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mercoledì 15 giugno 2016

Sprazzi di luce (armonia e bellezza al più alto grado)

"Pensò tra l'altro che nel suo stato epilettico c'era una fase, proprio prima dell'attacco (sempre che l'attacco venisse mentre era sveglio), quando improvvisamente, in mezzo alla tristezza, alle tenebre dell'anima, all'oppressione, il suo cervello pareva accendersi, e tutte le sue forze vitali si tendevano di colpo con uno slancio inusitato. Il senso della vita e la coscienza di sé si decuplicavano quasi in quegli istanti che duravano il tempo di un lampo. La mente, il cuore gli si illuminavano di una luce straordinaria. Tutte le sue emozioni, i suoi dubbi, sembravano placarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di gioia serena, di armonia e di speranza, piena di intelligenza e di causa ultima. Ma quei momenti, quegli sprazzi di luce, erano soltanto il preludio di quel secondo definitivo (mai più di un secondo) con cui aveva inizio l'attacco vero e proprio. Quel secondo era certamente insopportabile. Riflettendo in seguito su quell'istante, quando ormai si trovava in condizioni normali, spesso diceva a se stesso che tutti quei lampi e quei bagliori di altissima sensazione e coscienza di sé, e quindi anche di "vita superiore" non erano altro che malattia, alterazione dello stato normale, e se era così, quella non era affatto un'esistenza superiore, ma, al contrario, doveva essere annoverata fra le più basse. E tuttavia arrivò infine ad una conclusione straordinaria e paradossale: "Che importa se è una malattia?" concluse infine, "che importanza ha che sia una tensione anormale, se il risultato, se quel minuto di sensazioni rievocato e analizzato poi in condizioni normali si rivela armonia e bellezza al più alto grado, e dà un senso fino allora insospettato e inaudito di pienezza, di misura, di acquietamento e di trepida fusione di preghiera con la suprema sintesi della vita?"


[Fëdor Michajlovič Dostoevskij: "L'idiota"]

mercoledì 27 aprile 2016

Non si può capire tutto subito.



...siamo ridicoli, superficiali, 
non cattive abitudini, ci annoiamo, non sappiamo osservare, non sappiamo comprendere, siamo tutti della stessa pasta, tutti, sia voi sia io, sia loro! Ecco non vi offendete se vi dico in faccia che siete ridicoli? E se è così, non è vero che siete materia viva? Sapete, secondo me, essere ridicoli a volte è bene, persino meglio: è più facile perdonarsi l'un l'altro, è più facile riconciliarsi. Non si può capire tutto subito, non si può cominciare dalla perfezione! Ci sono tante cose da non capire prima di raggiungere la perfezione! Quando si capisce troppo in fretta, non si capisce bene.

[Fëdor Dostoevskij -  "L'Idiota"]




sabato 23 aprile 2016

Fëdor Dostoevskij – L’idiota



Tra Leonardo e Brunelleschi 
 

C’è uno scienziato chino sul microscopio del suo laboratorio, intento ad osservare un preparato. Ogni tanto regola la messa a fuoco dello strumento, cambia l’obiettivo, sposta di pochi millimetri il vetrino. Sbuffa, si stropiccia gli occhi e poi li alza verso il cielo. Non è soddisfatto, c’è qualcosa che manca.
Allora si alza. Va a cercare qualcosa tra gli scaffali, apre e chiude sportelli, rovista nei vari scomparti, poi estrae una boccetta di liquido colorato. Torna al microscopio, inforca gli occhiali, poi con una pipetta preleva con attenzione del liquido dal contenitore e ne lascia cadere una sola goccia sul preparato, quindi riprende ad osservare.
Ora finalmente va bene, e lo scienziato un po’ guarda attraverso le lenti del microscopio e un po’ trascrive su un taccuino quello che i suoi occhi vedono.
Lo scienziato si chiama Fëdor Dostoevskij, il preparato che sta osservando è l’umanità e la goccia caduta sul vetrino il principe Myškin.

Una goccia importante, una sostanza in grado di cambiare le carte in tavola, di attirarle a sé con una forza magnetica. Una goccia che si chiama bellezza.
“L’idea principale del romanzo è quella di rappresentare una natura umana pienamente bella. Non c’è niente di più difficile al mondo, e specialmente oggi. Tutti gli scrittori, non soltanto russi, ma anche tutti gli europei, che si sono accinti alla rappresentazione di un carattere bello e allo stesso tempo positivo, hanno sempre dovuto rinunciare. Giacché si tratta di un compito smisurato. Il bello è un ideale, e l’ideale – sia il nostro sia quello dell’Europa civilizzata – è ben lontano dall’essere stato elaborato.
Al mondo c’è stato soltanto un personaggio bello e positivo, Cristo, tantoché l’apparizione di questo personaggio smisuratamente, incommensurabilmente bello costituisce naturalmente un miracolo senza fine. (Tutto il Vangelo di Giovanni è concepito in questo senso: egli trova tutto il miracolo nella sola incarnazione, nella sola apparizione del bello.) Ma mi sono spinto troppo lontano. Dirò soltanto che tra tutti i personaggi umanamente belli della letteratura cristiana il più completo e perfetto è Don Chisciotte. Ma Don Chisciotte è bello unicamente perché è allo stesso tempo ridicolo.”
Così scrive l’autore in una lettera alla nipote Sofja Aleksandrovna Ivanova, datata gennaio 1868.
L’Idiota è quindi un grande romanzo sulla Bellezza: quella bellezza che attrae e respinge, troppo grande, troppo potente, troppo ingombrante per poter essere compresa davvero, Bellezza simile a un veliero sul quale ci si può imbarcare ma che non possiamo pensare di governare.
E il principe Myškin incarna questa bellezza. Un essere diverso da tutti gli altri, che vive in un mondo suo, dove le classi sociali, le convenzioni, il denaro non hanno nessuna importanza. Un uomo buono, sensibile, onesto, incapace di mentire, che agisce senza fare calcoli, che vede la bontà e la buona fede in tutti, che è attirato dalla sofferenza e che ama il suo peggior nemico. Un uomo che considera la compassione “la più importante e forse l'unica legge di vita di tutta l'umanità” al punto da portarla fino alle estreme conseguenze e che ha il dono di leggere nell’animo di quella gente che vorrebbe aiutare a vivere meglio (“scusate, principe, - dice ad un certo punto uno dei personaggi del romanzo - ma voi siete di una semplicità, di un'innocenza che neanche nell'età dell'oro, e nello stesso tempo, tutt'a un tratto, con una profondissima penetrazione psicologica, trapassate la gente da parte a parte, come una freccia”). Un uomo che in un mondo come il nostro è inesorabilmente destinato a soccombere.
Questo per quanto riguarda il contenuto. Da un punto di vista formale possiamo osservare come nell’Idiota si realizzi alla perfezione quella polifonia di cui parla Bachitn a proposito del romanzo dostoevskijano: Parfen Rogožin, Ganja Ardalionovic, Kolja, Ippolit e soprattutto Aglaja Epančina e Nastas’ja Filippovna… la personalità di ogni personaggio emerge attraverso dialoghi e interazioni che permettono di caratterizzarli in maniera compiuta.
Due paragoni mi ha fatto venire in mente la lettura dell’Idiota: quello tra la polifonia nella storia del romanzo e l’invenzione della prospettiva nella storia dell’arte, e quello tra lo “sfumato” leonardesco e l’attenzione che Dostoevskij dedica ai dettagli, alle contraddizioni, ai “doppi pensieri”, alla passione, al contrasto verità/bellezza, alle nuances dell’amore, alle mille pieghe dell’animo umano.

sabato 17 ottobre 2015

Fëdor Dostoevskij – Il giocatore



Il Dosto va in trasferta...

Romanzo breve nel quale Dostoevskij abbandona la consueta ambientazione pietroburghese per concedere alla sua "scatola dei soldatini" una gita oltre confine, in Germania, per la precisione a Roulettenbourg (nomen omen). Diciamo gita perché sembrerebbe che il fatto di trovarsi fuori dalla Russia, liberi la variegata corte dei miracoli che abita le pagine del libro da qualsiasi vincolo di comportamento retto e fornisca ai personaggi una specie di lasciapassare per mettere in scena uno stravagante teatrino giocato intorno a un misto di amoralità e vacuità che finisce con il travolgere tutto e soprattutto tutti quelli che incontra sulla sua strada.

Come al solito Dostoevskij dimostra di saper cogliere perfettamente alcuni aspetti peculiari dell'anima russa (ben prima che Erofeev tentasse un'operazione simile), a cui qui aggiunge qualche osservazione interessante anche su francesi e inglesi. Ma è Aleksej Ivànovic la figura centrale del racconto, quella sulla quale si accentra l'attenzione dello scrittore, un personaggio più sfuggente di quel che sembri, una personalità non lineare, nelle pieghe della quale l'autore si diverte a scavare. Alesa non sembrerebbe uno sciocco, non è superficiale come la maggior parte degli altri personaggi e apparentemente vede le cose in una giusta prospettiva, eppure vive succube di Polina che ama di un amore malato, incapace di liberarsi dal giogo di un sentimento non ricambiato ma anzi maltrattato e deriso.

Si può essere le persone più razionali del mondo, ma quando la passione bussa alla nostra porta i rischi di far crollare il castello di carte sono reali, come dimostra la vecchia madre del generale che brucia alla roulette quello che ha accumulato in tutta la vita, come dimostra lo stesso Alesa, consapevole di star buttando via la propria esistenza eppure incapace di cambiare la propria situazione nonostante gli se ne presenti l'occasione più di una volta, anzi ben deciso a percorrere fino in fondo una strada che sa perfettamente che lo porterà all'autodistruzione.

A me sembra che questa sia la vera cifra del romanzo: la descrizione di una consapevole discesa agli inferi lungo la strada dell'ignavia, percorso che Dostoevskij segue passo passo addentrandosi nei meandri della mente umana con la curiosità dello scienziato interessato a studiarne dinamiche e comportamenti.

sabato 13 giugno 2015

Fëdor Dostoevskij – Umiliati e offesi


Il primo degli ultimi o l'ultimo dei primi?

Se Umiliati e offesi sia la più grande delle opere minori di Dostoevskij o il meno rappresentativo tra i suoi capolavori, è questione di lana caprina. Per sottolinearne tutta l'importanza sarà sufficiente dire che siamo probabilmente al cospetto del primo romanzo polifonico, nel quale diversi personaggi si contendono il ruolo di protagonista ed uno,Vanja, si assume il compito di fare da voce narrante, legando tra loro le varie storie. 
Come di consueto lo scrittore pietroburghese mette sotto la lente del microscopio uomini e donne della società russa per analizzarne caratteri e comportamenti: Nataša, Aleša, Katja, il principe Valokovskij e, su tutti, la splendida Nelly, così simile alla piccola Anna protagonista di Netocka Nezvanova. L'indagine è precisa ed accurata, spingendosi sin nelle profondità dell'anima per raccontare con le armi della letteratura ciò a cui più avanti la psicologia proverà a dare dignità scientifica; uno studio attento, soprattutto una sorprendente capacità nel cogliere le sfumature delle diverse personalità, i passaggi di colore, quegli aspetti a quali sulle prime non facciamo mai caso ma che quando Dostoevskij ce li fa notare ecco che li vediamo anche noi e diciamo che sì, è vero, è proprio così.
Al centro dell'opera è la povera gente, la gente onesta umiliata e offesa da un Destino contro il quale non cessa di battersi, pur sapendo in partenza di essere condannata alla sconfitta. Ricchezza e povertà, bontà d'animo e malvagità assoluta, amore e orgoglio, passioni che bruciano con fiamme altissime portando i personaggi sino al delirio... c'è di tutto qui dentro. Se poi si cerca il pelo nell'uovo e si vuole trovare un difetto a quest'opera è possibile individuarlo nella storia che l'autore ha scelto di raccontare, il classico intreccio intorno al tema del "mal d'amore" del feuilleton ottocentesco che magari alla prova del tempo mostra un po' la corda. Difetto poi per modo di dire, che il grande russo parlava a lettori suoi contemporanei e non a noi, descrivendo un universo per noi lontanissimo.

domenica 15 febbraio 2015

zoppicando


Siamo tutti disabituati alla vita, tutti zoppichiamo, chi più chi meno. 

[ Fedor Dostoevskij: "Memorie dal sottosuolo"]

sabato 17 gennaio 2015

Fëdor Dostoevskij - Memorie dal sottosuolo


È sempre interessante leggere (o rileggere) Dostoevskij e nella fattispecie le opere che hanno preceduto i grandi romanzi. Osservare le variazioni nello stile e come vengono delineati i personaggi, la costruzione del discorso diretto e i monologhi introspettivi. Seguirne le tracce, scoprire le idee abbozzate da qualche parte e poi abbandonate strada facendo e i percorsi che invece sono stati sviluppati nel tempo.
Memorie dal sottosuolo aggiunge un ulteriore tassello alla ricerca del grande russo, pur non rappresentando – a mio avviso – un punto di svolta nella sua produzione letteraria (come invece si afferma da più parti), ma piuttosto una continuità con temi che appaiono qua e là in Povera gente e soprattutto nel Sosia e che qui vengono ulteriormente sviluppati. La differenza casomai, come osserva Bachtin, è che in questo romanzo il protagonista è sostenuto da un'ideologia, un pensiero che nella prima parte dell'opera viene espresso in un'inconsueta forma di monologo quasi filosofico e poi sostenuto della seconda parte in forma di racconto.
Sono cattivo, so di esserlo e non voglio cambiare. Questo è l'assunto dal quale parte il narratore, per poi constatare di essere, in realtà, né buono né cattivo, di non essere nulla: il prototipo dell'uomo del XIX secolo, condannato dalla sua "troppa coscienza" ad essere senza carattere, destinato dall'eccessiva consapevolezza ad imboccare un vicolo cieco che conduce inevitabilmente all'inerzia.
Troppi dubbi, troppo ragionare, troppa introspezione... in una parola: il sottosuolo.
Ad ogni angolo sembra di sentire echi di Pessoa, Musil, Bernhard e chissà di quanti altri, ma forse meglio sarebbe dire che nell'opera di Pessoa, Musil, Bernhard e chissà quanti altri ad ogni passo risuona qualche eco di Dostoevskij.
Autocoscienza, capacità di analisi, consapevolezza di sé... vissute come una colpa, un fardello con il quale convivere, ma anche un dolore che può trasformarsi in una specie di piacere amaro.
Nella seconda parte dell'opera, come detto, queste tesi vengono espresse in forma di racconto, nel quale Dostoevskij utilizza il dialogo in maniera simile a come aveva già fatto nel Sosia. Ritroviamo le stesse atmosfere febbrili, il ritmo incalzante, l'assenza di equilibrio e di logica nelle parole e nelle azioni del protagonista. Tutto è fuori e tutto è dentro: tutto è apparentemente dialogo, confronto e scontro con l'altro ma in realtà tutto è monologo, contorcimento, avvitamento del personaggio su se stesso in un vortice destinato a portarlo sempre più a fondo.
L'uomo del sottosuolo è un uomo solo, che vorrebbe avere rapporti con gli altri ma non ci riesce. Non sa come comportarsi e il suo approccio finisce per essere rozzo: nel confronto con l'altro cerca di dominare, di schiacciare il suo interlocutore, atteggiandosi a superiore mentre in realtà è vittima di un complesso di inferiorità, è lui a sentirsi non all'altezza degli altri. Non essendo in grado di vivere una vita vera è costretto a viverne un'altra, a rifugiarsi nel sottosuolo, un mondo solo suo, dove è lui a dettare le regole del gioco e dove anche il dolore che prova sembra un dolore "indotto", che si infligge da solo quasi a dimostrare a se stesso di essere in grado di avere sentimenti, di provare emozioni.
Memorie dal sottosuolo è un'opera potente, che seppur ancora incentrata su un'unica voce e per questo ancora distante dalla polifonia dei romanzi successivi, continua l'indagine di Dostoevskij sugli abissi dell'animo umano preparando la strada alle opere più mature.


domenica 9 novembre 2014

Fëdor Dostoevskij – Memorie da una casa morta


Nel 1849, all'età di 28 anni, Dostoevskij veniva arrestato e condannato a morte per la partecipazione a circoli rivoluzionari, condanna poi convertita in lavori forzati in Siberia fino al 1854.
All'epoca aveva già pubblicato alcuni romanzi (Povera gente e Il sosia) e qualche racconto, opere nelle quali è già in nuce quello studio della personalità e dell'animo dei personaggi che risulterà centrale nelle grandi opere della maturità.
Memorie da una casa morta testimonia come la vita carceraria e l'esperienza di deportato in Siberia abbiano esercitato una forte influenza sul grande scrittore russo, indirizzando la sua ricerca anche su altri importanti aspetti come quello sociale e soprattutto lo studio del delitto (delle cause che portano l'uomo a maturare questa scelta) e della pena (degli scopi del sistema carcerario e delle sue influenze sui detenuti), qui affrontati in maniera ancora frammentaria e slegata, rimanendo a livello di riflessioni o poco più, ma che in seguito verranno rielaborati in maniera organica a costituire la spina dorsale dei suoi grandi romanzi.
Memorie da una casa morta è una specie di reportage della vita carceraria dello scrittore, un resoconto delle sue avventure da detenuto con le descrizioni dei compagni di prigionia alternate alle considerazioni dello scrittore.
Diversi sono gli spunti di riflessione: l'assenza di pentimento nei prigionieri, in realtà convinti delle ragioni dei loro gesti, la difficoltà di definire il delitto in maniera chiara, il sistema carcerario inteso come esclusivamente punitivo, la disparità delle pene per delitti simili, l'avidità per il denaro che poi viene bruciato in un attimo in cambio di qualche sogno, l'analisi di quello che succede nell'animo umano dopo che si è varcato il limite della legalità, il diritto al rispetto della dignità della persona, la resistenza dei puniti al dolore e il loro stato d'animo nell'affrontarlo, l'influenza dell'ambiente sull'uomo, le lusinghe del potere e la sensazione di ubriacatura che da a chi lo esercita, la necessità di un scopo.
A ciò si alternano, come detto, i personaggi che passano sotto la lente di ingrandimento di Dostoevskij che ne tratteggia i caratteri: uomini dominati dal temperamento ed altri in grado di tenere perfettamente a bada gli istinti, figure passive e prive di personalità, persone bruciate dall'ansia e altre cariche di amor proprio.

In sintesi Memorie di una casa morta mi è sembrata un'opera di passaggio, con la quale Dostoevskij mette su carta le riflessioni scaturite da un'esperienza di vita così importante come quella della prigionia, riflessioni che necessiteranno di sedimentazione per essere poi rielaborate al momento opportuno.

domenica 6 aprile 2014

Fëdor Michajlovič Dostoevskij - Netocka Nezvanova


Dostoevskij alla prova del grande romanzo e purtroppo Netocka Nezvanova rimase solo una prova perché l'autore venne arrestato e deportato in Siberia. Dopo la sua liberazione rimise mano al manoscritto, vi apportò alcune modifiche ma decise di non concluderlo. 
Il materiale sul quale Dostoeveskij lavora sembra risentire del “manierismo” dell'epoca ma nello stesso tempo riprende quell'attenzione alla psicologia dei personaggi già vista nel Sosia, rispetto al quale – però – si apprezza meno il conflitto interiore dei protagonisti, probabilmente perché non esplode ma rimane solo accennato. La struttura dell'opera è ancora piuttosto lontana dal grande romanzo “polifonico”, che caratterizzerà la produzione successiva dello scrittore russo, qui siamo ancora all'abbozzo e l'autore sceglie di procedere per capitoli che costituiscono racconti con una propria autonomia, affidando ad Anna (Netocka), una bambina di umili origini, raccontata attraverso episodi della sua vita tormentata, il compito di fare da trait d'union fra le parti. 
 Come al solito la grandezza di Dostoevskij sta nel proporci personaggi dall'animo combattuto: in questo caso Netocka è una bambina dotata di grande sensibilità, che vive una vita interiore ricchissima e conflittuale perchè “sente” a livello emotivo l'importanza e la drammaticità delle situazioni che affronta ma in quanto bambina non ha ancora la capacità per comprenderle appieno e quindi si trova a prendere decisioni in maniera sofferta, consapevole della propria inadeguatezza (“pensavo continuamente; la mia mente ancora immatura non aveva la forza di. risolvere tutta la mia angoscia, e mi sentivo nell'anima un peso e un disgusto sempre maggiori”). 
Tra le figure più interessanti del romanzo non si può non citare il patrigno della ragazza, il musicista fallito Efimov, che butta alle ortiche il proprio genio e che Netocka preferisce alla madre (“non potevo essere indifferente alla loro eterna inimicizia, e dovevo scegliere tra loro due, dovevo prendere le parti di qualcuno, e avevo preso le parti di quell'uomo mezzo matto, unicamente perché egli era così degno di pietà, così umiliato ai miei occhi, e perché fin dal principio aveva colpito la mia fantasia in modo così incomprensibile”). Si tratta di un personaggio che rimane abbastanza misterioso e che non sono riuscito a mettere completamente a fuoco, per certi aspetti una specie di Icaro che per aver voluto volare troppo vicino al sole aveva finito per precipitare (“il mistero dell'arte si era improvvisamente risolto dinanzi a lui, e il genio eternamente giovane, potente ed autentico l'aveva soffocato, con la sua autenticità. Pareva che tutto ciò che solo in misteriosi e impercettibili affanni l'aveva oppresso per la vita intera, tutto ciò che sino ad allora gli era apparso e l'aveva tormentato soltanto nei sogni, impercettibilmente, inafferrabilmente, ciò che talvolta gli si rivelava pure, ma da cui egli fuggiva con orrore, facendosi schermo con la menzogna di tutta una vita, ciò che egli presentiva ma che sino ad allora aveva temuto, che tutto questo, dunque, avesse preso a splendergli dinanzi all'improvviso, e si fosse svelato davanti agli occhi suoi, che fino ad allora si erano tenacemente rifiutati di riconoscere la luce come luce, e la tenebra come tenebra”). 
Accanto ad Efimov va ricordata anche Katja, la piccola amica figlia del principe nella casa del quale Netocka vive il passaggio dall'età di bambina all'adolescenza, con la confusione dei sentimenti propria di questa età (“io ero — mi si perdoni la parola — innamorata della mia Katja - […] in lei tutto era bellissimo; nessuno dei suoi difetti era nato con lei: le erano stati tutti inoculati, tutti lottavano in lei. In ognuno di essi si vedeva un principio bellissimo che aveva preso, per un certo tempo, una forma falsa; ma tutto in lei, a cominciare da quella lotta, risplendeva d'una speranza confortante, tutto preannunciava un bellissimo futuro”). 
L'ultimo capitolo del romanzo vede Netocka in casa di Aleksandra Michajlovna (“una donna di ventidue anni, quieta, tenera, affettuosa; era come se una tristezza recondita e un male segreto del cuore gettassero un'ombra severa sui suoi bellissimi tratti. La serietà e la severità non si addicevano ai suoi lineamenti luminosi come quelli di un angelo, così come non si addice il lutto a un bambino”), è questa una parte decisamente interessante perché qui Dostoevskij descrive bene i tratti della personalità di Aleksandra, quelli di suo marito Petr Aleksndrovic e il non-detto tra loro, il segreto dell'amante di lei che lui conosce e che usa per tenerla soggiogata, introducendo per la prima volta un tema fondamentale per la sua ricerca che qui rimane in nuce ma che sarà ripreso ed approfondito a dovere nei grandi romanzi della maturità (“il delitto rimarrà sempre delitto, il peccato rimarrà sempre peccato, un peccato vergognoso, turpe, ignobile, a qualsiasi livello di grandezza voi abbiate elevato un sentimento vizioso!”).

domenica 9 marzo 2014

Fëdor Michajlovič Dostoevskij - Il sosia


Seconda opera di Dostoevskij e prima bocciatura da parte di pubblico e critica. Ci sta. 
Un insuccesso è da mettere in conto, soprattutto se all'età di venticinque anni decidi di addentrarti nei territori dell'autocoscienza, di calarti negli abissi dell'Io senza l'ausilio di una mappa, senza sapere di preciso cosa rischi di trovare. 
Sì perché il sosia è del 1846 e Freud cominciò a pubblicare poco prima del 1900... Diciamo che Dostoevskij era leggermente in anticipo sui tempi (a volte capita ai geni): logico che potesse non essere compreso da lettori che si attendevano un romanzo che affrontasse il tema del “gemello identico” nella maniera classica, buttandola in parodia. 
Niente di più lontano dalle intenzioni dell'autore, invece. Che come scriveva in una lettera al fratello, considerava il sosia come una sorta di confessione, intesa come “scavo interiore” del protagonista. Protagonista che altro non è che un vigliacco che cerca di giustificare i suoi comportamenti, dicendo di non dipendere da nessuno mentre nei fatti pensa ed agisce in conseguenza di quelli che ritiene siano i pensieri e le azioni degli altri. 
Questa è la breccia da dove origina il dramma di Jakov Petrovič Goljadkin, la linea di frattura nella quale Dostoevskij decide di piantare chiodi e picchetti e poi calarsi nelle profondità della personalità del protagonista: Goljadkin afferma di non avere bisogno dell'altro mentre in realtà non ne può fare a meno, per questo finirà per costruirsi un “altro” se stesso col quale si confronterà. 
La presenza di questo “altro” non si materializza da subito, ma aleggia nei monologhi del protagonista (in realtà dialoghi di Goljadkin con se stesso) e solo successivamente sfocia nella nascita del sosia, del secondo Jakov Petrovič. Dostoevskij è così concentrato sul viaggio interiore del suo personaggio, da lasciare volutamente sullo sfondo le vicende del racconto. Utilizza la trama più che altro come “quinta”, utile a delimitare lo spazio scenico o poco più, perché quello a cui siamo chiamati ad assistere è uno “one man show” e tutto il resto potrebbe creare solo disturbo. 
Quando compare sulla scena il sosia, i suoi primi passi ci mostrano un personaggio piuttosto impacciato, una creatura in difficoltà, una copia insicura che sembra affidarsi ai consigli dell'”originale”. Impressione fallace, perché rapidamente la copia finirà per affrancarsi dal suo creatore, a differenza del quale dimostrerà di sapersi muovere più che bene nel contesto rappresentato dagli altri, con la logica conseguenza di finire in piena rotta di collisione con Goljadkin. Situazione che destabilizzerà definitivamente il povero protagonista.
Da demiurgo a comprimario, da primo attore a comparsa, senza neppure comprendere quello che sta succedendo. 
 Ai moti di scherno ed ai gesti di ribellione del sosia, Jakov Petrovič reagirà sulle prime con irritazione, ma poi cercherà sempre di ricomporre lo strappo, quasi intuendo che se non riuscirà a ricucire la frattura ciò sarà foriero di sventure più grandi. E questo è esattamente quello che succederà perché l'impossibilità di governare la sua creatura non farà altro che far crescere a dismisura il dispiacere di Goljadkin fino a sfociare nel dramma: una moltiplicazione incontrollata di sosia, come se la coscienza del protagonista alzasse bandiera bianca prima di esplodere frammentandosi in milioni di pezzi.