Cinque
racconti nei quali troviamo alcune delle tematiche della produzione
cartarescuana che saranno poi abbondantemente riprese e sviluppate
nella trilogia di Abbacinante:
il dualismo sogno/realtà, la solitudine, le ossessioni, il rifugio
nella scrittura come strumento di difesa nei confronti del mondo, il
viaggio verso l’assoluto e la ricerca di una “porta” che
permetta di entrare e uscire a piacimento dal reale.
Il primo
racconto, l’uomo della roulette,
è una storia borgesiana nella quale la letteratura è utilizzata
come “cavallo di Troia” per passare dalla realtà al sogno, la
dimensione che l’autore predilige, il luogo dove l’impossibile
diventa possibile e i personaggi non muoiono mai.
Nel secondo,
il Mendebile, si parla
di un ragazzino diverso da tutti gli altri (Mendebilul in rumeno è
lo psicolabile, il debole di mente, ma anche l’escluso), un bambino
dalla personalità magnetica in grado di conquistare gli altri
mostrando loro le potenzialità della parola e della fantasia
sull’azione. Il Mendebile è un suscitatore di sogni, una specie di
illusionista in grado di mostrare punti di vista diversi da quelli
considerati fino a quel momento, una specie di Prometeo che affascina
e seduce gli altri fino a quando riesce a cavalcare il potere
eversivo della parola, ma destinato a veder concludere la parabola
del suo successo quando mostrerà di non essere immune al fascino di
emozioni e passioni proprio come tutti.
I gemelli
è il racconto di un rapporto a due che non riesce ad evolvere, un
tira e molla continuo che attraversa il confine tra fisiologico e
patologico trasformandosi in ossessione,. L’amore – dice l’autore
– è al tempo stesso qualcosa di naturale e di inspiegabile e le
dinamiche che scaturiscono da questa contraddizione sono al centro
dell’indagine di Cărtărescu che viviseziona i sentimenti e i
comportamenti del protagonista della storia come un pezzo anatomico
passato al microscopio. Come proteggersi da una realtà che ci chiama
con canto di sirena per farci cadere tra le sue spire? Smettendo di
guardare la nostra immagine riflessa nello specchio (ancora Borges):
l’unica maniera che abbiamo di sfuggire alle seduzioni del mondo
materiale è quella di evitare di guardarlo, per non finire
irrimediabilmente risucchiati al suo interno. Se non guardare il
mondo è un modo per proteggere il nostro corpo, scrivere è la
risposta che Cărtărescu propone per difendere la nostra mente,
consapevole però che quella che sceglie di combattere è una lotta
impari destinata alla sconfitta: il destino dell’uomo è quello di
precipitare nel gorgo del mondo e ogni passo che egli compie per
tirarsi fuori dalle sabbie mobili della realtà finisce per farlo
scivolare ancora un po’ di più verso il fondo.
REM
è una storia che definirei murakamiana con echi kafkiani (il punto
di vista del narratore è quello di un insetto), una specie di
cammino iniziatico verso il REM, origine e spiegazione di ogni cosa,
l’uscita e l’ingresso, l’inizio e la fine. Una storia
stranissima, che fa da contenitore e contenuto e che si avvita su se
stessa con la forza di un vortice marino che ci attrae trascinandoci
al suo interno.
Il tema
delle ossessioni ritorna prepotente nell’architetto,
l’ultimo racconto della raccolta, nel quale, appunto, un architetto
attribuisce al clacson della sua automobile un significato che
travalica quello consueto, stabilendo che sia lo strumento che essa
utilizza per esprimere se stessa, per comunicare con l’esterno. Di
qui una serie di conseguenze immaginifiche fino a un’antropizzazione
dell’auto o a un’”oggetivizzazione” dell’uomo, al punto che
i due diventano qualcosa di simbiotico, un unicum che pian piano
perde in contatto con la realtà assurgendo a qualcosa di superiore,
mistico, una specie di buco nero che finisce per inglobare tutto
quello che incontra.
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