domenica 24 maggio 2009

di una strana discussione ascoltata in un bar del centro (Incipit)

Prendete una cartina geografica dell’Europa, armatevi di penna e righello e collegate con un tratto di biro Atene a Copenaghen. A questo punto congiungete la capitale greca e quella danese a Cabo S. Vicente, la punta più meridionale del Portogallo. Avrete ottenuto un bel triangolo, le cui bisettrici, centimetro più centimetro meno si incontreranno all’altezza della città ligure della Spezia.
La Spezia non è uno di quei posti dove si arriva per caso, chi va lì lo fa perché decide di andarvi. Certi (pochi) ci possono finire per motivi di lavoro, i più perché attratti dai panorami delle Cinque Terre, di Lerici o Portovenere; ecco, io invece alla Spezia ci sono andato per curiosità, per capire se ci fosse un senso nelle cose, per vedere che razza di posto fosse quello che il fato o chi per lui si era divertito a porre al centro di quello che chiamo Il Mio Triangolo Magico, quello formato dalle due città in cui sono cresciuto (Atene e Copenaghen, appunto) ed il luogo per me più carico di pathos: Cabo S. Vicente, la porta dell’Europa.
Capita così che in un sabato qualunque mi trovi seduto in uno dei tanti bar che stanno dietro alla passeggiata a mare, ad oziare leggendo il giornale, una di quelle mattine che si trascinano con l’indolenza delle stagioni di passaggio, quando non è più estate ma non ancora autunno, e mi trovi ad assistere ad una delle più assurde conversazioni che io ricordi. E’ un amico italiano a spiegarmi il motivo dell’animazione che sta prendendo forma al tavolino a fianco del nostro.
- E’ cominciato tutto quindici giorni fa, - mi dice - quando qualcuno ha letto sul giornale che il Don Chisciotte era stato giudicato da non so quale giuria internazionale il libro più bello di tutti i tempi. Sai come vanno queste cose, uno dice una cosa, un altro risponde con una battuta e via così. In sostanza sembra che i protagonisti del contenzioso siano quei due signori che vedi seduti uno in fronte all’altro. Quello più giovane con gli occhiali tondi ed un filo di barba è quello che sostiene la grandezza del romanzo di Cervantes mentre l’altro, quel signore dai capelli bianchi e dalla voce baritonale non sembra dello stesso avviso. Fin qui niente di strano, - spiega il mio amico - ad ogni latitudine il bar è da sempre luogo di discussioni anche accese (anche se raramente di argomento letterario) il punto è che sembra che durante la conversazione di due settimane fa il signore meno giovane si sia lasciato un po’ prendere la mano, dicendo qualcosa che forse avrebbe fatto meglio a non dire, qualcosa a proposito del fatto che lui insegnava lettere al Liceo Classico da più di vent’anni ed aveva certo più autorità per discutere di un argomento del genere di quanta ne avesse il suo interlocutore, geometra comunale. Ovvio che il giovanotto non potesse lasciar correre e replicasse per le rime. In breve: la discussione si era spostata sul personale. Ad aggiungere ancora un po’ di pepe alla cosa, sembra che qualcuno avesse pensato bene di coinvolgere un avvocato lì presente, più noto come habitué dei bar del centro che del foro spezzino, il quale, tanto per fare il brillante e darsi un po’ di tono, avrebbe invitato i due a rinfoderare gli artigli e prepararsi argomenti validi per una pubblica discussione che avrebbe dovuto aver luogo esattamente due settimane dopo, naturalmente al suo cospetto di giudice imparziale.
Ed eccoci allora seduti ad un tavolino di un anonimo bar della Spezia sotto un pallido sole del mezzogiorno settembrino, pronti ad assistere ad un’insolita contesa sulla rilevanza o meno del Don Chisciotte nella storia della letteratura di tutti i tempi. Quella che segue è la descrizione quasi fedele di come si sono svolti i fatti, non tanto perché io sia dotato di una memoria prodigiosa, ma perché la straordinarietà della situazione mi suggerì di mettere in funzione il piccolo registratore che mi accompagna nei miei viaggi. Sì, lo so che non sta bene registrare la gente a sua insaputa, ma converrete che il mio è stato un peccato veniale: troppo ghiotta era la situazione perché uno curioso come me potesse lasciar perdere…
[Lars W. Vencelowe: "di una strana discussione ascoltata in un bar del centro"]

sabato 23 maggio 2009

L'onda


blandisce

(forse) lenisce

poi scivola lieve

lascia una scia


esce di scena

[Lars W. Vencelowe: "Assonanze"]

lunedì 18 maggio 2009

domenica 17 maggio 2009

Conclusione quasi al limite della salita

- Signore, deve tornare a valle.
Lei cerca davanti a sè
ciò che ha lasciato alle spalle.

[G. Caproni: "Il franco cacciatore"]

sabato 16 maggio 2009

Ci sono tre maniere di vedere le cose. L’una e la più beata, di quelli per li quali esse hanno anche più spirito che corpo, e voglio dire degli uomini di genio e sensibili, ai quali non c’è cosa che non parli all’immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll’infinito e coll’uomo, e una vita indefinibile e vaga, in somma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell’animo loro. L’altra e la più comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito, e voglio dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell’immaginazione e del sentimento, e non riguardo a tutto il resto, p.e. alla scienza, alla politica ec. ec.) che senza essere sublimati da nessuna cosa, trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono, e sono stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano. Questa è la maniera naturale, e la più durevolmente felice, che senza condurre a nessuna grandezza, e senza dar gran risalto al sentimento dell’esistenza, riempie però la vita, di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e uniforme, e conduce per una strada piana e in relazione colle circostanze dalla nascita al sepolcro. La terza e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno nè spirito nè corpo, ma son tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento che dopo l’esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita. E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell’uso intero della ragione. Perchè chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacchè volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai come si dice volgarmente con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia.
[G. Leopardi: "Zibaldone"]

domenica 10 maggio 2009

In altre faccende affacendato




Respiro

Quando li vedi
di' loro che io ci sono ancora,
che mi reggo su una gamba mentre l'altra sogna,
che solo così si può fare,

che le bugie che dico loro sono diverse
da quelle che dico a me stesso,
che con lo stare sia qui che oltre
mi sto facendo orizzonte,

che come il sole si leva e cala io conosco il mio posto,
che è il respiro a salvarmi, che persino le sillabe forzate del declino sono respiro,
che se il corpo è bara è anche madia di respiro,

che il respiro è uno specchio offuscato da parole,
che solo il respiro sopravvive al grido d'aiuto
quando penetra l'orecchio dell'estraneo
e permane ben oltre la scomparsa della parola,

che il respiro è di nuovo l'inizio, che da esso
si stacca ogni resistenza, come il significato si stacca
dalla vita, o il buio si stacca dalla luce,
che il respiro è ciò che do a loro quando mando saluti affettuosi.

[Mark Strand: "Il futuro non è più quello di una volta"]

sabato 9 maggio 2009

Davanti al mare, ancora.

Succede che un giorno alzi gli occhi e ti ritrovi davanti, ancora, il mare.
Sei dubbioso, non sai se succederà anche questa volta, se riuscirai a provare di nuovo quella sensazione che per quanto ti sforzi non riesci a dire. E' come quando assisti ad un gioco di prestigio che hai già visto mille e mille volte e del quale credi di aver capito il trucco.
E invece no. Invece accade di nuovo. Come sempre.
Succede che ti senti capito, senza doverti sforzare di spiegarti. E' una conversazione diversa dalle altre, che segue un canale sotterraneo, privato.
E' un misto di star bene e di star male, che è entrambe le cose e nessuna delle due.
E' un sentirsi alla stesso tempo protetto e compreso nel profondo ma anche lontano, troppo lontano da chiunque, troppo solo nel tuo sentire.
Un sentire che è dolce ed amaro insieme, che solo chi l'ha provato può comprendere e che solo chi l'ha provato è condannato a cercare per sempre.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]