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sabato 10 novembre 2018

Ernesto Sabato – Lo scrittore e i suoi fantasmi



La vera patria dell’uomo è quella zona intermedia e terrena, duale e lacerata da dove scaturiscono i fantasmi della finzione romanzesca. Gli uomini scrivono finzioni perché sono incarnati, quindi imperfetti. Dio non scrive romanzi.

Un quaderno di appunti assai interessante, uno zibaldone di pensieri di uno dei più importanti scrittori argentini del Novecento.
Riflessioni sulla scrittura e sugli scrittori, con pagine di vera e propria critica letteraria (notevoli e “pungenti”, ad esempio, quelle su un mostro sacro della levatura di Borges).
Sabato prende le mosse dalla considerazione che “la letteratura non è né un passatempo né un’evasione, ma il modo – forse il più complesso e profondo – di esaminare la condizione umana” e che nell’analisi dell’individuo è implicita anche l’analisi della società in cui egli vive.
Una visione antropocentrica del romanzo quindi, inteso come “destinato a suscitare la ricomposizione dell’uomo scisso tra idee e passioni, sintesi tra l’io e il mondo, tra l’inconscio e la coscienza, tra la sensibilità e la ragione”. Romanzo quindi come sincretismo tra ragione e sentimento, sintesi di contrari che solo filosofia e narrativa sono in grado di esprimere.
Per Sabato, che fu anche scienziato, solo l’Arte può provare a spiegare l’uomo perché “alla severa oggettività della scienza corrisponde un linguaggio univoco e letterale, che culmina nella tranquilla carrellata di simboli della logica. Ma agli uomini concreti quel linguaggio non serve […] perché l’uomo concreto non solo non si propone di comunicare verità astratte, ma ha bisogno di esprimere sentimenti ed emozioni, cercando di agire sull’anima degli altri, incitandoli alla simpatia o all’odio, all’azione o alla contemplazione. Per questo fa uso di un linguaggio assurdo ed efficace, contraddittorio e possente”.
“Dio non scrive romanzi” è uno degli assunti fondamentali di Sabato, convinto che il torrente che porta acqua al mare della scrittura possa sgorgare solo dalle passioni, dalle turbolenze e dalle contraddizioni dell’anima (oltre che dalle altezze dello spirito).
Oltre alle osservazioni sulla natura del romanzo, l’autore dedica pagine interessanti anche a pensieri sullo scopo della letteratura, sostenendo che quella attuale ha sostituito la finalità estetica che caratterizzava la letteratura delle epoche precedenti con quella escatologica e anche pagine sulla struttura (che per Sabato ha sempre il primato rispetto al linguaggio) del romanzo moderno e sui motivi per i quali è più difficile da comprendere rispetto a quanto avvenisse in passato.
Libro decisamente interessante e utile per una miglior comprensione della trilogia del grande scrittore sudamericano.

domenica 7 ottobre 2018

Lezioni di letteratura argentina: Sabato su Borges



 Borges ha una sola fede e una sola coerenza: lo stile.
Mica cerca la Verità! Percorre l’universo del pensiero come un collezionista alle prime armi la galleria di un antiquario, e le sue stanze letterarie sono arredate con il gusto squisito e l’insensato disordine con cui è arredata la casa di quel dilettante.
Borges lo sa benissimo, anzi ce lo suggerisce. Ma il lettore che, con timore reverenziale, si genuflette appena legge la parola aporia, prende per profonda inquietudine quel che è solo un sofisticato passatempo. E invece di tenersi caro il Borges veramente valido corre dietro all’autore di quei giochetti.
Borges ha paura della dura realtà dell’esistenza e produce due atteggiamenti simultanei e complementari: inventa un mondo per gioco e fa suo il platonismo, teoria intellettuale per antonomasia. L’intelletto (puro, trasparente, schivo) lo affascina. E siccome vuol continuare a giocare, ha un motivo in più per non partecipare all’incessante e duro processo della verità. Prende dall’intelletto quel che avrebbe preso un sofista. Non cerca la verità, il suo godimento sta nel dialogo per il dialogo e, soprattutto, dialoga con le parole sulle parole. Lo attira l’intelligenza vacua, bipolare, scacchistica, disimpegnata, giocherellona, non comune, sofisticata, lo soggioga l’ipotesi che tutti possono aver ragione e, quindi, che nessuno ce l‘ha.
[…] Tlön, Uqbar, Orbis Tertius rappresentano al meglio il suo ecclettismo: desideri, errori stanno tutto lì, e ci costruisce un universo acutissimo. Né lui né noi crediamo in quel che afferma, ma ci incanta la possibilità metafisica che esprimono. E così in tutta la sua opera: il mondo è un sogno reversibile, è sempre possibile un ritorno, e anche raggiungere l’immortalità nella memoria degli altri perché l’immortalità non esista nell’eternità. Tutto vale e niente vale.
[…] Eppure c’è una costante che sempre si ripete, forse per paura della dura realtà: l’ipotesi che questa realtà sia solo un sogno. E l’ipotesi che il razionalismo ha sempre difeso, l’autentico patrono di Borges è Parmenide. […] Ecco perché, per Borges, è la ragione che governa il mondo, e persino i suoi sogni ed incantesimi devono essere armoniosi e intelligibili, e i suoi enigmi, come nei romanzi polizieschi, hanno alla fine una chiave.
[…] Potremmo quasi affermare che Borges è il simbolo letterario dell’illustre problema della razionalità del reale e della sua (temibile) conseguenza: la paralisi.

[…]L’arte – come il sogno – è quasi sempre un atto antagonista della vita diurna. La crudeltà del mondo che ci circonda affascina Borges, e insieme lo spaventa. E si rintana nella sua torre d’avorio sotto a spinta di quella stessa potenza che lo affascina. Il mondo platonico è il suo bellissimo e inattaccabile rifugio: lì può abbandonarsi; è pulito il suo rifugio, e lui odia la sporcizia della realtà; è senza sentimenti, e lui non sopporta coinvolgimenti sentimentali; è eterno, e lui è afflitto dalla fugacità del tempo. Per timore, disprezzo, pudore e per malinconia, diventa platonico.
Chiuso nella sua torre, dunque, architetta i suoi giochi. Ma il lontano rumore della realtà lo raggiunge: filtra dalle finestre e sale dalle profondità del suo essere. Dopotutto egli non è una figura ideale del museo di Meinong, ma un uomo in carne ed ossa che – nonostante i suoi tentativi di sfuggire – vive in questo mondo. Non c’è solo il mondo fuori, nella strada: quel mondo ce l’ha dentro, nel suo cuore. E come si fa a liberarsi del proprio cuore?
[…] E l’uomo, dal suo amato esilio, ricompare forse indistinto, fugace, equivoco, con tanto di passioni e sentimenti.
E il Borges nascosto, quello che come tutti ha le sue passioni e meschinità, ce lo immaginiamo dietro le sue astrazioni: contraddittorio e colpevole.
[…] Il gioco lenisce ma non annulla le su angosce, la sua nostalgia, la sua tristezza più profonda, i suoi risentimenti più umani. Gli incantevoli inganni teologici e la magia puramente verbale, in definitiva, non lo appagano. E così le sue più profonde angosce e passioni ricompaiono in una poesia o in un frammento di prosa in cui davvero si manifestano quei sentimenti troppo umani.

Ma quello di Borges è un ritorno alla realtà sempre ambiguo, parziale: basta una frase o una variante a smentirlo. Forse è vittima della sua passione verbale, del suo ingegno retorico.

[…] E Borges, il corporale Borges, il sentimentale Borges, ha cercato l’ordine nel caos, la calma nell’inquietudine, la pace nella tragedia, cerca dalla mano di Platone la via per accedere all’universo incorruttibile. […] Sembra che per lui l’unica cosa degna di una grande letteratura sia il regno dello spirito puro. Mentre la cosa degna di una grande letteratura è lo spirito impuro: cioè l’uomo; l’uomo in questo confuso universo eracliteo, non il fantasma, il cielo platonico.
[…] Dio non scrive romanzi.
Quella specie di oppio platonico non ci serve. Anzi finisce per farci apparire tutto un gioco, un simulacro, un’infantile evasione. E anche se quel mondo fosse vero, confermato dalla filosofia e dalla scienza, questo mondo è per noi l’unico vero, l’unico che ci provoca dolore, ma pienezza: questa realtà di sangue e di fuoco, di amore e di morte in cui vive quotidianamente la nostra carne e l’unico spirito che veramente possediamo: lo spirito incarnato.

[…] Il Borges che vogliamo riscattare e che è davvero riscattabile è il poeta che qualche volta ha cantato cose umili e fugaci, ma semplicemente umane: un tramonto di Buenos Aires, un cortile dell’infanzia, una strada di periferia. Questo è (oso profetizzare) il Borges che resterà. Il Borges che dopo il suo frivolo periplo per i territori della filosofia e della teologia, in cui non crede, torna in questo mondo meno affascinante ma in cui crede; in cui nasciamo, soffriamo, amiamo e moriamo.

[Ernesto Sabato: “Lo scrittore e i suoi fantasmi”]

sabato 4 novembre 2017

Ernesto Sabato - L’angelo dell’abisso


Dio non scrive romanzi

Terzo e ultimo dei tre romanzi scritti da Sabato, l’Angelo dell’abisso è anche quello che ha impegnato per più tempo lo scrittore argentino, considerato che a una prima edizione del 1974 ne è seguita una seconda e definitiva solo nel 1990.
In effetti si tratta di un testo non semplicissimo da maneggiare perché se già con Sopra eroi e tombe (il capolavoro di Sabato e uno dei vertici assoluti della letteratura latinoamericana) l’autore si era cimentato con una forma letteraria che mescolava narrativa, poesia, diaristica, saggistica e altro ancora, qui aggiunge un ulteriore elemento a quelli citati: lo scrittore che entra in prima persona nella trama ed interagisce con i suoi personaggi. Lo scopo è cercare di dare risposta agli interrogativi suscitati dal suo precedente romanzo (per questo considero la lettura di Sopra eroi e tombe propedeutica a quella de l’Angelo dell’abisso, oltreché imprescindibile) e a un altro sacco di domande.
Perché scrivere?  Questa, ad esempio, è una delle prime che Sabato si pone, rispondendo che la scrittura è per lui un modo di tramandare pensieri e insieme un viatico verso l’assoluto.
Scrivere di cosa? Si domanda subito dopo, risolvendo che non è fondamentale la ricerca di temi universali, ma che anche una storia minima, intima, può stimolare riflessioni ed avere valore consolatorio.
Cos’è L’Angelo dell’abisso lo spiega l’autore stesso all’inizio, in una dichiarazione d’intenti che è anche la miglior recensione possibile per questo libro (un romanzo su quella ricerca dell'assoluto, una follia tipica degli adolescenti ma anche di quegli uomini che non vogliono o non possono smettere di esserlo, e che in mezzo al fango e allo sterco lanciano grida disperate o muoiono gettando bombe in qualche angolo dell'universo. Una storia di ragazzi come Marcelo o Nacho, e di un artista che nei reconditi recessi del suo spirito sente agitarsi quelle creature (in parte intraviste fuori di sé, e in parte nelle profondità del suo cuore) che richiedono eternità e assoluto. Affinché il martirio di alcuni non si perda nel tumulto e nel caos ma possa toccare il cuore di altri uomini, per smuoverli e salvarli. Magari di qualcuno come lo stesso Sabato davanti a quel tipo di adolescenti implacabili, dominato, oltre che dalla propria brama di assoluto, dai demoni che continuano a perseguitarlo dai loro antri, personaggi che a volte sono comparsi nei suoi libri ma che si sentono traditi dalla goffaggine o dalla vigliaccheria del loro intermediario; e vergognandosi lui stesso, Sabato, di essere sopravvissuto a quegli esseri capaci di morire o di uccidere per odio o per amore, o per il loro impegno nello sviscerare il significato dell'esistenza. E vergognandosi non solo di essergli sopravvissuto, ma di farlo in modo meschino, con tiepide compensazioni. Con la nausea e la tristezza del successo).
Di nostro possiamo aggiungere che questo è un libro nel quale l’autore alterna prima e terza persona, autobiografismo e narrazione (la prosecuzione della storia di Sopra eroi e tombe), realismo e mistero. Un libro nel quale i personaggi si muovono su un terreno minato, fatto di contraddizioni continue: speranze, sogni interrotti, premonizioni, ossessioni, cospirazioni vere o presunte… un avanzare a tentoni nelle nebbie della vita (dentro di lui tutto era confuso, si faceva  disfaceva, non riusciva mai a capire cosa volesse o dove si stesse dirigendo), dove l’unica certezza e che non si raggiungeranno mai certezze durature.
Sono contraddizioni che sembrano nascere dalla lacerazione che Sabato vive tra il suo mondo concettuale e quello sotterraneo, tra la scienza che aveva abbandonato e la letteratura che aveva abbracciato senza riuscire a spiegarsi fino in fondo i motivi di questa scelta. Un conflitto irrisolto dunque, un continuo tentativo di giustificare e, quasi, giustificarsi: davanti ai giovani, che si sentono traditi e gli rinfacciano di non aver mantenuto fede agli ideali della prima ora per lasciarsi traviare dal mondo borghese, davanti a se stesso, diviso tra una parte che si sente lontana dagli altri, e quella che invece vive in mezzo alla gente ma che è solo un simulacro del vero Ernesto Sabato.
Contrasti, dunque. Come quello tra vita e arte, tra verità assoluta e verità personali. Come quello tra corpo e anima che apre ad una visionaria teoria dei sogni, un contrasto figlio della natura duale dell’uomo stesso, perché oltre la parte razionale esiste anche un inconscio, che troppo spesso si cerca di soffocare.

In conclusione, L’Angelo dell’abisso è un grande libro sulla crisi dell’uomo, un’opera a volte oscura, a tratti contorta, un testo in bilico tra saggio e narrativa che merita di esser letto.

mercoledì 27 luglio 2016

Maschere



I
come ricordava Bruno, «persona» vuol dire maschera e ognuno ha molte maschere: quella di padre, quella di professore, quella di amante. Ma qual era la vera? E ce n’era realmente una vera? In alcuni momenti pensava che l’Alejandra che ora vedeva lí, che rideva alle battute di Quique, non era, non poteva essere la stessa che conosceva lui e, soprattutto, non poteva essere la piú intima, meravigliosa e terribile Alejandra che lui amava. Ma spesso (e col passare delle settimane se ne convinse sempre di piú) tendeva a pensare, come Bruno, che tutte le maschere erano vere e che anche quel viso-boutique era autentico e in qualche modo esprimeva una delle anime di Alejandra: quella che gli era estranea, forse non era la sola.

II
Sempre, diceva, portiamo la maschera, una maschera che non è mai la stessa, e cambia per ognuna delle parti che ci ha assegnato la vita: quella del professore, dell’amante, dell’intellettuale, del marito ingannato, dell’eroe, del fratello affettuoso. Ma quale maschera rimane quando si è soli, quando crediamo che nessuno, nessuno, ci osservi, ci controlli, ci ascolti, ci comandi, ci supplichi, ci diffidi, ci attacchi? Forse il carattere sacro di quel momento è dovuto al fatto che l’uomo si trova di fronte alla Divinità, o per lo - meno davanti alla propria implacabile coscienza.


[Ernesto Sabato: "Sopra eroi e tombe"]

mercoledì 20 luglio 2016

Sulla “tenace pulsione a sopravvivere degli uomini”


La nostra ragione, la nostra intelligenza, ci dimostrano continuamente che il mondo è atroce, motivo per cui la ragione e conduce al pessimismo, al cinismo e infine all’annientamento. Ma, per fortuna, l’uomo non è quasi mai un essere ragionevole, e quindi la speranza rinasce di continuo in mezzo alle sventure. Lo stesso rinascere di questa vita cosí assurda, cosí sottilmente e visceralmente assurda, dimostra che l’uomo non è un essere razionale. E cosí, non appena i terremoti devastano una grande regione del Giappone o del Cile, appena una gigantesca inondazione uccide centinaia di migliaia di cinesi nella regione dello Yang Tse; appena una guerra crudele, e per l’immensa maggioranza delle sue vittime senza senso, come la guerra dei Trent’anni, ha mutilato, torturato, assassinato e violato, incendiato e raso al suolo donne, bambini, paesi, immediatamente i superstiti, quelli che pure hanno assistito, spaventati e impotenti, a tali catastrofi naturali o umane, gli stessi esseri che in quei momenti di disperazione hanno pensato che mai piú avrebbero voluto vivere, che mai avrebbero voluto ricostruire le loro vite anche potendo, quegli stessi uomini e donne (soprattutto donne, perché la donna è la vita stessa e la terra madre, quella che non perde mai l’ultimo filo di speranza), quei precari esseri umani cominciano di nuovo, come formiche sciocche ma eroiche, a ricostruire il loro piccolo mondo di tutti i giorni: mondo piccolo, è vero, ma proprio per questo piú commovente. E quindi non erano le idee che salvavano il mondo, non era l’intelletto né la ragione, ma il contrario: erano le idee insensate, le cose prive di senso logico, la tenace pulsione a sopravvivere degli uomini, la loro ansia di respirare finché sarà possibile, il loro piccolo, testardo e grottesco eroismo di tutti i giorni di fronte alla sventura. E se l’angoscia è l’esperienza del Nulla, qualcosa come la prova ontologica del Nulla, non sarà forse la speranza la prova di un Senso Occulto dell’Esistenza, qualcosa per cui vale la pena di lottare? Ed essendo la speranza piú forte dell’angoscia non sarà che questo Senso Occulto è piú vero, per dire cosí, del famoso Nulla?

[Ernesto Sabato: "Sopra eroi e tombe"]

domenica 29 maggio 2016

Ernesto Sabato – Sopra eroi e tombe

“sogni, abissi, abissi insormontabili, solitudine solitudine solitudine, tocchiamo ma siamo a distanze incommensurabili, tocchiamo ma siamo soli”

Romanzo da leggere e poi rileggere.
Sopra eroi e tombe è innanzi tutto storia di storie: da quella di Alejandra e Martìn, a quelle dei membri della famiglia di Alejandra, da quelle di Cicìn e Humberto J. D’Arcangélo detto Tito a quella di Fernando e alle altre mille che popolano il racconto. Ma non solo, è anche un romanzo dove si alternano i registri e che, soprattutto, presenta un’architettura straordinariamente moderna. Parlo di quell’alternanza di generi che ho ritrovato in diverse opere recenti: romanzo classico, storico, poliziesco, cronaca, diario,  riflessioni letterarie… il tutto perfettamente tenuto insieme da una trama che, pur perdendo un po’ di linearità tra la prima e la seconda parte, regge perfettamente il peso del romanzo.
Un libro con una prima parte di stampo dostoevskijano (la storia di Alejandra e Martìn mi ha richiamato alla memoria quella di Nastas’ja Filippovna e del principe Myškin) e una seconda quasi kafkiana, con riferimenti anche a Platone (penso alla Caverna), che per certi aspetti mi ha fatto pensare a Gombrowicz e che deve aver influenzato non poco anche autori contemporanei come Cărtărescu.
Sopra eroi e tombe è un romanzo che partendo dalla storia di un amore contrastato si apre in mille direzioni diverse: c’è l’aspirazione all’Assoluto di Martìn, il ragazzo che coltiva la folle idea di arrivare attraverso Alessandra alla Bellezza più pura e c’è anche la rappresentazione della medesima aspirazione declinata alla maniera di Fernando, che trasformerà la sua indagine in un’ossessione, finendone travolto. E c’è l’abisso, il mare profondo che separa le nostre vite e ci rende simili a isole (abitanti solitari di due isole vicine, ma separate da insondabili abissi). Anche quando i personaggi di Sopra eroi e tombe provano a instaurare rapporti interpersonali, questi non riescono quasi mai ad essere equilibrati: Martìn/Alejandra, Fernando/Georgina, Fernando/Bruno… c’è sempre una situazione di dipendenza, di squilibrio che condiziona la relazione. Ognuno di noi è solo, ha bisogno dell’altro, lo cerca, può riuscire anche a stabilire con lui una forma di contatto, ma si tratterà solo di un legame equivoco e limitato nel tempo, perché in realtà non riusciamo mai ad aprirci completamente e rimaniamo chiusi dentro la nostra torre con i nostri ricordi. E d’altra parte come sarebbe possibile mostrarci per quello che siamo se neppure noi conosciamo la nostra vera identità (come ricordava Bruno, «persona» vuol dire maschera e ognuno ha molte maschere: quella di padre, quella di professore, quella di amante. Ma qual era la vera? E ce n’era realmente una vera? In alcuni momenti pensava che l’Alejandra che ora vedeva lì che rideva alle battute di Quique, non era, non poteva essere la stessa che conosceva lui e, soprattutto, non poteva essere la più intima, meravigliosa e terribile Alejandra che lui amava. Ma spesso (e col passare delle settimane se ne convinse sempre di più) tendeva a pensare, come Bruno, che tutte le maschere erano vere e che anche quel viso-boutique era autentico e in qualche modo esprimeva una delle anime di Alejandra)?
Il dramma dell’uomo (moderno): siamo isole che non possono fare a meno di cercare di gettare ponti verso l’altro, nonostante siamo consapevoli che i nostri tentativi sono destinati a fallire. Forse è proprio l’abisso quello che ci attrae (mi affascinava – dice Martìn a proposito di Alejandra – come un abisso tenebroso), un’attrazione che nasce “dentro” e che non si può spiegare, che è frutto più della necessità, di un bisogno, piuttosto che dell’amore (penso che farei bene a non rivederti mai piú. Ma ti rivedrò perché ho bisogno di te. – dice Alejandra a Martìn). La contraddizione dunque è parte della nostra natura, perché siamo spirito ma anche carne, e lo spirito per salvare se stesso dovrebbe stare solo, ma ha bisogno, si esprime attraverso la carne. Contraddizione che Sabato esprime molto bene anche attraverso le parole di Bruno quando dice che “la pura verità non si può dire quasi mai quando si tratta di esseri umani, perché provoca solo dolore, tristezza e distruzione. Credo che la verità vada benissimo in matematica, in chimica, in filosofia. Non nella vita. Nella vita è più importante l’illusione, l’immaginazione, il desiderio, la speranza. Inoltre, sappiamo forse che cos’è la verità? Se io le dico che quel pezzo di finestra è azzurro, dico una verità. Ma è una verità parziale, quindi una specie di bugia. Perché quel pezzo di finestra non è solo, è in una casa, in una città, in un paesaggio. È circondato dal grigio di questo muro di cemento, dall’azzurro chiaro di questo cielo, da quelle nuvole allungate, da infinite altre cose. E se non dico tutto, assolutamente tutto, sto mentendo. Ma dire tutto è impossibile, anche in questo caso della finestra, di un semplice pezzo di realtà fisica, della semplice realtà fisica. La realtà ha infinite sfumature, e se dimentico una sola sfumatura, mento. Allora puoi immaginare com’è la realtà degli esseri umani, con le loro complicazioni e tortuosità e contraddizioni. Che cambia, infatti, ad ogni istante che passa, e ciò che eravamo un momento fa non lo siamo piú. Siamo, forse, sempre la stessa persona? Abbiamo, forse, sempre gli stessi sentimenti? Si può voler bene a qualcuno e improvvisamente disprezzarlo e perfino detestarlo. E se quando lo disprezziamo commettiamo l’errore di dirglielo, quella è una verità, ma una verità molto parziale, che non sarà piú verità fra un’ora o il giorno dopo o in altre circostanze. E invece la persona alla quale la diciamo penserà che quella sia la verità, la verità per sempre e da sempre. E sprofonderà nella disperazione.”
Romanzo duro quindi, apparentemente senza speranza, se non fosse per il finale, con l’apparizione (quasi da deus ex machina) di Hortensia, la donna che forse riescirà a salvare Martìn  dalla catastrofe mostrandogli come nonostante tutto nel mondo esista anche la bellezza. Una bellezza senza maiuscola, limitata alle piccole cose, ai piccoli gesti. Lontana da quel concetto di Assoluto a cui lui aveva dedicato la sua vita, ma magari sufficiente per tirare avanti.