domenica 16 marzo 2014

Roberto Bolaño - I dispiaceri del vero poliziotto


Romanzo postumo, che nelle intenzioni dell'autore doveva essere un'opera monstre, di oltre ottocentomila pagine. Uno degli incipit più potenti e provocatori della letteratura contemporanea (la classificazione degli scrittori in froci e frocioni) da il via ad un'alternarsi di pagine di grande letteratura (penso, ad esempio, al secondo capitolo, dove Amalfitano racconta chi era, al ricordo del soldato sivigliano, alle cinque generazioni di Marie Expòsito, alla storia del generale Sepùlveda), di critica letteraria, di riflessioni sulla storia, di fantasia sfrenata (la bibliografia di Arcimboldi) … che catturano e trascinano il lettore in un viaggio che si vorrebbe non finisse mai. 
La solita scrittura “piena” a cui ci ha abituato Bolaño, che sembra tracimare in tutte le direzioni, un libro che è impossibile (o meglio: inutile) cercare di riassumere, fatto di tante storie collegate tra loro ma anche in grado di camminare da sole, un libro “eccentrico”, che è come le strade di Santa Teresa che “erano proiettate fuori, urbane e al tempo stesso aperte verso la campagna, una campagna di grandi spazi misteriosi”, un libro carico di vitalità, di voglia di dire e di fare, un romanzo “polifonico” che vuol raccontare “quante voci possiamo sentire nel corso di un giorno o di un'esistenza”. 
 Bolaño è un demiurgo che crea le sue storie impastando fango e sogni, letteratura e terra delle strade di Sonora, gioia e amarezza, coraggio e paura, presenza e assenza, felicità e sensi di colpa, sempre alla ricerca della verità delle cose per trovare “se non la ragione, una dannata giustificazione, e se non una giustificazione, il canto, appena un mormorio, ma indelebile”, il tutto ammantato da un velo di malinconia che passa come un vento caldo, a folate, su tutto il libro.

sabato 15 marzo 2014

Corona


Dalla mano l’autunno mi bruca una foglia: 
è sua, siamo amici. Facciamo sgusciare il tempo via dalle noci e gli 
insegniamo ad andare: 
il tempo si dirige all'indietro, nei gusci. 

Nello specchio è domenica, 
nel sogno potremo dormire, 
la bocca in verità conversa. 

Il mio occhio corre giù, fino al grembo 
dell’amata: 
ci guardiamo a vicenda, 
ci diciamo oscure parole, 
ci amiamo l’un l’altra come papavero e memoria, 
dormiamo come vino nelle conchiglie, 
come il mare nel chiaro-sangue di luna. 

Abbracciati, stiamo alla finestra, ci vedono 
su dalla strada: 
è tempo, che si sappia! 
E’ tempo, che la pietra si disponga a fiorire, 
che l’ansia un cuore possa colpire. 
E’ tempo, che sia tempo. 

E’ tempo. 

[Paul Celan: "Papavero e memoria"]

domenica 9 marzo 2014

Fëdor Michajlovič Dostoevskij - Il sosia


Seconda opera di Dostoevskij e prima bocciatura da parte di pubblico e critica. Ci sta. 
Un insuccesso è da mettere in conto, soprattutto se all'età di venticinque anni decidi di addentrarti nei territori dell'autocoscienza, di calarti negli abissi dell'Io senza l'ausilio di una mappa, senza sapere di preciso cosa rischi di trovare. 
Sì perché il sosia è del 1846 e Freud cominciò a pubblicare poco prima del 1900... Diciamo che Dostoevskij era leggermente in anticipo sui tempi (a volte capita ai geni): logico che potesse non essere compreso da lettori che si attendevano un romanzo che affrontasse il tema del “gemello identico” nella maniera classica, buttandola in parodia. 
Niente di più lontano dalle intenzioni dell'autore, invece. Che come scriveva in una lettera al fratello, considerava il sosia come una sorta di confessione, intesa come “scavo interiore” del protagonista. Protagonista che altro non è che un vigliacco che cerca di giustificare i suoi comportamenti, dicendo di non dipendere da nessuno mentre nei fatti pensa ed agisce in conseguenza di quelli che ritiene siano i pensieri e le azioni degli altri. 
Questa è la breccia da dove origina il dramma di Jakov Petrovič Goljadkin, la linea di frattura nella quale Dostoevskij decide di piantare chiodi e picchetti e poi calarsi nelle profondità della personalità del protagonista: Goljadkin afferma di non avere bisogno dell'altro mentre in realtà non ne può fare a meno, per questo finirà per costruirsi un “altro” se stesso col quale si confronterà. 
La presenza di questo “altro” non si materializza da subito, ma aleggia nei monologhi del protagonista (in realtà dialoghi di Goljadkin con se stesso) e solo successivamente sfocia nella nascita del sosia, del secondo Jakov Petrovič. Dostoevskij è così concentrato sul viaggio interiore del suo personaggio, da lasciare volutamente sullo sfondo le vicende del racconto. Utilizza la trama più che altro come “quinta”, utile a delimitare lo spazio scenico o poco più, perché quello a cui siamo chiamati ad assistere è uno “one man show” e tutto il resto potrebbe creare solo disturbo. 
Quando compare sulla scena il sosia, i suoi primi passi ci mostrano un personaggio piuttosto impacciato, una creatura in difficoltà, una copia insicura che sembra affidarsi ai consigli dell'”originale”. Impressione fallace, perché rapidamente la copia finirà per affrancarsi dal suo creatore, a differenza del quale dimostrerà di sapersi muovere più che bene nel contesto rappresentato dagli altri, con la logica conseguenza di finire in piena rotta di collisione con Goljadkin. Situazione che destabilizzerà definitivamente il povero protagonista.
Da demiurgo a comprimario, da primo attore a comparsa, senza neppure comprendere quello che sta succedendo. 
 Ai moti di scherno ed ai gesti di ribellione del sosia, Jakov Petrovič reagirà sulle prime con irritazione, ma poi cercherà sempre di ricomporre lo strappo, quasi intuendo che se non riuscirà a ricucire la frattura ciò sarà foriero di sventure più grandi. E questo è esattamente quello che succederà perché l'impossibilità di governare la sua creatura non farà altro che far crescere a dismisura il dispiacere di Goljadkin fino a sfociare nel dramma: una moltiplicazione incontrollata di sosia, come se la coscienza del protagonista alzasse bandiera bianca prima di esplodere frammentandosi in milioni di pezzi.

sabato 8 marzo 2014

Se potessi vivere di nuovo la mia vita



Se potessi vivere di nuovo la mia vita. 
Nella prossima cercherei di commettere più errori. 
Non cercherei di essere così perfetto, mi rilasserei di più. 
Sarei più sciocco di quanto non lo sia già stato, 
di fatto prenderei ben poche cose sul serio. 
Sarei meno igienico. 

Correrei più rischi, 
farei più viaggi, 
contemplerei più tramonti, 
salirei più montagne, 
nuoterei in più fiumi. 

Andrei in più luoghi dove mai sono stato, 
mangerei più gelati e meno fave, 
avrei più problemi reali, e meno problemi immaginari. 

Io fui uno di quelli che vissero ogni minuto 
della loro vita sensati e con profitto; 
certo che mi sono preso qualche momento di allegria. 

Ma se potessi tornare indietro, cercherei 
di avere soltanto momenti buoni. 
Chè, se non lo sapete, di questo è fatta la vita, 
di momenti: non perdere l'adesso. 

Io ero uno di quelli che mai 
andavano da nessuna parte senza un termometro, 
una borsa dell'acqua calda, 
un ombrello e un paracadute; 
se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero. 

Se potessi tornare a vivere 
comincerei ad andare scalzo all'inizio 
della primavera 
e resterei scalzo fino alla fine dell'autunno. 

Farei più giri in calesse, 
guarderei più albe, 
e giocherei con più bambini, 
se mi trovassi di nuovo la vita davanti. 

Ma vedete, ho 85 anni 
e so che sto morendo.

[Jorge Luis Borges]

domenica 2 marzo 2014

Cercando di dare un senso alle cose


[...] la nostra epoca scoppia di dinamismo. Non vuole saperne di pensieri, chiede soltanto azioni. Questa terribile energia proviene unicamente dal fatto che non si ha nulla da fare. Internamente, voglio dire. Ma infine anche esternamente ciascuno ripete per tutta la vita la stessa identica azione: entra in un’attività professionale e seguita per quella via. 
È così facile avere attività e così difficile cercare un senso alla propria attività! 

[...] si vive divisi, e con parti intrecciate ad altre persone; ciò che si sogna è connesso col sognare e con quello che sognano gli altri; le nostre azioni sono interdipendenti ma ancor più dipendenti dalle azioni degli altri; e ciò di cui siamo convinti è in correlazione con altre convinzioni che noi solo in minima parte condividiamo: voler agire nella propria piena realtà è dunque una pretesa sommamente irreale.

[Robert Musil: "L'uomo senza qualità"]