Capitolo terzo
Della
cena a bordo dell’Highland Monarch e di altri fatti importanti per
il resto della storia
L’abitudine
è una compagna di viaggio rassicurante, a volte anche piacevole, ma
amica stretta della noia e che con l’andar del tempo rende molli e
poco propensi ai cambiamenti. E’ così comodo sguazzare nelle acque
basse delle nostre vite tranquille, che non appena ci avventuriamo al
di fuori della quotidianità ci prende la paura di non saper più
nuotare, di non riuscire a stare a galla in un mare di emozioni alle
quali non siamo avvezzi. E’ sufficiente una cosa da niente come una
partenza per nave a dar di conto di quanto affermiamo ed a mettere a
nudo la nostra incapacità a far fronte al nuovo che ci si mostra. Ci
sembra che succeda tutto troppo rapidamente perché si riesca a
stargli dietro, questo è il fatto. Anche la ragione, il nuovo dio di
questa strana epoca, nel nome del quale abbiamo ripudiato cosmogonie
millenarie sperando che potesse essere così forte da aiutarci a
vincere ogni dubbio, mostra la corda ed avrebbe bisogno di un po’
più di tempo per riprendere in mano la situazione. Ma il tempo non è
a nostra disposizione, pronto ad allungarsi od accorciarsi a seconda
dei nostri bisogni, certo sarebbe bello viaggiare con un interruttore
in tasca che ci permettesse di fermare l’attimo a nostro piacere,
quando siamo in difficoltà, quando abbiamo bisogno di capire quello
che sta accadendo, oppure solo quando vogliamo goderci più a lungo
un certo momento, sarebbe bello ma non è così, e lo sanno bene le
forze più primitive del nostro animo, quegli istinti vitali che
normalmente vivono segregati nelle stanze più buie dello spirito,
che non conoscendo le mollezze dell’abitudine sono lesti ad
approfittare del momentaneo empasse della ragione per saltare fuori e
guardare in faccia la luce del sole. E noi, che dovremmo gioire
perché finalmente c’è data l’opportunità di vedere all’opera
la parte nascosta della nostra anima, siamo invece confusi, così
poco abituati a lasciare che le emozioni si esprimano, che invece di
abbandonarci ad esse ne temiamo le conseguenze e ricorriamo ad una
forma di difesa un po’ vigliacca, quella di immaginare che sia
tutto un sogno e la vita che stiamo vivendo non sia la nostra ma
quella di qualcun altro.
Capita
così che solo adesso che si sta avviando verso il salone dove dovrà
essere servita la cena, la ragazza dal collo lungo e sottile sembra
aprire gli occhi su quello che sta accadendo. Sono passate quasi otto
ore dall’imbarco, ed è come se questo tempo lei l’avesse
trascorso seduta su di una poltrona del cinematografo a guardare un
film che parlava di lei. Un film dove ha visto i volti delle persone
accalcate sul molo di Alçantara farsi sempre più piccoli sino a
sparire e lo stesso è successo poi per i palazzi di Lisbona e per le
coste lusitane, sino a quando non si è trovata circondata unicamente
dall’azzurro del mare. E’ probabile che a questo punto qualcuno
del personale di bordo deve averla accompagnata nella sua cabina,
dove crediamo che avrà disfatto le valigie per poi buttarsi sul
letto bella e vestita, vinta dalla stanchezza. Immaginiamo che avrà
dormito almeno due o tre ore e poi si sarà alzata e si sarà
cambiata d’abito per prepararsi per la cena, il tutto quasi con
indifferenza, con l’apparente tranquillità di chi sta giocando a
nascondino con la vita, fingendo appunto di vivere in un sogno. Ma
come dicevamo l’appuntamento con la realtà può essere rinviato
per un po’ di tempo ma non in eterno, per cui diamo il buongiorno
alla signorina dal collo sottile che si sta lentamente svegliando e
sta prendendo coscienza che questo è il primo viaggio per mare della
sua esistenza e che si trova ad affrontarlo da sola, così come da
sola, o con parenti che conosce appena, si ritroverà in Brasile.
Quello che è accaduto a lei è in fondo storia di molti, una vita
trascorsa fino a ieri all’ombra rassicurante della protezione
paterna, e che sembrava destinata a proseguire così chissà per
quanto tempo ancora, poi un bel giorno era successo in un attimo
quello che non avevano fatto tanti anni e lo scenario era mutato con
la rapidità con cui cambia la quinta di un teatro. Se ci pensa le
manca la terra da sotto i piedi, se ci pensa rivive la stessa
sensazione di incredulità e di impotenza di allora, si sente di
nuovo come un ramoscello in balia della corrente, che sbatte contro
le rocce che affiorano qua e là rallentando ma non arrestando la sua
corsa verso l’ignoto. Non aveva avuto voce in capitolo, non aveva
potuto opporsi alla volontà del padre, lui l’aveva guardata negli
occhi, come faceva raramente, e lei aveva subito capito che il
momento era grave e che qualche decisione che la riguardava era stata
presa. Glielo aveva comunicato nella maniera migliore possibile, che
quando era il momento le parole le sapeva scegliere bene, le aveva
detto che lo faceva per lei, che lui voleva il meglio per sua figlia
e non si sarebbe dato pace fino a quando non le avesse tentate tutte
per farla guarire. Guarire. Certo, questo lei lo capiva benissimo,
comprendeva che quello del padre era un gesto d’amore, quello che
non capiva era perché non glielo aveva chiesto, perché prima non
era stata interpellata. L’aveva messa davanti ad una decisione già
presa come se lei non c’entrasse niente, come se lei fosse solo un
oggetto a cui lui teneva moltissimo e non una persona. Le cose erano
successe un po’ troppo velocemente per non pensare che, forse,
magari, in fondo in fondo, l’idea di mandarla in Brasile poteva
nascondere anche il desiderio di allontanarla da Coimbra. Mica per
sempre, solo per un breve periodo s’intende, che nessuno qui vuole
insinuare il dubbio che un uomo così conosciuto e benvoluto come il
dottor Sampaio sia in realtà un padre snaturato. Che sofferenza deve
essere stata, pover’uomo, trovarsi da solo a prendere una decisione
così difficile, senza avere qualcuno con cui dividere un peso così
oneroso. Oddio, pensa la ragazza, magari è possibile che proprio da
solo non sia stato, che con qualcuno si sia anche confidato, può
darsi che un aiuto nell’orientare i suoi pensieri glielo abbia dato
la signora Simões, la donna che poco fa era con lui sul molo di
Alçantara. Sì, non può essere altrimenti, più ci pensa e più si
convince che dietro la decisione di spedirla in Brasile ci sia la
mano piccola, tozza, sudaticcia e molto poco caritatevole della
signora Simões. Maria Madalena Simões, ripete dentro di se
scandendo bene le parole, com’è che dicevano i latini, nomen omen,
e loro di queste cose se ne intendevano.
C’è
silenzio lungo il corridoio delle cabine, troppo silenzio, se c’è
consentito accostare il termine troppo alla parola silenzio, che
notoriamente o c’è o non c’è, non ci risulta che sia ancora
quantificabile in poco, abbastanza o molto, ma cosa detta capo ha, e
quello che volevamo intendere è che è strano che di tutte le
persone che sono salite questa mattina sull’Highland Monarch ora
non se ne trovi neppure una disposta a farsi vedere o almeno sentire
dalla ragazza dal collo lungo e sottile, qualcuno che le dica, Non ti
preoccupare, non sei l’ultima, ci sono anch’io, non fosse altro
per bloccare sul nascere le sue ansie. Saranno già tutti in sala da
pranzo, è l’ovvia conclusione che la ragazza trae da quel silenzio
e subito dopo averla pensata vorrebbe ricacciarla indietro con un
moto di fastidio, che l’idea di essere l’ultima a presentarsi a
tavola non la seduce per niente. Ma un pensiero non si può
allontanare a piacimento e più si cerca di scacciarlo come se fosse
una zanzara fastidiosa e più lui torna lì testardo come un mulo nel
volerci dare fastidio ad ogni costo. Inutile cercare di ingannare se
stessa ripetendosi che sicuramente ci sarà ancora qualcuno nelle
cabine a cambiarsi d’abito, il passo veloce è la riprova che
neppure lei crede a questa ipotesi ed a poco vale anche il gioco dei
proverbi che la ragazza è solita tirare fuori in queste circostanze,
tanto per buttarla sul ridere ed esorcizzare il pensiero che la
preoccupa. Basta preoccuparsi, si dice rallentando bruscamente la sua
corsetta, se arriverò in ritardo non sarà certo la fine del mondo,
ciò che è fatto è fatto, ecco il primo proverbio che esce dalla
sua testa. E poi a ruota, la fretta è cattiva consigliera, e fa più
danno l’apprensione che il malanno. La soddisfazione per aver
trovato un po’ di conforto nei detti popolari dura poco, che la
zanzara è sempre lì, pronta a colpire, ed ecco che da qualche
anfratto della sua memoria salta fuori un chi tardi arriva male
alloggia che non ci voleva proprio. E’ solo la prima puntura che la
seconda è già bella che confezionata, minore il tempo e maggiore è
la fretta, e tanti saluti alla tranquillità che la ragazza cerca di
conquistare. Tra un proverbio e l’altro, un po’ di fretta e un
po’ frenando il passo, siamo arrivati nella hall centrale
dell’Highland Monarch, dove è l’ingombrante pendola rococò che
campeggia nell’angolo ad assumersi l’ingrato compito di fugare
definitivamente gli ultimi dubbi. Sono le diciannove e cinquanta e
lei è in ritardo, leggero ma pur sempre ritardo, per cui l’unica
cosa che ora può fare è tirare un bel sospiro, ignorare la vocina
di dentro che le sussurra un ultimo detto, chi va piano va sano e va
lontano, e cercare di contenere almeno questo ritardo entro i termini
della decenza, accelerando quindi il passo, che di allungare la
falcata proprio non possiamo chiederglielo, fasciata com’è in un
tubino di raso nero che impaccia non poco il movimento di quelle
graziose gambe. La vista del maître che l’attende sulla soglia del
ristorante pone fine al tourbillon di pensieri che si fronteggiano
nella testa della ragazza ed un’occhiata all’interno della sala è
la medicina che cercava per placare le sue ansie, grazie a Dio la
cena non è ancora iniziata ed il gran vociare che si sente
testimonia che la gente pare più desiderosa di chiacchierare che di
mangiare. Siamo troppo lontani dai due per udire la loro
conversazione, ma immaginiamo di non andare tanto lontani dal vero se
scriviamo che le parole che seguono dovranno essere quelle che si
stanno scambiando, Buonasera signorina, sono il signor Burton, maître
di bordo, vuole avere la cortesia di dirmi il suo nome che
l’accompagno al tavolo che abbiamo riservato per lei, Buonasera
signor Burton, sono la signorina Sampaio e mi scuso per il ritardo ma
credo di essermi addormentata, Nessun ritardo signorina Sampaio,
risponde lui con un sorriso aperto, la cena sarà servita solo tra
alcuni minuti, mi segua, la prego. La gentilezza del maître è
confortante, ma un senso di disagio sembra farsi nuovamente spazio
nei pensieri della ragazza, mentre osserva come tutti sembrino così
a loro agio mentre conversano come se fossero vecchi amici, come se
avessero approfittato della sua assenza per fare conoscenza, Sarò
l’unica in difficoltà, pensa seguendo il maître in un girotondo
tra i tavoli, l’unica a dover rompere il ghiaccio, e chissà chi
saranno i commensali che troverò al mio fianco, che i posti a tavola
sono assegnati da qui all’America e le persone che siederanno
vicino a me stasera sono quelle che mi ritroverò davanti tutti i
giorni per quindici giorni. Eccoci arrivati signorina, dice il maître
accompagnando la frase con un movimento del braccio un po’ troppo
plateale, come se avesse da mostrarle chissà quali tesori, questo è
il suo tavolo. La ragazza dal collo lungo e sottile ringrazia e
rivolge un gesto del capo verso gli altri commensali che si alzano
come esige il galateo, poi il maître sposta la sedia per invitare la
giovane a sedere e dopo che la signorina Sampaio ha preso posto anche
gli altri fanno lo stesso. Alla buon’ora, ci sia concesso dire una
volta che il maître si è congedato, capiamo bene che convenevoli e
formalità di rito facciano parte di un protocollo che non può
essere ignorato, ma la curiosità fa parte della natura umana ed ora
quello che a noi importa è sapere qualcosa di più sulle persone che
siedono al tavolo con la ragazza dal collo lungo e sottile.
E’
il signore con barba e baffi neri ed incipiente calvizie che siede
proprio in fronte alla signorina Sampaio ad accollarsi l’onere di
rompere gli indugi, con il tono pacato ma fermo di chi è abituato a
parlare in pubblico, Bene, ora che ci siamo tutti credo che si possa
dare inizio alle presentazioni, mi chiamo Ramon Jimenez e questa è
mia moglie Zenobia, dice stringendo con la sinistra la destra della
signora che siede al suo fianco, sono scrittore, poeta dice qualcuno,
ma questo poco importa, quello che importa è che siamo spagnoli ed
andiamo in Sudamerica costretti da una guerra assurda e nefasta, una
guerra che sta devastando i nostri corpi e le nostre coscienze,
queste ultime parole pronunciate con maggior gravità, come se non
avesse avuto in animo di dirle dal principio del suo discorso ma
fossero saltate fuori da sole, che quando un pensiero martella con
tanta forza la nostra testa è fatica vana cercare di tenerlo
nascosto che prima o poi è destino che salti fuori, E io sono Alvaro
de Campos, ingegnere navale, dice l’uomo in completo scuro che
siede a fianco di Zenobia e che riconosciamo essere l’uomo con il
monocolo che questa mattina osservava i nuovi arrivi da un tavolino
del lido. La prontezza con la quale ha preso la parola è benedetta
dagli altri commensali che si stavano chiedendo a chi sarebbe
spettato ora presentarsi, se fosse giusto andare in ordine di posto,
ed in questo caso se toccasse a chi sedeva alla destra o piuttosto a
chi stava alla sinistra del signor Jimenez, o se si dovesse
privilegiare il criterio dell’età ed allora sarebbe stato
difficile capire chi era il meno giovane tra almeno due delle persone
sedute a questo tavolo. Sono portoghese, continua l’ingegner de
Campos, e vado in Brasile per via di certi affari, Alla ricerca di un
amico, aggiunge subito dopo, un po’ di fretta e di malavoglia, che
è evidente che avrebbe preferito limitarsi a nome, cognome e luogo
di provenienza e questa cosa di dover mettere in piazza i motivi del
viaggio iniziata dal signor Jimenez non gli piace per niente, ma,
come si dice in questi casi, una volta che si è in ballo tanto vale
ballare. Ora che l’ingegner de Campos ha terminato il suo
intervento, non c’è più dubbio sul fatto che la presentazione
dovrà proseguire seguendo l’ordine di posto e che quindi tocca
proprio all’ultima arrivata dirci chi è. Il mio nome è Marcenda
Sampaio, esordisce con voce leggera la ragazza dal collo lungo e
sottile, sono portoghese di Coimbra e vado in Brasile per via di
questa mia mano, dice prendendo con la destra la sinistra che fino ad
ora aveva tenuto in grembo e posandola sulla tavola come un uccellino
privo di vita, questa mia piccola mano che non sembra volerne sapere
di andare d’accordo con il resto del corpo. Mio padre pensa, o
meglio spera, che qualche medico di laggiù possa aiutarmi ed anch’io
non voglio rassegnarmi a vederla dormire per il resto della mia vita.
L’imbarazzo che queste parole hanno provocato tra le persone che
siedono accanto alla signorina Sampaio è palpabile, e trovare
qualcosa che aiuti a superare l’empasse sarebbe impresa improba
anche per l’oratore più esperto, così che è una fortuna per
tutti che ci sia una presentazione da portare a termine, ed il
lettore converrà che non è buona educazione sottrarsi ad un obbligo
come questo per soffermarsi sulla mano morta della signorina Sampaio.
Qualcuno potrebbe obiettare che in una situazione come questa non è
elegante fare come gli struzzi ed infilare la testa sotto la sabbia e
che forse sarebbe più educato mostrarsi interessati alla storia
della ragazza e domandarle qualcosa, od anche solo cercare di farle
coraggio dicendole che sicuramente il suo caso troverà una soluzione
felice, un’altra alternativa sarebbe di buttarla sul ridere che si
sa che le risate hanno il pregio di stemperare le tensioni, oppure si
potrebbe almeno cercare di minimizzare portando la discussione su
altri temi. Quante possibilità che ci vengono in mente e quante
altre ne potremmo individuare se solo sforzassimo il nostro ingegno,
ma il problema è che nessuno saprebbe dire a priori quali avrebbero
le maggiori possibilità di successo. Bisognerebbe conoscere meglio
la signorina Sampaio ed anche le altre persone che siedono con lei
per decidere una strategia ad hoc capace di rompere l’imbarazzo
creato da quella povera mano, ma il fatto è che nessuno dei
commensali conosce gli altri ed il rischio è che qualsiasi parola,
anche se pronunciata con le migliori intenzioni, potrebbe finire con
il peggiorare la situazione, così che alla fine del nostro
ragionamento ci ritroviamo al punto di partenza. Magari potrebbe
provarci l’ingegner de Campos a dire qualcosa, e nominiamo lui
perché osservando meglio la signorina Sampaio si è reso conto che
si tratta della stessa ragazza con tailleur scuro e cappello e guanti
neri che stamattina aveva colpito la sua attenzione. Ora che ha
saputo della sua disgrazia si è accorto che era proprio la mano
morta il particolare che non riusciva a cogliere e non tanto la linea
instabile, quasi insicura del suo corpo, dettaglio peraltro che ne
aveva stimolato l’immaginazione fino a portarlo a speculare sullo
sfumato dei dipinti di Leonardo. Ecco, proprio il richiamo alla Mona
Lisa potrebbe essere un modo simpatico per intervenire, Lo sa che
questa mattina ero seduto ad un tavolino e quando l’ho vista salire
sulla nave mi ha fatto venire in mente la Gioconda, siamo certi che
questa sarebbe una frase perfetta per stemperare l’imbarazzo,
magari si trascinerebbe dietro anche altri commenti, Certo che a lei
non scappano le belle ragazze, potrebbe osservare qualcun altro dei
commensali e via dicendo. Ma non è così, e visto che nonostante
abbia riconosciuto la signorina Sampaio, l’ingegner de Campos non
sembra aver voglia di interrompere la scaletta delle presentazioni,
non ci rimane altro da fare che rassegnarci e rivolgere il nostro
sguardo sul signore robusto dalla testa rasata e dalla folta barba
rossiccia che siede alla sinistra di Marcenda, aspettandoci da lui
niente di più che una prosecuzione fedele della liturgia iniziata
dal signor Jimenez, Mi chiamo Jusep Torres Campalans, dice con voce
baritonale scandendo bene le parole, sono catalano ed ero pittore.
Vado, anzi torno in Messico perché quella ormai è la mia casa.
Jusep, ha detto proprio Jusep e non Josep, come sarebbe più giusto
nella sua lingua, ha pensato l’ingegner de Campos, strano
personaggio questo Campalans, che invece di correggere l’anomalia
del suo nome o almeno minimizzarla, come farebbe la maggior parte
della gente, la sottolinea tanto per chiarire che lui non è tipo
dalle mezze misure, uno che accetterebbe di farsi chiamare Josè o
simili, lui è Jusep e su questo non transige. Jusep Torres,
interviene il signor Jimenez sistemando un punto interrogativo dopo
il nome del signore dalla testa rasata, lei è veramente quel Jusep
Torres amico di Picasso, aggiunge incredulo. Mi permetta allora di
correggerla dicendo che lei non è un semplice pittore, lei è uno
dei padri del cubismo, e credo di parlare anche a nome degli amici
che siedono a questo tavolo se aggiungo che siamo tutti più che
onorati di fare la sua conoscenza. Belle parole, non c’è che dire,
utili se non altro ad evitare che questa, nata come una chiacchierata
informale, diventi una specie di seduta psicoanalitica dove ognuno
mette a nudo se stesso davanti agli altri, situazione quantomeno
anomala visto che le sedute di gruppo non sono ancora state
inventate, che sono di questi anni i primi studi di Freud e Jung su
quello che chiamano l’inconscio. Belle parole, lo ripetiamo, ma
nessuno ce ne voglia se osserviamo che se proprio il signor Jimenez
aveva deciso di interrompere il giro di presentazione, sarebbe stato
più proficuo che l’avesse fatto dopo le parole della signorina
Sampaio, che intervenire a questo punto è forse fin troppo facile.
Sia come sia, è meglio lasciar stare le questioni di merito ed
accontentarci del risultato finale, quello che conta è che le regole
del gioco sono state finalmente infrante e ciò vuol dire che ognuno
può ora parlare di quello che vuole e se non vuole parlare può
limitarsi ad osservare, come sta facendo la ragazza dal collo sottile
che in questo esatto momento sta pensando che è proprio vero che
l’abito non fa il monaco, che a giudicare dall’aspetto avrei
detto che il signor Campalans fosse piuttosto un contadino che un
artista, sarà perché una giacca di velluto a coste su un maglione
di lana accollato non è proprio l’abbigliamento più indicato per
una cena come questa, o forse per l’aspetto massiccio e per quelle
mani grandi, smisurate, che si direbbero mani di un uomo abituato a
lavorare la terra piuttosto che la tela. E’ di una pausa tra le
parole di elogio del signor Jimenez e il tentativo di schermirsi del
signor Campalans che approfitta l’ultimo commensale per declinare
rapidamente le proprie generalità. Mi chiamo Lorenzo Lupi, sono un
medico italiano e vado in Argentina per curare certi interessi di
famiglia. Il tutto detto di getto e con voce incerta, un po’ perché
lo spagnolo non è la sua lingua e molto per l’imbarazzo. Ecco
fatto, via il dente via il dolore, una frase asciutta, che si era
preparato mentalmente mentre ascoltava le presentazioni degli altri e
dalla quale aveva limato avverbi ed aggettivi inutili fino renderla
stringata al massimo, in modo da spegnere il prima possibile i
riflettori accesi sua persona. In una bocca chiusa non entrano
mosche, dicono gli spagnoli, ed anche se il nostro dottore spagnolo
non è, della gente iberica mostra di conoscerne ed apprezzarne
almeno i proverbi, che quanto a conoscere ed apprezzare anche altro
per ora non è dato sapere, possiamo solo confidare che su questo
argomento forse sarà più chiaro il tempo. Obiettivo parzialmente
riuscito, abbiamo detto, anche grazie all’aiuto non preventivato
dei camerieri che hanno scelto proprio questo istante per iniziare a
servire gli antipasti, così che l’attenzione e le chiacchiere dei
commensali sembrano catturate dal presunto, prosciutto affumicato
aromatizzato con paprica ed aglio che si accompagna con le olive nere
ed una fetta di broa de milhos, o pane di miglio per chi non mastica
il portoghese, piatto semplice ma gustoso che ci fa capire come
questa sera si cenerà alla lusitana, in onore della città che
abbiamo appena lasciato. Attenzione però, che le parole hanno un
loro peso e se abbiamo detto parzialmente riuscito invece di
perfettamente riuscito è perché qualcuno che ha ascoltato con
attenzione le parole del giovane dottore c’è ed è la signorina
Sampaio. In fondo è anche logico, che il giovane dottore è l’unica
delle persone sedute a tavola ad essere vicina a lei per età, e non
è neppure un brutto ragazzo per giunta, ma c’è di più, che
questi motivi non sarebbero da soli sufficienti per accendere
l’attenzione della signorina, Sono un medico, ha detto lui, e
questo ha rimandato la ragazza dal collo lungo e sottile al ricordo
di un altro medico un po’ più anziano, conosciuto oltre un anno
prima proprio a Lisbona, all’Hotel Bragança. Strano, di medici in
questo anno ne ha visti altri, ed il pensiero non è mai tornato a
Ricardo Reis, come mai succede ora. Difficile da dire, sarà il
contesto particolare, la nave, la partenza per il Sudamerica, sarà
che i ricordi vivono una vita autonoma nelle nostre teste e quando
decidono di saltare fuori lo fanno senza chiedere il permesso a
nessuno. Sia quel che sia Marcenda è stata così risucchiata dal
flusso dei suoi pensieri da dimenticarsi completamente dei suoi
compagni di cena, ed è un peccato che si sia persa l’inizio della
conversazione tra Alvaro de Campos e Ramon Jimenez, se non altro
perché si sarebbe evitata di sobbalzare sulla sedia all’udire il
signore con il monocolo fare il nome di Ricardo Reis, il medico a cui
stava proprio pensando. Per fortuna noi non siamo la signorina
Sampaio ed abbiamo ascoltato il dialogo tra i due signori sin
dall’inizio così che possiamo qui riportare integralmente le loro
parole a vantaggio del lettore. E’ stato come al solito il signor
Jimenez a stimolare il discorso, buttando lì un’osservazione che
aveva già da un po’ in animo di fare, esattamente da quando l’uomo
con il monocolo aveva declinato le proprie generalità. E’ successo
mentre stavano per attaccare il caldo verde, la minestra brodosa con
cavoli, salsiccia di maiale, aglio e peperoni rossi, tipica di questi
luoghi, che si è rivolto all’uomo con il monocolo dicendo che non
credeva che esistesse un ingegner Alvaro de Campos in carne ed ossa,
Voglio dire, ha spiegato, che pensavo che il suo fosse uno dei tanti
eteronomi sotto i quali si è sempre nascosto quello stravagante di
Ferdinando Pessoa, oltre al suo mi sembra di ricordare anche i nomi
di Alberto Caeiro e di Ricardo Reis. Proprio così, proprio Ricardo
Reis ha detto, proprio questo nome tra tanti, ed è a questo punto
che l’attenzione della signorina Sampaio ha avuto un brusco
risveglio. Esatto, ha risposto Alvaro de Campos, colto con il
cucchiaio fumante in mano, ricorda benissimo, ma come vede io esisto,
anche se non più come scrittore, ma solo come ingegnere. E come me
esistono o esistevano anche le altre persone che ha nominato, Posso
chiederle come mai ha scelto di non esistere più come scrittore,
visto che è chiaro che di una sua scelta si tratta, insiste Jimenez,
perdoni l’impertinenza della mia domanda, ma la sua scelta mi
risulta difficile da comprendere, dato che lei e quelli del suo
gruppo siete piuttosto famosi in Portogallo, Non so se siamo più o
meno famosi, risponde l’uomo con il monocolo, con un sorriso
accennato, come a dire di non preoccuparsi, che non ravvisa alcuna
impertinenza nelle parole del suo interlocutore ma solo legittima
curiosità, il fatto è che da quando anche Fernando Pessoa se n’è
andato, quasi due anni fa, tutto è cambiato. E’ una specie di
accordo che avevamo preso fra di noi alla morte di Alberto Caeiro, ci
eravamo guardati in faccia e ci eravamo ripromessi che il giorno in
cui fosse toccato a qualcun altro del gruppo di lasciare la
compagnia, nessuno avrebbe più scritto una sola riga, una decisione
presa di getto ma condivisa da tutti, anche se non aveva dietro
nessuna motivazione particolare. Mentre si svolgeva questa breve
conversazione nell’animo della signorina Sampaio si stava
combattendo una vera e propria battaglia tra la parte che sosteneva
che non stesse bene intervenire chiedendo notizie del dottor Reis,
che gli altri commensali avrebbero potuto farsi di lei chissà quale
idea, e la parte più curiosa che fremeva dalla voglia di saperne di
più e che pensava che in fondo non c’era niente di male ad
introdurre l’argomento. La curiosità è femmina dice un detto
comune, difficile da smentire soprattutto ora che la ragazza sembra
aver vinto ogni remora e si sta preparando a chiedere informazioni
sulla persona che le sta a cuore, Che strana coincidenza, ho
conosciuto un dottor Ricardo Reis, medico generico che proveniva dal
Brasile giusto quasi due anni fa proprio qui a Lisbona, e mi chiedevo
se potesse avere qualcosa a che fare con il Ricardo Reis di cui parla
lei. E’ molto probabile, per non dire sicuro, che il mio amico sia
la stessa persona che lei ha conosciuto, risponde cortesemente
l’ingegner de Campos, dato che in quel periodo si trovava a Lisbona
per i funerali di Pessoa. Ricordo di avergli spedito un telegramma
per avvisarlo del fatto e poi di essere ripartito per Glasgow, da
allora non l’ho più sentito, aggiunge pensieroso, quasi a cercare
dentro di sé un motivo valido che possa giustificare una così lunga
mancanza di contatti, Ed anche il dottor Reis ha fatto come lei e non
ha più scritto nulla da allora, chiede Marcenda, Strana domanda
signorina, risponde l’ingegner de Campos, credo di no, credo che
anche lui abbia mantenuto fede alla nostra promessa, anche se come le
ho detto non posso esserne certo perché sono anni che non ho sue
notizie. Strana domanda, ha osservato l’uomo con il monocolo ed in
effetti verrebbe da chiedersi cosa possa importare alla signorina
Sampaio se il dottor Ricardo Reis ha scritto altre odi oltre alle
pubblicate, dato che anche di queste poche lei non ha mai saputo
nulla. In realtà la domanda non è per nulla strana, almeno per noi
che sappiamo che in questo momento la ragazza dal collo lungo e
sottile sta pensando ad una cartolina speditale dal dottor Reis e
finita ora chissà dove. Nostalgia già di questa nostra età era
l’inizio di quella che doveva essere una poesia dedicata a lei, con
buona pace dell’ingegner de Campos che non crede che il suo amico
abbia più scritto nulla, E’ buffo, prosegue l’ingegnere, ora che
mi ci fa pensare credo che in casa di Pessoa ci siano almeno un paio
di casse piene di poesie ed altra roba che abbiamo scritto in questi
anni. Tutto materiale inedito, che quello che abbiamo pubblicato è
solo una piccola parte, E come mai aveva tutto Pessoa, interviene la
signora Zenobia, che fino a questo punto non aveva ancora parlato,
Perché noi avremmo buttato via tutto, io e Ricardo Reis non eravamo
mai contenti di quello che scrivevamo, riempivamo il foglio di
cancellazioni fino a renderlo illeggibile, Fernando era quello più
meticoloso del gruppo, era un po’ la nostra memoria, quello che si
occupava di archiviare i nostri lavori. Ve l’ho detto, eravamo una
specie di club, dove ognuno di noi aveva debiti di riconoscenza,
letterariamente parlando, nei confronti degli altri, ci criticavamo
ma anche ci influenzavamo a vicenda, bisticciavamo e poi tornavamo
amici ogni volta. E’ difficile spiegarlo a chi ne è fuori ma è
come se fossimo stati legati da un filo, tante perline colorate,
tutte diverse per forma, colore, dimensioni, ma tutte grani dello
stesso rosario, se mi è permesso un paragone un po’ blasfemo che
forse con il rosario non avevamo molto a che fare, E non ha mai
pensato a pubblicare il contenuto di quei bauli, insiste Zenobia, o
almeno a recuperarlo, non teme che possa finire in mani sbagliate o
peggio ancora andare smarrito, Le dirò signora, in tutta franchezza
non ho mai pensato a tornare in possesso di quelle carte, e quanto
alla possibilità di pubblicarle, dubito fortemente che possano
interessare a qualcuno, Non vorrei mettere in dubbio le sue parole,
interviene Jimenez, ma mi risulta difficile credere che uno scrittore
non provi attaccamento verso le sue opere, ci pensi bene caro amico e
valuti meglio la cosa, in fondo lei ha oggi l’opportunità di
mostrarsi ai lettori per quello che è e non per il gruppo nel quale
si è sempre identificato, Non avevo mai pensato a quello che mi
state dicendo, dice l’uomo con il monocolo, e devo dire che l’idea
mi stuzzica, ma non nel senso in cui l’intendete voi. Voglio dire
l’idea di non esistere, l’idea che un giorno saltino fuori da
quelle casse le nostre scartoffie e che qualcuno possa interpretarle
come opera di Pessoa e noi, intendo io, Ricardo Reis ed Albero Caeiro
come pseudonimi scelti da Fernando, come se non fossimo mai vissuti,
Magari lo penseranno anche di me, osserva Jusep Torres Campalans, a
ben pensarci la mia situazione ha parecchie analogie con la sua, sono
solo, non ho famiglia né radici, solo pochi, pochissimi quadri che
non so neppure che fine abbiano fatto, magari un giorno ci sarà
qualcuno che dirà che non sono mai esistito, e la cosa in fondo non
dispiace neppure a me. Fino ad ora il giovane dottore non ha ancora
parlato, ad eccezione della brevissima presentazione a cui non ha
potuto sottrarsi, e se è per questo non parlerà neppure adesso, ma
a noi che abbiamo la possibilità di leggere nei pensieri di queste
persone preme informare il lettore che anch’egli è della specie
dei Campos e dei Campalans, di quelli cioè che amano l’anonimato,
anche se non sappiamo quanto per scelta ragionata, quanto per
timidezza e quanto per sfiducia nelle proprie capacità. Quello che
sappiamo è che sta pensando a quanto gli piacerebbe sedere al tavolo
a fianco per osservare queste persone senza dare nell’occhio, a
quanto sarebbe interessante studiarne i visi, i gesti, senza sembrare
curioso. Chi non è di questa specie è invece la signorina Sampaio,
che però a differenza del giovane dottore non si vergogna a far
conoscere a tutti il suo pensiero, Anche se questa mano mi ricorda
che mi trascino dietro qualcosa di morto anch’io, dice, tuttavia
credo di essere viva e un domani mi piacerebbe che ci fosse chi mi
ricordi, Ma certo che è viva signorina, chiosa l’ingegner de
Campos, ci mancherebbe che prendesse troppo sul serio i nostri
ragionamenti, che noi stavamo solo scherzando, immaginando quanto a
volte possa essere comodo l’anonimato, non si preoccupi, la prego,
che per quanto possono valere le mie parole io le assicuro che lei è
viva, vivissima, almeno né più né meno di quanto lo siamo noi.
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