sabato 12 gennaio 2013

un giorno e non finì la frase. Capitolo terzo.


Capitolo terzo

Della cena a bordo dell’Highland Monarch e di altri fatti importanti per il resto della storia

L’abitudine è una compagna di viaggio rassicurante, a volte anche piacevole, ma amica stretta della noia e che con l’andar del tempo rende molli e poco propensi ai cambiamenti. E’ così comodo sguazzare nelle acque basse delle nostre vite tranquille, che non appena ci avventuriamo al di fuori della quotidianità ci prende la paura di non saper più nuotare, di non riuscire a stare a galla in un mare di emozioni alle quali non siamo avvezzi. E’ sufficiente una cosa da niente come una partenza per nave a dar di conto di quanto affermiamo ed a mettere a nudo la nostra incapacità a far fronte al nuovo che ci si mostra. Ci sembra che succeda tutto troppo rapidamente perché si riesca a stargli dietro, questo è il fatto. Anche la ragione, il nuovo dio di questa strana epoca, nel nome del quale abbiamo ripudiato cosmogonie millenarie sperando che potesse essere così forte da aiutarci a vincere ogni dubbio, mostra la corda ed avrebbe bisogno di un po’ più di tempo per riprendere in mano la situazione. Ma il tempo non è a nostra disposizione, pronto ad allungarsi od accorciarsi a seconda dei nostri bisogni, certo sarebbe bello viaggiare con un interruttore in tasca che ci permettesse di fermare l’attimo a nostro piacere, quando siamo in difficoltà, quando abbiamo bisogno di capire quello che sta accadendo, oppure solo quando vogliamo goderci più a lungo un certo momento, sarebbe bello ma non è così, e lo sanno bene le forze più primitive del nostro animo, quegli istinti vitali che normalmente vivono segregati nelle stanze più buie dello spirito, che non conoscendo le mollezze dell’abitudine sono lesti ad approfittare del momentaneo empasse della ragione per saltare fuori e guardare in faccia la luce del sole. E noi, che dovremmo gioire perché finalmente c’è data l’opportunità di vedere all’opera la parte nascosta della nostra anima, siamo invece confusi, così poco abituati a lasciare che le emozioni si esprimano, che invece di abbandonarci ad esse ne temiamo le conseguenze e ricorriamo ad una forma di difesa un po’ vigliacca, quella di immaginare che sia tutto un sogno e la vita che stiamo vivendo non sia la nostra ma quella di qualcun altro.
Capita così che solo adesso che si sta avviando verso il salone dove dovrà essere servita la cena, la ragazza dal collo lungo e sottile sembra aprire gli occhi su quello che sta accadendo. Sono passate quasi otto ore dall’imbarco, ed è come se questo tempo lei l’avesse trascorso seduta su di una poltrona del cinematografo a guardare un film che parlava di lei. Un film dove ha visto i volti delle persone accalcate sul molo di Alçantara farsi sempre più piccoli sino a sparire e lo stesso è successo poi per i palazzi di Lisbona e per le coste lusitane, sino a quando non si è trovata circondata unicamente dall’azzurro del mare. E’ probabile che a questo punto qualcuno del personale di bordo deve averla accompagnata nella sua cabina, dove crediamo che avrà disfatto le valigie per poi buttarsi sul letto bella e vestita, vinta dalla stanchezza. Immaginiamo che avrà dormito almeno due o tre ore e poi si sarà alzata e si sarà cambiata d’abito per prepararsi per la cena, il tutto quasi con indifferenza, con l’apparente tranquillità di chi sta giocando a nascondino con la vita, fingendo appunto di vivere in un sogno. Ma come dicevamo l’appuntamento con la realtà può essere rinviato per un po’ di tempo ma non in eterno, per cui diamo il buongiorno alla signorina dal collo sottile che si sta lentamente svegliando e sta prendendo coscienza che questo è il primo viaggio per mare della sua esistenza e che si trova ad affrontarlo da sola, così come da sola, o con parenti che conosce appena, si ritroverà in Brasile. Quello che è accaduto a lei è in fondo storia di molti, una vita trascorsa fino a ieri all’ombra rassicurante della protezione paterna, e che sembrava destinata a proseguire così chissà per quanto tempo ancora, poi un bel giorno era successo in un attimo quello che non avevano fatto tanti anni e lo scenario era mutato con la rapidità con cui cambia la quinta di un teatro. Se ci pensa le manca la terra da sotto i piedi, se ci pensa rivive la stessa sensazione di incredulità e di impotenza di allora, si sente di nuovo come un ramoscello in balia della corrente, che sbatte contro le rocce che affiorano qua e là rallentando ma non arrestando la sua corsa verso l’ignoto. Non aveva avuto voce in capitolo, non aveva potuto opporsi alla volontà del padre, lui l’aveva guardata negli occhi, come faceva raramente, e lei aveva subito capito che il momento era grave e che qualche decisione che la riguardava era stata presa. Glielo aveva comunicato nella maniera migliore possibile, che quando era il momento le parole le sapeva scegliere bene, le aveva detto che lo faceva per lei, che lui voleva il meglio per sua figlia e non si sarebbe dato pace fino a quando non le avesse tentate tutte per farla guarire. Guarire. Certo, questo lei lo capiva benissimo, comprendeva che quello del padre era un gesto d’amore, quello che non capiva era perché non glielo aveva chiesto, perché prima non era stata interpellata. L’aveva messa davanti ad una decisione già presa come se lei non c’entrasse niente, come se lei fosse solo un oggetto a cui lui teneva moltissimo e non una persona. Le cose erano successe un po’ troppo velocemente per non pensare che, forse, magari, in fondo in fondo, l’idea di mandarla in Brasile poteva nascondere anche il desiderio di allontanarla da Coimbra. Mica per sempre, solo per un breve periodo s’intende, che nessuno qui vuole insinuare il dubbio che un uomo così conosciuto e benvoluto come il dottor Sampaio sia in realtà un padre snaturato. Che sofferenza deve essere stata, pover’uomo, trovarsi da solo a prendere una decisione così difficile, senza avere qualcuno con cui dividere un peso così oneroso. Oddio, pensa la ragazza, magari è possibile che proprio da solo non sia stato, che con qualcuno si sia anche confidato, può darsi che un aiuto nell’orientare i suoi pensieri glielo abbia dato la signora Simões, la donna che poco fa era con lui sul molo di Alçantara. Sì, non può essere altrimenti, più ci pensa e più si convince che dietro la decisione di spedirla in Brasile ci sia la mano piccola, tozza, sudaticcia e molto poco caritatevole della signora Simões. Maria Madalena Simões, ripete dentro di se scandendo bene le parole, com’è che dicevano i latini, nomen omen, e loro di queste cose se ne intendevano.
C’è silenzio lungo il corridoio delle cabine, troppo silenzio, se c’è consentito accostare il termine troppo alla parola silenzio, che notoriamente o c’è o non c’è, non ci risulta che sia ancora quantificabile in poco, abbastanza o molto, ma cosa detta capo ha, e quello che volevamo intendere è che è strano che di tutte le persone che sono salite questa mattina sull’Highland Monarch ora non se ne trovi neppure una disposta a farsi vedere o almeno sentire dalla ragazza dal collo lungo e sottile, qualcuno che le dica, Non ti preoccupare, non sei l’ultima, ci sono anch’io, non fosse altro per bloccare sul nascere le sue ansie. Saranno già tutti in sala da pranzo, è l’ovvia conclusione che la ragazza trae da quel silenzio e subito dopo averla pensata vorrebbe ricacciarla indietro con un moto di fastidio, che l’idea di essere l’ultima a presentarsi a tavola non la seduce per niente. Ma un pensiero non si può allontanare a piacimento e più si cerca di scacciarlo come se fosse una zanzara fastidiosa e più lui torna lì testardo come un mulo nel volerci dare fastidio ad ogni costo. Inutile cercare di ingannare se stessa ripetendosi che sicuramente ci sarà ancora qualcuno nelle cabine a cambiarsi d’abito, il passo veloce è la riprova che neppure lei crede a questa ipotesi ed a poco vale anche il gioco dei proverbi che la ragazza è solita tirare fuori in queste circostanze, tanto per buttarla sul ridere ed esorcizzare il pensiero che la preoccupa. Basta preoccuparsi, si dice rallentando bruscamente la sua corsetta, se arriverò in ritardo non sarà certo la fine del mondo, ciò che è fatto è fatto, ecco il primo proverbio che esce dalla sua testa. E poi a ruota, la fretta è cattiva consigliera, e fa più danno l’apprensione che il malanno. La soddisfazione per aver trovato un po’ di conforto nei detti popolari dura poco, che la zanzara è sempre lì, pronta a colpire, ed ecco che da qualche anfratto della sua memoria salta fuori un chi tardi arriva male alloggia che non ci voleva proprio. E’ solo la prima puntura che la seconda è già bella che confezionata, minore il tempo e maggiore è la fretta, e tanti saluti alla tranquillità che la ragazza cerca di conquistare. Tra un proverbio e l’altro, un po’ di fretta e un po’ frenando il passo, siamo arrivati nella hall centrale dell’Highland Monarch, dove è l’ingombrante pendola rococò che campeggia nell’angolo ad assumersi l’ingrato compito di fugare definitivamente gli ultimi dubbi. Sono le diciannove e cinquanta e lei è in ritardo, leggero ma pur sempre ritardo, per cui l’unica cosa che ora può fare è tirare un bel sospiro, ignorare la vocina di dentro che le sussurra un ultimo detto, chi va piano va sano e va lontano, e cercare di contenere almeno questo ritardo entro i termini della decenza, accelerando quindi il passo, che di allungare la falcata proprio non possiamo chiederglielo, fasciata com’è in un tubino di raso nero che impaccia non poco il movimento di quelle graziose gambe. La vista del maître che l’attende sulla soglia del ristorante pone fine al tourbillon di pensieri che si fronteggiano nella testa della ragazza ed un’occhiata all’interno della sala è la medicina che cercava per placare le sue ansie, grazie a Dio la cena non è ancora iniziata ed il gran vociare che si sente testimonia che la gente pare più desiderosa di chiacchierare che di mangiare. Siamo troppo lontani dai due per udire la loro conversazione, ma immaginiamo di non andare tanto lontani dal vero se scriviamo che le parole che seguono dovranno essere quelle che si stanno scambiando, Buonasera signorina, sono il signor Burton, maître di bordo, vuole avere la cortesia di dirmi il suo nome che l’accompagno al tavolo che abbiamo riservato per lei, Buonasera signor Burton, sono la signorina Sampaio e mi scuso per il ritardo ma credo di essermi addormentata, Nessun ritardo signorina Sampaio, risponde lui con un sorriso aperto, la cena sarà servita solo tra alcuni minuti, mi segua, la prego. La gentilezza del maître è confortante, ma un senso di disagio sembra farsi nuovamente spazio nei pensieri della ragazza, mentre osserva come tutti sembrino così a loro agio mentre conversano come se fossero vecchi amici, come se avessero approfittato della sua assenza per fare conoscenza, Sarò l’unica in difficoltà, pensa seguendo il maître in un girotondo tra i tavoli, l’unica a dover rompere il ghiaccio, e chissà chi saranno i commensali che troverò al mio fianco, che i posti a tavola sono assegnati da qui all’America e le persone che siederanno vicino a me stasera sono quelle che mi ritroverò davanti tutti i giorni per quindici giorni. Eccoci arrivati signorina, dice il maître accompagnando la frase con un movimento del braccio un po’ troppo plateale, come se avesse da mostrarle chissà quali tesori, questo è il suo tavolo. La ragazza dal collo lungo e sottile ringrazia e rivolge un gesto del capo verso gli altri commensali che si alzano come esige il galateo, poi il maître sposta la sedia per invitare la giovane a sedere e dopo che la signorina Sampaio ha preso posto anche gli altri fanno lo stesso. Alla buon’ora, ci sia concesso dire una volta che il maître si è congedato, capiamo bene che convenevoli e formalità di rito facciano parte di un protocollo che non può essere ignorato, ma la curiosità fa parte della natura umana ed ora quello che a noi importa è sapere qualcosa di più sulle persone che siedono al tavolo con la ragazza dal collo lungo e sottile.
E’ il signore con barba e baffi neri ed incipiente calvizie che siede proprio in fronte alla signorina Sampaio ad accollarsi l’onere di rompere gli indugi, con il tono pacato ma fermo di chi è abituato a parlare in pubblico, Bene, ora che ci siamo tutti credo che si possa dare inizio alle presentazioni, mi chiamo Ramon Jimenez e questa è mia moglie Zenobia, dice stringendo con la sinistra la destra della signora che siede al suo fianco, sono scrittore, poeta dice qualcuno, ma questo poco importa, quello che importa è che siamo spagnoli ed andiamo in Sudamerica costretti da una guerra assurda e nefasta, una guerra che sta devastando i nostri corpi e le nostre coscienze, queste ultime parole pronunciate con maggior gravità, come se non avesse avuto in animo di dirle dal principio del suo discorso ma fossero saltate fuori da sole, che quando un pensiero martella con tanta forza la nostra testa è fatica vana cercare di tenerlo nascosto che prima o poi è destino che salti fuori, E io sono Alvaro de Campos, ingegnere navale, dice l’uomo in completo scuro che siede a fianco di Zenobia e che riconosciamo essere l’uomo con il monocolo che questa mattina osservava i nuovi arrivi da un tavolino del lido. La prontezza con la quale ha preso la parola è benedetta dagli altri commensali che si stavano chiedendo a chi sarebbe spettato ora presentarsi, se fosse giusto andare in ordine di posto, ed in questo caso se toccasse a chi sedeva alla destra o piuttosto a chi stava alla sinistra del signor Jimenez, o se si dovesse privilegiare il criterio dell’età ed allora sarebbe stato difficile capire chi era il meno giovane tra almeno due delle persone sedute a questo tavolo. Sono portoghese, continua l’ingegner de Campos, e vado in Brasile per via di certi affari, Alla ricerca di un amico, aggiunge subito dopo, un po’ di fretta e di malavoglia, che è evidente che avrebbe preferito limitarsi a nome, cognome e luogo di provenienza e questa cosa di dover mettere in piazza i motivi del viaggio iniziata dal signor Jimenez non gli piace per niente, ma, come si dice in questi casi, una volta che si è in ballo tanto vale ballare. Ora che l’ingegner de Campos ha terminato il suo intervento, non c’è più dubbio sul fatto che la presentazione dovrà proseguire seguendo l’ordine di posto e che quindi tocca proprio all’ultima arrivata dirci chi è. Il mio nome è Marcenda Sampaio, esordisce con voce leggera la ragazza dal collo lungo e sottile, sono portoghese di Coimbra e vado in Brasile per via di questa mia mano, dice prendendo con la destra la sinistra che fino ad ora aveva tenuto in grembo e posandola sulla tavola come un uccellino privo di vita, questa mia piccola mano che non sembra volerne sapere di andare d’accordo con il resto del corpo. Mio padre pensa, o meglio spera, che qualche medico di laggiù possa aiutarmi ed anch’io non voglio rassegnarmi a vederla dormire per il resto della mia vita. L’imbarazzo che queste parole hanno provocato tra le persone che siedono accanto alla signorina Sampaio è palpabile, e trovare qualcosa che aiuti a superare l’empasse sarebbe impresa improba anche per l’oratore più esperto, così che è una fortuna per tutti che ci sia una presentazione da portare a termine, ed il lettore converrà che non è buona educazione sottrarsi ad un obbligo come questo per soffermarsi sulla mano morta della signorina Sampaio. Qualcuno potrebbe obiettare che in una situazione come questa non è elegante fare come gli struzzi ed infilare la testa sotto la sabbia e che forse sarebbe più educato mostrarsi interessati alla storia della ragazza e domandarle qualcosa, od anche solo cercare di farle coraggio dicendole che sicuramente il suo caso troverà una soluzione felice, un’altra alternativa sarebbe di buttarla sul ridere che si sa che le risate hanno il pregio di stemperare le tensioni, oppure si potrebbe almeno cercare di minimizzare portando la discussione su altri temi. Quante possibilità che ci vengono in mente e quante altre ne potremmo individuare se solo sforzassimo il nostro ingegno, ma il problema è che nessuno saprebbe dire a priori quali avrebbero le maggiori possibilità di successo. Bisognerebbe conoscere meglio la signorina Sampaio ed anche le altre persone che siedono con lei per decidere una strategia ad hoc capace di rompere l’imbarazzo creato da quella povera mano, ma il fatto è che nessuno dei commensali conosce gli altri ed il rischio è che qualsiasi parola, anche se pronunciata con le migliori intenzioni, potrebbe finire con il peggiorare la situazione, così che alla fine del nostro ragionamento ci ritroviamo al punto di partenza. Magari potrebbe provarci l’ingegner de Campos a dire qualcosa, e nominiamo lui perché osservando meglio la signorina Sampaio si è reso conto che si tratta della stessa ragazza con tailleur scuro e cappello e guanti neri che stamattina aveva colpito la sua attenzione. Ora che ha saputo della sua disgrazia si è accorto che era proprio la mano morta il particolare che non riusciva a cogliere e non tanto la linea instabile, quasi insicura del suo corpo, dettaglio peraltro che ne aveva stimolato l’immaginazione fino a portarlo a speculare sullo sfumato dei dipinti di Leonardo. Ecco, proprio il richiamo alla Mona Lisa potrebbe essere un modo simpatico per intervenire, Lo sa che questa mattina ero seduto ad un tavolino e quando l’ho vista salire sulla nave mi ha fatto venire in mente la Gioconda, siamo certi che questa sarebbe una frase perfetta per stemperare l’imbarazzo, magari si trascinerebbe dietro anche altri commenti, Certo che a lei non scappano le belle ragazze, potrebbe osservare qualcun altro dei commensali e via dicendo. Ma non è così, e visto che nonostante abbia riconosciuto la signorina Sampaio, l’ingegner de Campos non sembra aver voglia di interrompere la scaletta delle presentazioni, non ci rimane altro da fare che rassegnarci e rivolgere il nostro sguardo sul signore robusto dalla testa rasata e dalla folta barba rossiccia che siede alla sinistra di Marcenda, aspettandoci da lui niente di più che una prosecuzione fedele della liturgia iniziata dal signor Jimenez, Mi chiamo Jusep Torres Campalans, dice con voce baritonale scandendo bene le parole, sono catalano ed ero pittore. Vado, anzi torno in Messico perché quella ormai è la mia casa. Jusep, ha detto proprio Jusep e non Josep, come sarebbe più giusto nella sua lingua, ha pensato l’ingegner de Campos, strano personaggio questo Campalans, che invece di correggere l’anomalia del suo nome o almeno minimizzarla, come farebbe la maggior parte della gente, la sottolinea tanto per chiarire che lui non è tipo dalle mezze misure, uno che accetterebbe di farsi chiamare Josè o simili, lui è Jusep e su questo non transige. Jusep Torres, interviene il signor Jimenez sistemando un punto interrogativo dopo il nome del signore dalla testa rasata, lei è veramente quel Jusep Torres amico di Picasso, aggiunge incredulo. Mi permetta allora di correggerla dicendo che lei non è un semplice pittore, lei è uno dei padri del cubismo, e credo di parlare anche a nome degli amici che siedono a questo tavolo se aggiungo che siamo tutti più che onorati di fare la sua conoscenza. Belle parole, non c’è che dire, utili se non altro ad evitare che questa, nata come una chiacchierata informale, diventi una specie di seduta psicoanalitica dove ognuno mette a nudo se stesso davanti agli altri, situazione quantomeno anomala visto che le sedute di gruppo non sono ancora state inventate, che sono di questi anni i primi studi di Freud e Jung su quello che chiamano l’inconscio. Belle parole, lo ripetiamo, ma nessuno ce ne voglia se osserviamo che se proprio il signor Jimenez aveva deciso di interrompere il giro di presentazione, sarebbe stato più proficuo che l’avesse fatto dopo le parole della signorina Sampaio, che intervenire a questo punto è forse fin troppo facile. Sia come sia, è meglio lasciar stare le questioni di merito ed accontentarci del risultato finale, quello che conta è che le regole del gioco sono state finalmente infrante e ciò vuol dire che ognuno può ora parlare di quello che vuole e se non vuole parlare può limitarsi ad osservare, come sta facendo la ragazza dal collo sottile che in questo esatto momento sta pensando che è proprio vero che l’abito non fa il monaco, che a giudicare dall’aspetto avrei detto che il signor Campalans fosse piuttosto un contadino che un artista, sarà perché una giacca di velluto a coste su un maglione di lana accollato non è proprio l’abbigliamento più indicato per una cena come questa, o forse per l’aspetto massiccio e per quelle mani grandi, smisurate, che si direbbero mani di un uomo abituato a lavorare la terra piuttosto che la tela. E’ di una pausa tra le parole di elogio del signor Jimenez e il tentativo di schermirsi del signor Campalans che approfitta l’ultimo commensale per declinare rapidamente le proprie generalità. Mi chiamo Lorenzo Lupi, sono un medico italiano e vado in Argentina per curare certi interessi di famiglia. Il tutto detto di getto e con voce incerta, un po’ perché lo spagnolo non è la sua lingua e molto per l’imbarazzo. Ecco fatto, via il dente via il dolore, una frase asciutta, che si era preparato mentalmente mentre ascoltava le presentazioni degli altri e dalla quale aveva limato avverbi ed aggettivi inutili fino renderla stringata al massimo, in modo da spegnere il prima possibile i riflettori accesi sua persona. In una bocca chiusa non entrano mosche, dicono gli spagnoli, ed anche se il nostro dottore spagnolo non è, della gente iberica mostra di conoscerne ed apprezzarne almeno i proverbi, che quanto a conoscere ed apprezzare anche altro per ora non è dato sapere, possiamo solo confidare che su questo argomento forse sarà più chiaro il tempo. Obiettivo parzialmente riuscito, abbiamo detto, anche grazie all’aiuto non preventivato dei camerieri che hanno scelto proprio questo istante per iniziare a servire gli antipasti, così che l’attenzione e le chiacchiere dei commensali sembrano catturate dal presunto, prosciutto affumicato aromatizzato con paprica ed aglio che si accompagna con le olive nere ed una fetta di broa de milhos, o pane di miglio per chi non mastica il portoghese, piatto semplice ma gustoso che ci fa capire come questa sera si cenerà alla lusitana, in onore della città che abbiamo appena lasciato. Attenzione però, che le parole hanno un loro peso e se abbiamo detto parzialmente riuscito invece di perfettamente riuscito è perché qualcuno che ha ascoltato con attenzione le parole del giovane dottore c’è ed è la signorina Sampaio. In fondo è anche logico, che il giovane dottore è l’unica delle persone sedute a tavola ad essere vicina a lei per età, e non è neppure un brutto ragazzo per giunta, ma c’è di più, che questi motivi non sarebbero da soli sufficienti per accendere l’attenzione della signorina, Sono un medico, ha detto lui, e questo ha rimandato la ragazza dal collo lungo e sottile al ricordo di un altro medico un po’ più anziano, conosciuto oltre un anno prima proprio a Lisbona, all’Hotel Bragança. Strano, di medici in questo anno ne ha visti altri, ed il pensiero non è mai tornato a Ricardo Reis, come mai succede ora. Difficile da dire, sarà il contesto particolare, la nave, la partenza per il Sudamerica, sarà che i ricordi vivono una vita autonoma nelle nostre teste e quando decidono di saltare fuori lo fanno senza chiedere il permesso a nessuno. Sia quel che sia Marcenda è stata così risucchiata dal flusso dei suoi pensieri da dimenticarsi completamente dei suoi compagni di cena, ed è un peccato che si sia persa l’inizio della conversazione tra Alvaro de Campos e Ramon Jimenez, se non altro perché si sarebbe evitata di sobbalzare sulla sedia all’udire il signore con il monocolo fare il nome di Ricardo Reis, il medico a cui stava proprio pensando. Per fortuna noi non siamo la signorina Sampaio ed abbiamo ascoltato il dialogo tra i due signori sin dall’inizio così che possiamo qui riportare integralmente le loro parole a vantaggio del lettore. E’ stato come al solito il signor Jimenez a stimolare il discorso, buttando lì un’osservazione che aveva già da un po’ in animo di fare, esattamente da quando l’uomo con il monocolo aveva declinato le proprie generalità. E’ successo mentre stavano per attaccare il caldo verde, la minestra brodosa con cavoli, salsiccia di maiale, aglio e peperoni rossi, tipica di questi luoghi, che si è rivolto all’uomo con il monocolo dicendo che non credeva che esistesse un ingegner Alvaro de Campos in carne ed ossa, Voglio dire, ha spiegato, che pensavo che il suo fosse uno dei tanti eteronomi sotto i quali si è sempre nascosto quello stravagante di Ferdinando Pessoa, oltre al suo mi sembra di ricordare anche i nomi di Alberto Caeiro e di Ricardo Reis. Proprio così, proprio Ricardo Reis ha detto, proprio questo nome tra tanti, ed è a questo punto che l’attenzione della signorina Sampaio ha avuto un brusco risveglio. Esatto, ha risposto Alvaro de Campos, colto con il cucchiaio fumante in mano, ricorda benissimo, ma come vede io esisto, anche se non più come scrittore, ma solo come ingegnere. E come me esistono o esistevano anche le altre persone che ha nominato, Posso chiederle come mai ha scelto di non esistere più come scrittore, visto che è chiaro che di una sua scelta si tratta, insiste Jimenez, perdoni l’impertinenza della mia domanda, ma la sua scelta mi risulta difficile da comprendere, dato che lei e quelli del suo gruppo siete piuttosto famosi in Portogallo, Non so se siamo più o meno famosi, risponde l’uomo con il monocolo, con un sorriso accennato, come a dire di non preoccuparsi, che non ravvisa alcuna impertinenza nelle parole del suo interlocutore ma solo legittima curiosità, il fatto è che da quando anche Fernando Pessoa se n’è andato, quasi due anni fa, tutto è cambiato. E’ una specie di accordo che avevamo preso fra di noi alla morte di Alberto Caeiro, ci eravamo guardati in faccia e ci eravamo ripromessi che il giorno in cui fosse toccato a qualcun altro del gruppo di lasciare la compagnia, nessuno avrebbe più scritto una sola riga, una decisione presa di getto ma condivisa da tutti, anche se non aveva dietro nessuna motivazione particolare. Mentre si svolgeva questa breve conversazione nell’animo della signorina Sampaio si stava combattendo una vera e propria battaglia tra la parte che sosteneva che non stesse bene intervenire chiedendo notizie del dottor Reis, che gli altri commensali avrebbero potuto farsi di lei chissà quale idea, e la parte più curiosa che fremeva dalla voglia di saperne di più e che pensava che in fondo non c’era niente di male ad introdurre l’argomento. La curiosità è femmina dice un detto comune, difficile da smentire soprattutto ora che la ragazza sembra aver vinto ogni remora e si sta preparando a chiedere informazioni sulla persona che le sta a cuore, Che strana coincidenza, ho conosciuto un dottor Ricardo Reis, medico generico che proveniva dal Brasile giusto quasi due anni fa proprio qui a Lisbona, e mi chiedevo se potesse avere qualcosa a che fare con il Ricardo Reis di cui parla lei. E’ molto probabile, per non dire sicuro, che il mio amico sia la stessa persona che lei ha conosciuto, risponde cortesemente l’ingegner de Campos, dato che in quel periodo si trovava a Lisbona per i funerali di Pessoa. Ricordo di avergli spedito un telegramma per avvisarlo del fatto e poi di essere ripartito per Glasgow, da allora non l’ho più sentito, aggiunge pensieroso, quasi a cercare dentro di sé un motivo valido che possa giustificare una così lunga mancanza di contatti, Ed anche il dottor Reis ha fatto come lei e non ha più scritto nulla da allora, chiede Marcenda, Strana domanda signorina, risponde l’ingegner de Campos, credo di no, credo che anche lui abbia mantenuto fede alla nostra promessa, anche se come le ho detto non posso esserne certo perché sono anni che non ho sue notizie. Strana domanda, ha osservato l’uomo con il monocolo ed in effetti verrebbe da chiedersi cosa possa importare alla signorina Sampaio se il dottor Ricardo Reis ha scritto altre odi oltre alle pubblicate, dato che anche di queste poche lei non ha mai saputo nulla. In realtà la domanda non è per nulla strana, almeno per noi che sappiamo che in questo momento la ragazza dal collo lungo e sottile sta pensando ad una cartolina speditale dal dottor Reis e finita ora chissà dove. Nostalgia già di questa nostra età era l’inizio di quella che doveva essere una poesia dedicata a lei, con buona pace dell’ingegner de Campos che non crede che il suo amico abbia più scritto nulla, E’ buffo, prosegue l’ingegnere, ora che mi ci fa pensare credo che in casa di Pessoa ci siano almeno un paio di casse piene di poesie ed altra roba che abbiamo scritto in questi anni. Tutto materiale inedito, che quello che abbiamo pubblicato è solo una piccola parte, E come mai aveva tutto Pessoa, interviene la signora Zenobia, che fino a questo punto non aveva ancora parlato, Perché noi avremmo buttato via tutto, io e Ricardo Reis non eravamo mai contenti di quello che scrivevamo, riempivamo il foglio di cancellazioni fino a renderlo illeggibile, Fernando era quello più meticoloso del gruppo, era un po’ la nostra memoria, quello che si occupava di archiviare i nostri lavori. Ve l’ho detto, eravamo una specie di club, dove ognuno di noi aveva debiti di riconoscenza, letterariamente parlando, nei confronti degli altri, ci criticavamo ma anche ci influenzavamo a vicenda, bisticciavamo e poi tornavamo amici ogni volta. E’ difficile spiegarlo a chi ne è fuori ma è come se fossimo stati legati da un filo, tante perline colorate, tutte diverse per forma, colore, dimensioni, ma tutte grani dello stesso rosario, se mi è permesso un paragone un po’ blasfemo che forse con il rosario non avevamo molto a che fare, E non ha mai pensato a pubblicare il contenuto di quei bauli, insiste Zenobia, o almeno a recuperarlo, non teme che possa finire in mani sbagliate o peggio ancora andare smarrito, Le dirò signora, in tutta franchezza non ho mai pensato a tornare in possesso di quelle carte, e quanto alla possibilità di pubblicarle, dubito fortemente che possano interessare a qualcuno, Non vorrei mettere in dubbio le sue parole, interviene Jimenez, ma mi risulta difficile credere che uno scrittore non provi attaccamento verso le sue opere, ci pensi bene caro amico e valuti meglio la cosa, in fondo lei ha oggi l’opportunità di mostrarsi ai lettori per quello che è e non per il gruppo nel quale si è sempre identificato, Non avevo mai pensato a quello che mi state dicendo, dice l’uomo con il monocolo, e devo dire che l’idea mi stuzzica, ma non nel senso in cui l’intendete voi. Voglio dire l’idea di non esistere, l’idea che un giorno saltino fuori da quelle casse le nostre scartoffie e che qualcuno possa interpretarle come opera di Pessoa e noi, intendo io, Ricardo Reis ed Albero Caeiro come pseudonimi scelti da Fernando, come se non fossimo mai vissuti, Magari lo penseranno anche di me, osserva Jusep Torres Campalans, a ben pensarci la mia situazione ha parecchie analogie con la sua, sono solo, non ho famiglia né radici, solo pochi, pochissimi quadri che non so neppure che fine abbiano fatto, magari un giorno ci sarà qualcuno che dirà che non sono mai esistito, e la cosa in fondo non dispiace neppure a me. Fino ad ora il giovane dottore non ha ancora parlato, ad eccezione della brevissima presentazione a cui non ha potuto sottrarsi, e se è per questo non parlerà neppure adesso, ma a noi che abbiamo la possibilità di leggere nei pensieri di queste persone preme informare il lettore che anch’egli è della specie dei Campos e dei Campalans, di quelli cioè che amano l’anonimato, anche se non sappiamo quanto per scelta ragionata, quanto per timidezza e quanto per sfiducia nelle proprie capacità. Quello che sappiamo è che sta pensando a quanto gli piacerebbe sedere al tavolo a fianco per osservare queste persone senza dare nell’occhio, a quanto sarebbe interessante studiarne i visi, i gesti, senza sembrare curioso. Chi non è di questa specie è invece la signorina Sampaio, che però a differenza del giovane dottore non si vergogna a far conoscere a tutti il suo pensiero, Anche se questa mano mi ricorda che mi trascino dietro qualcosa di morto anch’io, dice, tuttavia credo di essere viva e un domani mi piacerebbe che ci fosse chi mi ricordi, Ma certo che è viva signorina, chiosa l’ingegner de Campos, ci mancherebbe che prendesse troppo sul serio i nostri ragionamenti, che noi stavamo solo scherzando, immaginando quanto a volte possa essere comodo l’anonimato, non si preoccupi, la prego, che per quanto possono valere le mie parole io le assicuro che lei è viva, vivissima, almeno né più né meno di quanto lo siamo noi.



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