Ciak, si spara.
J'accuse bernhardiano contro tutto e tutti.
Un libro che parla di morte e dell'incapacità (impossibilità?) di accettare lo status quo. Una lettura a tratti faticosa, un monologo torrenziale dove il protagonista, Franz Josef Murau/Thomas Bernhard, con una prosa a tratti ossessiva, fatta di reiterazioni continue quasi fosse lingua parlata, lancia i suoi strali di volta in volta contro la famiglia, l'Austria, la Chiesa, il nazionalsocialismo (ma anche il socialismo per come è stato applicato) e in genere contro tutto quello che gli capita a tiro (ce n'è anche per Goethe e la fotografia intesa come mistificazione della realtà). Il tutto per la volontà di affrancarsi da un mondo che il protagonista rifiuta ma dal quale si sente contagiato, per estinguere quello che è stato, le radici e i valori sui cui si fonda la società e nei quali non si riconosce.
C'è pochissima azione in questo romanzo, quasi tutto quello che succede avviene “dentro” a Josef Franz. Le sue invettive, i suoi giudizi su persone e istituzioni, non sfociano in conflitto aperto ma rimangono compressi all'interno del suo animo come se anche lui fosse, in fondo, schiacciato dal mondo di convenzioni che vuole distruggere (emblematiche, a questo proposito, le pagine nelle quali corre a spalancare le finestre della dimora di Wolfsegg per lasciare entrare l'aria e la luce e quelli in cui apre le porte delle biblioteche di casa per togliere la polvere ai libri, per farli vivere. Almeno loro).
Non condividendo gli ideali dei genitori e della società austriaca, Josef Franz prova a costruirsi una vita a Roma, lontano dall'ambiente familiare, ma le morti dei genitori e del fratello lo riporteranno a Wolfsegg, quasi a testimoniare che non è possibile estinguere il proprio passato semplicemente allontanandosi.
Non si può fuggire, per estinguere è necessario tornare e fare i conti con le proprie radici in maniera definitiva.
Non si tratterà di un'estinzione indolore, perché Murau/Bernhard è cosciente di essere stato contagiato dall'ambiente e dagli ideali che vuole combattere e sa perfettamente che la strada che ha deciso di percorrere è senza uscita. Non è possibile liberarsi da un mondo di cui si fa parte, distruggere tutto vuol dire distruggere anche se stessi, un vicolo cieco per una conclusione quasi musiliana: pensare significa fallire, agire significa fallire.
Trovo Bernhard spiazzante, eccessivo. Non si ferma davanti a niente e a nessuno, non fa sconti ne concessioni e intinge la penna nel veleno non tanto per il gusto di provocare quanto per il bisogno di dire quello che sente.
Aggiungerei che a me Bernhard non fa ridere per niente (come invece ha scritto J. Marias sostenendo che trovava le sue invettive “irresistibilmente e intenzionalmente divertenti”), magari è vero che la tragedia sfocia a volte nel grottesco, ma da qui a ridere...
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