Romanzo d'esordio
impressionante per maturità e rigore nel quale l'autore rilegge il
1978, annus horribilis della storia italiana, attraverso gli occhi di
tre preadolescenti che sulla base della fascinazione esercitata dal
delitto Moro, decidono a loro modo di fare la rivoluzione.
L'io narrante è Nimbo,
un ragazzino di undici anni che esperisce la realtà in una maniera
del tutto originale, non contentandosi cioè dell'osservazione del
mondo, ma aggiungendo ad essa anche l'uso degli altri sensi, il
tatto, il gusto, l'olfatto. Vasta traduce il tutto con un linguaggio
nuovo, fatto di una sorta di espressionismo stilistico - talora anche
troppo manierato - ricco di aggettivi ed immagini, una specie di
lente colorata che deforma tutto ciò su cui si posa.
La lotta contro lo Stato
è la molla dalla quale scaturisce la storia ed anche il filo
conduttore della narrazione, ma insieme a metafore, simboli e
allegorie, mille sono i fili, più o meno sotterranei, che si
intrecciano fra le pagine.
Uno di questi lo
individuerei nell'impossibilità di comunicare tra bambini e adulti
(e probabilmente nella difficoltà di comunicare in generale): i tre
protagonisti cercano a modo loro di capire quello che succede intorno
a loro, ma nonostante si esprimano e ragionino come uomini rimangono
dei ragazzini, lasciati soli a confrontarsi con avvenimenti epocali.
L'emulazione delle Brigate Rosse finisce così per essere un misto di
gioco ed impegno, il tentativo di avere visibilità, di affermare se
stessi, di essere colpevoli pur di essere.
Altro tema importante è
quello del linguaggio: Nimbo, Raggio e Volo (nomi di battaglia dei
tre undicenni) rifiutano quello convenzionale perché espressione di
una realtà che vogliono cambiare, per sostituirlo con l'alfamuto,
un codice di comunicazione fatto
di posture e gesti che utilizzano i simboli della cultura di massa
dell'epoca rileggendoli in funzione dei loro scopi, un uso delle
forme cambiando i contenuti che esse dovrebbero rappresentare, simile
per certi aspetti a quello che facevano Schifano, Angeli, Festa,
Rotella, gli artisti della pop-art.
Il tempo materiale
è un romanzo duro e a tratti angoscioso, che procede con andamento
sincopato: frasi brevi e ritmo incalzante sottolineano le fasi della
narrazione dedicate all'azione, alle malefatte del gruppo, ad esse si
alternano monologhi o surreali dialoghi ideali con animali od oggetti
in cui il protagonista cerca faticosamente di elaborare quello che
sta succedendo e se nella prima parte dell'opera la riflessione
precede e prepara l'azione, nella seconda accade l'esatto contrario
con Nimbo che fatica a stare dietro a quello che succede, a capire
dove sta andando e perché.
Se posso trovare una
pecca in quest'opera è che una volta raggiunto il climax, la storia
da l'impressione di scivolare verso il finale in maniera un po'
troppo rapida. Forse si tratta di una scelta intenzionale dell'autore
per rendere al meglio l'idea del precipitare degli eventi, tuttavia
mi sembra uno scarto di velocità che stride con l'armonia del
racconto. Ancora un'ultima annotazione a proposito del rigore con cui
è costruito il romanzo: in certi momenti ho avuto l'impressione di
una precisione e di un controllo quasi eccessivi, una sensazione
simil-claustrofobica, come se tutto fosse consequenziale, già
compreso dentro la trama.
Gusto personale, sia
chiaro, infinitesimi granelli di sabbia in un ingranaggio ben rodato.
Poca roba per uno tra i romanzi italiani più importanti degli ultimi
tempi.
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