È sempre interessante
leggere (o rileggere) Dostoevskij e nella fattispecie le opere che
hanno preceduto i grandi romanzi. Osservare le variazioni nello stile
e come vengono delineati i personaggi, la costruzione del discorso
diretto e i monologhi introspettivi. Seguirne le tracce, scoprire le
idee abbozzate da qualche parte e poi abbandonate strada facendo e i
percorsi che invece sono stati sviluppati nel tempo.
Memorie dal sottosuolo
aggiunge un ulteriore tassello alla ricerca del grande russo, pur non
rappresentando – a mio avviso – un punto di svolta nella sua
produzione letteraria (come invece si afferma da più parti), ma
piuttosto una continuità con temi che appaiono qua e là in Povera
gente e soprattutto nel Sosia e
che qui vengono ulteriormente sviluppati. La differenza casomai, come
osserva Bachtin, è che in questo romanzo il protagonista è
sostenuto da un'ideologia, un pensiero che nella prima parte
dell'opera viene espresso in un'inconsueta forma di monologo quasi
filosofico e poi sostenuto della seconda parte in forma di racconto.
Sono
cattivo, so di esserlo e non voglio cambiare. Questo è l'assunto dal
quale parte il narratore, per poi constatare di essere, in realtà,
né buono né cattivo, di non essere nulla: il prototipo dell'uomo
del XIX secolo, condannato dalla sua "troppa coscienza" ad
essere senza carattere, destinato dall'eccessiva consapevolezza ad
imboccare un vicolo cieco che conduce inevitabilmente all'inerzia.
Troppi
dubbi, troppo ragionare, troppa introspezione... in una parola: il
sottosuolo.
Ad
ogni angolo sembra di sentire echi di Pessoa, Musil, Bernhard e
chissà di quanti altri, ma forse meglio sarebbe dire che nell'opera
di Pessoa, Musil, Bernhard e chissà quanti altri ad ogni passo
risuona qualche eco di Dostoevskij.
Autocoscienza,
capacità di analisi, consapevolezza di sé... vissute come una
colpa, un fardello con il quale convivere, ma anche un dolore che può
trasformarsi in una specie di piacere amaro.
Nella
seconda parte dell'opera, come detto, queste tesi vengono espresse in
forma di racconto, nel quale Dostoevskij utilizza il dialogo in
maniera simile a come aveva già fatto nel Sosia.
Ritroviamo le stesse atmosfere febbrili, il ritmo incalzante,
l'assenza di equilibrio e di logica nelle parole e nelle azioni del
protagonista. Tutto è fuori e tutto è dentro: tutto è
apparentemente dialogo, confronto e scontro con l'altro ma in realtà
tutto è monologo, contorcimento, avvitamento del personaggio su se
stesso in un vortice destinato a portarlo sempre più a fondo.
L'uomo
del sottosuolo è un uomo solo, che vorrebbe avere rapporti con gli
altri ma non ci riesce. Non sa come comportarsi e il suo approccio
finisce per essere rozzo: nel confronto con l'altro cerca di
dominare, di schiacciare il suo interlocutore, atteggiandosi a
superiore mentre in realtà è vittima di un complesso di
inferiorità, è lui a sentirsi non all'altezza degli altri. Non
essendo in grado di vivere una vita vera è costretto a viverne
un'altra, a rifugiarsi nel sottosuolo, un mondo solo suo, dove è lui
a dettare le regole del gioco e dove anche il dolore che prova sembra
un dolore "indotto", che si infligge da solo quasi a
dimostrare a se stesso di essere in grado di avere sentimenti, di
provare emozioni.
Memorie
dal sottosuolo è un'opera potente, che seppur ancora incentrata su
un'unica voce e per questo ancora distante dalla polifonia dei
romanzi successivi, continua l'indagine di Dostoevskij sugli abissi
dell'animo umano preparando la strada alle opere più mature.
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