domenica 16 dicembre 2012

un giorno e non finì la frase. Capitolo secondo.


Capitolo secondo

Se una farfalla in Brasile un giorno


Si parte. Se il fischio che si è levato dall’Highland Monarch poco fa è stato solo un colpetto di avvertimento, un segnale discreto buttato là tanto per dire, Cari signori, ci dispiace distogliervi dalle vostre occupazioni, ma ci corre l’obbligo di avvisarvi che stiamo per prendere il largo, compensando con il pregio della brevità il fastidio arrecato ai timpani, ora la situazione è diversa e la sirena può permettersi di essere finalmente se stessa e fare la voce grossa senza tentennamenti. E’ il momento degli addii, senza possibilità di ripensamento, chi c’è c’è e chi non c’è s’arrangi, come dicono i bambini, la nave va, ed un sibilo vigoroso è la colonna sonora di tanta partenza. Un fischio lungo e sgradevole, un concerto monocorde che sovrasta per intensità ogni altro suono e si dilata a raggiera in cerchi sempre più ampi, fino a penetrare nella testa delle persone in maniera così decisa da spiazzare anche i pensieri, e forse è un effetto voluto, che chi ha il compito di organizzare le partenze sa bene che quasi sempre si tratterebbe di pensieri tristi.
Come valorosi soldati impegnati nella strenua difesa del loro fortino assediato dai nemici, i viaggiatori hanno già occupato le balaustre lungo il perimetro della nave e dalle loro posizioni scrutano con attenzione il molo di Alçantara alla ricerca di parenti ed amici. I più veloci hanno fatto in tempo a posare le valigie nelle cabine a loro assegnate ed ora si muovono con disinvoltura cercando la posizione migliore, i più accorti hanno preferito sopportare l’impaccio di trascinarsi appresso i bagagli ma sono riusciti ad occupare i posti di poppa, che sono i migliori, con l’esperienza di quelli cha sanno che a volte vale la pena di fare un piccolo sacrificio quando si sa che può essere seguito da un grande premio, e gli indecisi, i lenti, i ritardatari, insomma la maggioranza di quanti sono saliti sul piroscafo a Lisbona, sono costretti ad accontentarsi di una scomoda collocazione lungo i ponti laterali, una scelta obbligata, un ripiego, che da lì è difficile vedere ed essere visti dalla gente che assiepa la banchina. Chi primo arriva meglio alloggia, questa è la regola non scritta che vale da sempre in circostanze come questa, e nessuno stia qui a parlare di cavalleria, di far spazio alle signore od ai bambini, che su questa nave di anime belle intenzionate a cedere un posto conquistato a fatica non se ne vede l’ombra.
Si parte, e il primo impulso è di precipitarsi in sala macchine per costringere l’addetto a schiacciare quel maledetto pulsante e far tacere per sempre la nota malefica. Sembra che ci sia un compiacimento da parte del transatlantico nel reiterare all’infinito il suo fischio, quasi a cancellare ogni dubbio sull’importanza del momento. La sirena dell’Highland Monarch come equivalente sonoro di una riga nera tirata su un foglio bianco a dividerlo in due con gesto tanto deciso quanto significativo. Attenzione signori, il suono che sentite è lo spartiacque fra il prima che avete vissuto ed il dopo che vi aspetta, quello che è stato è stato, si parte e da ora in poi l’unica legge a contare sarà quella del piroscafo. E’ un rumore intollerabile anche per i timpani più allenati, un rumore che per assurdo potrebbe non finire mai e coprire per sempre ogni altra voce, cancellando ogni possibilità di relazione, ogni pensiero. Considerazioni bislacche, figlie della collera, che nascono con la notte e si dissolvono all’alba, che poi ci si accorge che non è così, che non è mai morto nessuno per colpa di un rumore e con il passare del tempo ci si abitua a tutto. Già, a tutto. In fondo se l’uomo è arrivato fin dove è arrivato non lo deve certo al fatto di essere una macchina perfetta, ma alle sue capacità di adattamento. La perfezione non è poi quella gran cosa che raccontano, è anzi un limite, che incatena ed impedisce di crescere ulteriormente, la duttilità è il segreto, l’attitudine a cambiare con il mutare delle situazioni. E’ sempre stato così, anche in natura e la storia dell’evoluzione è lì davanti testimoniarlo. L’animale che non riusciva a stare dietro alle situazioni climatiche ed ambientali era destinato a soccombere e ad estinguersi, quello che ci riusciva poteva sopravvivere ed andare avanti, almeno sino al mutamento successivo. Certo, se spostiamo il discorso dalla natura al campo sociale le cose cambiano, e non poco, che quando un animale per salvarsi cambia pelle lo consideriamo in maniera positiva, ma se a cambiar pelle per riuscire a stare a galla nelle situazioni della vita è un uomo lo giudicheremo, ben che vada, un opportunista, ma si sa come vanno le cose, quello che è buono in un ambito non è detto che lo sia anche in un altro. E comunque questo è un altro discorso, che quello che vogliamo dire è che non sarà certo un suono, per quanto molesto, a cancellare il pensieri dalla testa delle persone imbarcate sull’Highland Monarch. E se fossimo di quelli abituati a vedere il bicchiere mezzo pieno, ed a trovare un lato positivo in ogni cosa, aggiungeremo qui che anche il baccano, in fondo, può risultare utile, non fosse altro per coprire i pianti e le grida della gente accalcata sul molo e sulla nave. Accontentiamoci del male minore, come si dice in questi casi, e giacché non è possibile sottrarci alla visione dei fiumi di lacrime che solcano i volti di chi va e di chi resta, ringraziamo la sirena che ci fa la grazia di non ascoltare il sonoro di questo spettacolo. 
L’aver trovato qualcosa di positivo in mezzo a questo girone dantesco ci ha messo di buon umore, così che la vista di un rubizzo signore di mezza età, con i radi capelli grigi spettinati dalla confusione, in equilibrio malfermo sopra una pila di valige, intento a scandagliare con sguardo serio il molo tenendo la mano destra sulla fronte come fosse una sentinella di una delle caravelle di Colombo pronta ad urlare Terra, Terra a squarciagola, ci suscita una risata che a stento riusciamo trattenere. Scusateci tanto ma quella mano a cosa serve, ci chiediamo, che in questo momento il porto è avvolto da una cappa di nebbia e di sole che possa offuscare la vista non c’è n’è la minima traccia. Non sembri irriguardoso nei confronti di questa gente, che sappiamo bene quanto struggente è il momento, ma la cerimonia della partenza oltre a celebrare il distacco, con tutto il carico di angoscia e disperazione che questo implica, porta con se anche più di un aspetto comico. E’ un po’ come quando si assiste ad un funerale nel quale, nonostante la gravità del momento, non riusciamo a sentirci coinvolti più di tanto, è fatale che l’attenzione dopo un po’ cali ed a volte si finisca per buttare l’occhio su episodi che per pudore ci limiteremo a definire imbarazzanti, ma che isolati dal contesto sembrerebbero francamente ridicoli. Alzi la mano chi non ha mai dovuto trattenere non dico una grassa risata ma almeno un mezzo sorriso ad un funerale, chi non ha dovuto mordersi la lingua o girarsi dall’altra parte o costringere i suoi pensieri a prendere un’altra strada per non tradire un improvviso moto di ilarità. E’ una cosa normale, non è cattiveria, né mancanza di rispetto, probabilmente è un modo come un altro per esorcizzare le paure, un tentativo di prendere le distanze e sconfiggere l’angoscia. Mettiamola così, a volte si ride per non piangere, e se qualcuno ha ancora dei dubbi gli ricorderemo qui che le barzellette sui funerali non le abbiamo di certo inventate noi. Insomma, sarà per colpa della distanza, che è notevole, sarà per via della nebbia, che avanza senza sosta, aggiungiamoci pure che anche l’emozione fa il suo nel giocare brutti scherzi, ma come non ridere del fatto che i saluti che si levano di qua e quelli che si levano di là non vadano proprio a buon fine ma anzi si incrocino in maniera bizzarra. Non è colpa nostra, ad esempio, se quella donna con il vestito a fiori che vediamo sul molo mentre con la mano sinistra si tiene il petto e con la destra agita un fazzoletto all’indirizzo della nave, credendo di riconoscere nella mano che si sbraccia da uno dei parapetti il proprio figlio, sta in realtà salutando un perfetto sconosciuto, mentre il figlio prediletto, con il cuore in gola per l’emozione, sta dirigendo i suoi baci in direzione di una signora che in comune con la madre ha solo la chioma candida. Ma in fondo cosa importa, che siamo tutti fratelli e sorelle, e l’emozione della partenza è la somma di tutto quello che ci portiamo dentro e non fa molta differenza a chi la comunichiamo. E si vede che quello di salutare la gente sbagliata è uno sport che riscuote un discreto successo sul molo di Alçantara, almeno a giudicare dal comportamento del padre della ragazza esile dal collo lungo e sottile, che sembra impegnato a rivolgere i suoi saluti in una direzione che è quella opposta a quella che occupa la figlia sulla nave, ed il fatto di essere in buona compagnia in questa sorta di inganno collettivo non è certo di alcun conforto. Lo vediamo sorridente, mentre agita la mano e poi si china verso una signora al suo fianco, le passa un braccio sulla spalla e con l’altro indica un punto imprecisato della fiancata dell’Highland Monarch, al che la signora abbozza un sorriso muove a sua volta la mano, seppur con meno vigore. E come noi lo vede anche la signorina in questione, e pur accorgendosi che il padre non sta salutando lei ma chissà chi, non si scompone più di tanto e soprattutto non si sottrae al rito collettivo dei saluti, ma adempie al compito che il momento richiede in maniera quasi distaccata, come se fosse un dovere da espletare prima possibile. Composta e misurata guarda in direzione del genitore increspando le labbra in un mezzo sorriso, un sorriso che è d’affetto, di comprensione e di ineluttabilità insieme, ed anche, ma sì, diciamolo, di delusione, poi alza appena la mano destra movendola leggermente in direzione del molo, una cosa di pochi secondi, che poi la abbassa per ricongiungerla alla sinistra che era rimasta abbandonata lungo il corpo. Come una mandria di animali selvatici che odora l’aria per annusare eventuali pericoli, la folla schiacciata contro la balaustra sembra aver riconosciuto la signorina come altro da sé, per questo se ne tiene prudentemente discosta, ma se gli animali usano l’olfatto per avvertire la presenza del più piccolo cambiamento nell’ambiente intorno a loro, la massa, che non è dotata della stessa abilità, è costretta ad accontentarsi di interpretare altri segnali, come il portamento austero, quasi rigido, della ragazza che incute deferenza in chi la osserva, ed il suo sguardo attento, fisso verso un punto lontano, che sembra isolarla dalla scena e renderla inavvicinabile come una principessa richiusa in una torre.
E giacché abbiamo iniziato questo racconto leggendo nella mente della gente, ci piacerà continuare ancora un po’ il nostro gioco. Abbandonato l’uomo con il monocolo al suo destino, sono i pensieri della ragazza quelli che ci interessano ora, pensieri che però ci dicono poco, che è difficile entrare nella vita di qualcuno in un punto scelto a caso e credere di poter capire tutto quello che è successo prima, ci limiteremo così a registrarne le riflessioni senza affannarci a cercare di capire ogni parola, sperando che quello che non ci è chiaro adesso lo possa diventare con il seguito della storia.
Se la mamma non fosse morta, pensa la signorina esile dal collo lungo e sottile, se questo cuore dispettoso non avesse improvvisamente iniziato a darmi dei problemi, se papà non avesse rovinato tutto innamorandosi di quella donna, se quel dottore venuto da Rio non fosse sparito nel nulla, se cinque mesi fa non fosse mancata anche la nonna, se i medici di Coimbra avessero badato ai fatti loro invece di dare consigli sciagurati a papà credendo di aiutarmi, se i miei zii brasiliani non fossero stati per una volta così generosi, se questa mano. Ferma, ferma. Tanti se, troppi. Un fiume di se che tracima in ogni direzione e che ci trova impreparati, che non immaginavamo certo di scoprire così tante cose quando abbiamo deciso di dare un’occhiata dentro alla testa di questa signorina. Chiediamo venia, ci dispiace aver curiosato con animo leggero nei pensieri di una ragazza così afflitta, una persona come questa merita tutta la nostra comprensione e non possiamo far altro che scusarci per la nostra indelicatezza e dirci dispiaciuti per le disgrazie di cui si lamenta, anche se al momento non siamo in grado di comprenderle tutte. Ma la storia della ragazza dal collo lungo e sottile è solo una fra le più di mille che potremo sentire su questa nave, che i suoi se sono i se dell’altra gente che si è appena imbarcata, magari non proprio i soliti, ma equivalenti. Se Hitler e Mussolini non avessero creato l’Asse, sta pensando ad esempio quel signore con barba e baffi, là in fondo. Se la guerra civile non avesse incendiato la Spagna, è il tarlo che abita nella testa di quella coppia con due bambini che sembrano gemelli e che sta piangendo mentre si abbraccia, se Salazar non avesse appoggiato i nazionalisti rischiando di trascinarci tutti in un conflitto che rischia di incendiare l’Europa e non solo, è la considerazione di quel giovane che abbiamo appena visto salutare una signora dai capelli bianchi come se fosse sua madre, ma che sua madre non è. Se, se, se. Se che ne incrociano altri come persone che si incontrano al centro di una piazza. Se i venti di crisi non mi avessero spinto ad emigrare per cercare fortuna in Argentina, pensa più d’uno dei ragazzi che viaggiano in terza classe, se il mio amore non mi avesse abbandonato ad un mese dalle nozze, è il pensiero di quel bel giovane con i baffi all’insù che ha scelto il nuovo continente per rifarsi una vita, ma è anche, strano a dirsi, lo stesso pensiero di quella sartina che si asciuga il sudore dalla fronte seduta sulle valige e che dire bella proprio non si può, la quale sta viaggiando verso il Sud America per un altro matrimonio, che i suoi genitori hanno combinato con un uomo che lei neppure conosce e che speriamo per lei possa essere più fortunato di quello che ha visto sfumare ai piedi dell’altare. Visto che ci troviamo ad assistere ad un’esposizione di se altrui, non ci sarà niente di male se ci permettiamo di aggiungerne qualcuno di tasca nostra. Se M. T. non avesse affidato il suo messaggio d’amore alle acque del Tamigi ma l’avesse consegnata direttamente a G. S., è la prima cosa che ci viene in mente, e subito dopo, se non avessimo letto Saramago, e se Saramago non avesse letto Pessoa, e se Pessoa. Ma ora basta, è meglio finirla qui, che a forza di andare a ritroso rischiamo di arrivare a Adamo ed Eva.
In fondo di se come questi è lastricata la strada della vita. Sono i figli di quei bivi che si presentarono un giorno sul nostro cammino, i nipotini di quegli aut aut davanti ai quali siamo stati chiamati un tempo a fare una scelta piuttosto che un’altra e che poi, a distanza di tempo, ci si ripropongono sotto forma di rimpianto, di rimorso, di dubbio postumo, in una parola sotto forma di se. E che senso può avere rammaricarsi per aver preso una strada piuttosto che un’altra tanto tempo prima, quando succede che spesso la nostra scelta non è stata fatta consapevolmente, che con molta onestà dovremo ammettere di esserci affidati in più di un’occasione alla sorte e con la stessa onestà sarà bene riconoscere anche che a volte non ci siamo neppure resi conto di essere ad un crocevia ed altre ancora abbiamo preferito lavarcene le mani, non operando alcuna scelta, demandando questo compito ad altri. Siamo fin patetici quando ci pavoneggiamo da decisionisti ed andiamo così fieri delle nostre capacità da sembrare più alti di una spanna. Ma chi crediamo di prendere in giro, che la sicurezza che esibiamo è solo un tentativo di darci coraggio, di farci guardare avanti e ricacciare i dubbi nelle profondità del nostro animo. Quando operiamo una scelta, non potremo mai essere sicuri che sia quella giusta, non c’è una formula matematica per sapere cosa è meglio in ogni circostanza, il tempo è un giudice che lavora con calma. C’è chi prende le sue decisioni seguendo l’istinto, chi segue il cuore, chi la ragione, chi si fida degli altri, chi tira ad indovinare. Tutti sistemi validi e sbagliati allo stesso tempo, che possono funzionare o no, che magari per un po’ vanno bene e poi si dimostrano inadeguati al bivio successivo, chi può dirlo. Quello che possiamo dire è com’è fatta la vigilia di una scelta, quanti dubbi, incertezze e ripensamenti la abitano. Un’aria pesante e viziata, una cappa fumosa che svanisce per incanto una volta che la decisione è stata presa, sotto energici colpi di ramazza che portano a galla una strana euforia, un’atmosfera quasi di festa, come se fosse necessario celebrare la fine del dubbio con un senso di sollievo, per andare incontro alle conseguenze della nostra scelta con animo più leggero.
La vita è come una partita a scacchi che si gioca contro il destino, su un campo di dimensioni enormi. Non sappiamo quanti pezzi abbiamo a disposizione e neppure come muoverli esattamente, è un gioco che impariamo un po’ per volta, man mano che lo giochiamo. Nonostante la nostra autostima possa essere più o meno grande, per quanti sforzi facciamo per convincerci di aver valutato le cose sotto tutti i punti di vista, ogni pezzo che muoviamo è spinto unicamente dal buonsenso, che non è possibile prevedere lo svolgimento che il gioco prenderà poco più avanti, è un calcolo troppo complicato, anche per le menti più allenate. Inutile atteggiarsi a strateghi, quello che facciamo è contentarci di scelte semplici, simili in questo ad un uomo che avanza movendosi con passo traballante nel buio, tendendo la mano in avanti in modo da accorgersi prima di un possibile pericolo. Quando facciamo una mossa un po’ diversa dal solito, il più delle volte non seguiamo un piano preciso, ma bluffiamo spudoratamente, animati dal piacere del rischio, con l’unico scopo di buttare un sasso in fondo ad un pozzo per vedere quanto è profondo. Ad ogni nostra mossa il destino risponde con una mossa analoga e a volte, quando i suoi pezzi sono vicini a noi, ci è possibile comprendere i motivi che l’hanno ispirata, ma quando i pezzi che il destino muove sono lontani dai nostri occhi la questione si complica non poco, che sappiamo che il nostro avversario ha fatto una mossa ma non quale, forse ce ne renderemo conto più avanti, forse sta accumulando truppe sul nostro lato più debole in previsione di un attacco, forse si sta solo difendendo. Non è facile capire le mosse del destino, anzi, a volte è proprio impossibile, considerando che ce la mettiamo già tutta solo per dare un senso a quelle che facciamo noi, e badare troppo ai movimenti dell’avversario rischierebbe di farci perdere la concentrazione sui nostri pezzi. In mezzo a tanti dubbi, di una cosa sola siamo certi, che la partita deve essere giocata. Non ci possiamo sottrarre al nostro ruolo, le regole che ancora non conosciamo le impareremo via via, sulla nostra pelle, si tratta di far tesoro dei nostri errori, ma non solo, che sarebbe anche troppo facile, in realtà è bene che ci abituiamo alla svelta all’idea che questo gioco ha una componente di imponderabilità dalla quale non si può prescindere. Troppe variabili, troppi fattori da considerare. Ogni volta che un pezzo cambia posizione sulla scacchiera, è tutto lo scenario che muta, strategie che sembravano ben avviate muoiono in un baleno e nel mare delle possibilità si schiudono mille sviluppi futuri, destinati a loro volta ad irrobustirsi od a naufragare con la mossa successiva. E’ bene non innamorarsi troppo di un progetto o di un’idea, che rischiano di essere spazzati via nello spazio di due mosse, questa è una delle lezioni che la partita ci impartisce. E per richiamare bruscamente alla realtà i languidi sognatori che inseguono chimere, sarà bene chiarire ancora una cosa a proposito di questa sfida, che non c’è nessun mistero, nessun dubbio sull’esito. Si sa in partenza chi vince. Vince sempre il destino, è scritto. Noi possiamo solo accontentarci di giocare la nostra partita e cercare di impegnarlo il più a lungo possibile.
Messa così la cosa è meno triste di quanto si possa pensare, che il fatto di non dover portare a casa il risultato finale ci permette di giocare la nostra partita senza assilli. E se anche la gente che affolla le balconate dell’Highland Monarch cominciasse a ragionare in questa maniera e la smettesse di cercare di dare un senso a tutti i se che l’angustiano, avrebbe di che guadagnarne in serenità. A volte è necessario sottrarsi alla logica della causalità ed arrendersi all’idea che esistano anche fenomeni che non sono spiegabili, almeno non ancora. E’ la scienza a dirci questo, che non tutti i sistemi sono lineari, e non sempre ad una piccola variazione dello stato iniziale corrisponde una variazione egualmente piccola dello stato finale. Se così fosse, se potessimo mettere in fila catene di eventi legati dal rapporto causa-effetto, potremmo spiegare praticamente tutto, fino al punto di prevedere una tromba d’aria in Texas dal battito d’ali di una farfalla in Brasile, come diceva Edward Lorenz. Per fortuna non è così, per fortuna ci sono anche i sistemi non lineari, quelli dove ad un cambiamento infinitesimale all’inizio può corrispondere uno scarto enorme alla fine o viceversa, o comunque quei sistemi dove data una variazione iniziale non è possibile prevedere quello che succederà in seguito. In fondo è bello sapere che l’uomo non ha ancora scoperto tutte le leggi della natura. Dover ammettere che il nostro destino non è tutto nelle nostre mani ma anche, e soprattutto, in quelle del Fato, ci fa sentire più fiduciosi. Magari perché riponiamo maggior fiducia nella sorte che negli uomini, ma questo è un discorso che riguarda solo noi.

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