bisogno dell’uomo di costruire storie e insieme dell’impossibilità di approdare con esse a qualcosa di sicuro e definito. Onetti si premura di togliere al lettore qualsiasi appiglio, facendo piazza pulita di ogni certezza, a cominciare dallo scenario che sceglie per fare da sfondo agli avvenimenti, un’estate bugiarda che incarna “le illusorie promesse di tante estati precedenti”, per proseguire con gli stessi personaggi, uomini che percorrono la strada della vita trascinandosi dietro il loro bagaglio di contraddizioni. Contraddittorio è il ragazzo, Jorge, spaccone e vigliacco al tempo stesso, che fugge quell’onda che racconta di voler cavalcare. Contraddittorio è il dottore, cinico e solitario, una monade che osserva il mondo come se lui ne fosse da tempo al di fuori.
Nessuno può capire”, dice ad un certo punto il giovane. Ma nessuno può smettere di provare a capire, a cercare di costruire la sua storia.
E allora avanti, con quell’insieme di fatti, reticenze, interpretazioni e menzogne di cui ogni storia che si rispetti è impastata. Brandelli, perché come dice Jorge “i brandelli che mi si presentavano via via erano ben separati da ogni brandello precedente, soprattutto dal tempo e dalle cose che avevo fatto negli intervalli tra uno e l’altro. Non ho mai veramente veduto lo storia nella sua completezza. […] Tutti i brandelli sella storia che riuscii a ricordare mi servivano soltanto ad attizzare la mia pietà, a restare in quelle ore dell’alba nel punto esatto della sofferenza che mi faceva felice; un poco al di qua delle lacrime, che mi sentivo nascere dentro e non uscire. […] E neppure quando parlavo con Tito della storia sono riuscito a sentirla come una cosa completa, con il suo ordine illusorio, ma implacabile, come qualcosa con un principio e una fine, come qualcosa di vero, insomma.”
Quel che resta, alla fine, quando dopo aver guardato nel caleidoscopio lo restituiamo nelle mani di Onetti, è nulla, come ci dice lo stesso dottor Diaz Grey, “una confusione senza speranza, un racconto senza un finale possibile, dai significati incerti, smentito dagli stessi elementi di cui disponevo per comporlo”.

domenica 9 ottobre 2016

Juan Carlos Onetti - Il cantiere




Triste, solitario y final

Romanzo imprescindibile nella bibliografia onettiana, nel quale ritroviamo Larsen - il Raccattacadaveri protagonista della saga di Santa María - al passo d’addio.
L’autore ce lo presenta nel momento in cui fa la sua comparsa nella cittadina. Ed è una presentazione da par suo:
Larsen scese dalla fermata delle corriere che arrivano da Colón, posò un momento la valigia a terra per tirarsi verso le nocche i polsini di seta della camicia e si avviò verso Santa María proprio quando aveva da poco smesso di piovere, lento e dondolante, forse più grasso, più basso, anonimo e in apparenza domo.”
In apparenza domo. Tre parole, poste alla fine della prima pagina, pesanti come macigni, tre parole con le quali Onetti traccia la strada, i binari sui quali correrà il romanzo. Si tratta di binari privi di suspense perché le cose, come spesso succede nei romanzi dello scrittore uruguayano, sono già scritte fin dall’inizio. Se e è vero infatti che sono il caso e il destino a riportare Larsen a Santa María, “per concedergli l’ingenua rivincita di imporre nuovamente la sua presenza alle strade e ai locali pubblici dell’odiata città”, è anche vero che la rivincita che Raccattacadaveri vorrebbe prendersi è, appunto, “ingenua”, destinata cioè a fallire in partenza.
Larsen è destinato alla sconfitta. Il massimo a cui può aspirare è “continuare a perdersi senza doverlo accettare, senza che la sua rovina diventasse lampante, pubblica, spassosa”, ha intuito di essere cascato dentro una trappola, eppure decide di giocare una partita che non può vincere piuttosto che provare a tirarsene fuori e lo fa “perché questa era la sua ultima possibilità di illudersi”.
Larsen è l’uomo che si trova nel fondo del dirupo e decide di rimanervi, perché quella è la sua vita, e al di fuori “non c’è altro che l’inverno, la vecchiaia, il non sapere dove andare, persino la possibilità della morte”. Ma Larsen è anche l’uomo che cerca di tirarsi fuori dal baratro nel quale è sprofondato e e l’appiglio che trova è quanto di più pericoloso poteva aspettarsi, vale a dire le braccia di Jeremías Petrus, un vecchio faccendiere ed impostore che sta precipitando nel vuoto come lui, ma che a differenza di Larsen non se ne cura. Sul fondo del pozzo a fare compagnia a Raccattacadaveri c’è la lunga teoria dei vinti, degli sconfitti dalla vita: c’è chi, come Galvéz, cercherà di ribellarsi al suo destino finendone schiacciato, chi, come Angelica Inés, vive nella prigione dorata della sua pazzia, e poi gli altri, un’umanità dolente che si trascina per le strade di Santa María indifferente a tutto quello che succede, un po’ per abitudine, un po’ perché non sa, non può o non vuole fare altrimenti.
Larsen si sente diverso dagli altri e cerca di lottare per sfuggire alle sabbie mobili, senza rendersi conto che più si muove e più rapidamente il fango lo risucchia al suo interno.
Larsen gioca a carte con la Vita, ad ogni giro crede di avere in mano le carte per conquistare la posta e poi finisce per perdere la scommessa. Eppure non si rassegna e rilancia, consapevole che quella che sta giocando è l’ultima partita, la sua ultima possibilità di avere se non un futuro almeno un presente, e si ingegna a trovare una via d’uscita dall’angolo nel quale la Vita lo ha schiacciato. Rilancia al buio, bluffa, prova a confondere il suo avversario, tira fuori tutto l’armamentario che ha accumulato in anni e anni di partite a carte pur di rimanere a galla.
Tutto inutile, dall’altra parte del tavolo siede la Vita, un avversario che nessuno ha mai sconfitto perché sa sempre che carte abbiamo in mano.