domenica 29 novembre 2015

La poesia cresce sulla contraddizione, ma non la ricopre.


ODE ALLA MOLTEPLICITÀ

Non capisco tutto e mi rallegro

persino che il mondo come un oceano
inquieto superi la mia capacità
di comprendere il senso dell’acqua, della pioggia,
dei bagni nello Stagno del Fornaio, vicino
al confine boemo-tedesco, nel settembre
del 1980; dettaglio questo senza particolare
significato, un profondo stagno germanico.
Che l’Ego in crisi di ossigeno
respiri tranquillo, un nuotatore taglia la linea
del meridiano, è sera, le civette si svegliano
dal sonno diurno, in lontananza
rombano pigramente le auto. Chi per una volta
ha sfiorato la filosofia è perduto,
non lo salverà la poesia, resterà
sempre, rimanenza
incalcolabile, la nostalgia. Chi per una volta ha conosciuto
la folle corsa della poesia più non proverà
la quiete petrosa della prosa familiare
dove ogni capitolo è nido
di una generazione. Chi per una volta è vissuto non
dimenticherà la delizia mutevole delle
stagioni, persino le bardane gli appariranno in
sogno e le ortiche e i ragni, solo
un poco più brutti delle rondini. Chi per una volta
ha incontrato l’ironia sbufferà ridendo
durante la lezione del profeta, chi per una volta
ha pregato non solo con le labbra asciutte
ricorderà la presenza di una strana eco
rimbalzata da una parete. Chi per una volta ha
taciuto non vorrà parlare durante
il dessert, chi è stato ustionato dallo shock
dell’amore farà ritorno ai libri
con volto mutato.
Rimani dritta, anima singola, di fronte
all'eccesso. Due occhi, due mani,
dieci dita ingegnose e
un solo Ego, un quarto d’arancia,
la più giovane delle sorelle. Il piacere
dell’udito non guasta il piacere
della vista, m a l’ebbrezza della libertà distrugge
la pace degli altri sensi quieti.
La pace, un nulla spesso, pieno di dolce
succo come una pera a settembre.
Brevi istanti di felicità svaniscono
sotto una slavina di ossigeno, d ’inverno una cornacchia
solitaria batte il becco sulla bianca distesa
gelata del lago, una coppia di picchi impaurita
dall'accetta cerca sotto la mia
finestra un pioppo abbastanza malato.
Una donna dall'aria assente scrive
lunghe lettere e la nostalgia si gonfia come
l ’oppio; in un museo egizio un papiro
bruno è intriso della stessa
nostalgia, più antica di alcuni
millenni, incrollabile e intatta.
Le lettere d ’amore vanno sempre
a finire nei musei, i curiosi sono più
ostinati degli innamorati. L'Ego avido
trangugia l’aria, la ragione si risveglia
dal sonno diurno, il nuotatore esce
dall'acqua. Una donna avvenente posa per
la felicità, gli uomini fingono di essere
più coraggiosi di quanto non siano veramente,
il museo egizio non cela le debolezze
umane. Esistere, per esistere ancora,
forse offrendosi in affitto
a una delle gelide stelle. E talvolta
beffarsi di lei che è fredda e viscida
come una rana nello stagno. La poesia cresce sulla
contraddizione, ma non la ricopre.

[Adam Zagajewski: "Dalla vita degli oggetti"]


sabato 28 novembre 2015

Juan Carlos Onetti - Raccattacadaveri



Onetti è Onetti è Onetti…

Raccattacadaveri è uno dei libri che Onetti dedica alla saga di Santa Maria, Raccattacadaveri è Larsen, gestore di un bordello, ma Raccattacadaveri non è solo una trama come tante, Raccattacadaveri è un capolavoro di stile, una delizia per il lettore, con passaggi da leggere e rileggere più volte per gustarne appieno il bouquet, come un vino sapientemente invecchiato del quale non vogliamo perdere neppure una sfumatura.
Sfrondare, tagliare, eliminare il più possibile gli aggettivi, dire e non dire, andare all’osso… così dicono i soloni della scrittura creativa. Sì, certo: vallo a dire a Onetti, prova a togliere solo una parola a quelle frasi rigogliose, cariche come grappoli d’uva.
Era un uomo di oltre cinquant’anni, con una peluria a piumino intorno alla pelle rosea del cranio, con la faccia flaccida e glabra, con sporadiche fiammelle d’astuzia e d’interesse sotto la canizie precoce delle sopraccigli. S’accomodava, corretto e pesante, sul sedile circolare della sedia, teneva unite le scarpe piccole e lucide, e descriveva curve nell’aria con la mano sinistra, o la presentava a palmo rovesciato sulla coscia. Forse sapeva di cosa stava parlando quando imponeva il racconto della sua vita, ed enumerava o diminuiva ingiustizie; quando la voce ridente ripercorreva luoghi comuni: il capitalismo, l’oligarchia, le cooperative agricole o il laburismo inglese; quando lasciava intendere che tutto ciò era stato, se non un prologo deliberato, un antecedente fatale dell’esistenza di un postribolo a Santa Maria.
Ecco, questo, per esempio, è Barthè, il farmacista.
E questo Jorge, il ragazzo:
io sono io, Jorge. Io sono io, questo essere, questo loro “ragazzino”, triste, diverso, incerto e saldo quanto nessuno di loro potrebbe mai sospettare; così discosto e così incombente su tutti loro. Io sono costui che guardo vivere e fare, con simpatia, senza amore eccessivo; io sono costui con la pazienza cortese e inesauribile nei confronti di ognuna delle commedie tediose e senza spirito nelle quali loro si ostinano a complicarsi per far sì che gli riesca intellegibile, per preservarsi dalle novità e dalle diffidenze. Cammino in un giardino curato e umido, mi lascio bagnare il viso dalla pioggia che non spiega nulla, penso oscenità distratte, guardo la luce della finestra dei miei. Non voglio imparare a vivere, ma scoprire la vita una volta per sempre. Giudico con passione e vergogna, non posso impedirmi di giudicare; tossisco e sputo verso il profumo dei fiori e della terra, ricordo la condanna e l’orgoglio di non partecipare alle loro azioni.
E siamo solo a pagina 30. 30 di 300.
Trecento pagine di prosa ipnotica, parole che galleggiano leggere sul foglio, la sciabordio dell’onda che lambisce la riva, quel ritmo regolare che chiede solo di essere assecondato. Rallentare la corsa dei pensieri, chiudere gli occhi, ascoltare, provare a sentire le cose. Lasciarsi andare.
Raccattacadaveri è un libro di immagini: le donne di vita che arrivano a Santa Maria, i vari protagonisti della trama, il dottor Diaz Grey che lascia la casa di Larsen:
Scesero le scale, entrando nel vento freddo che arrivava dalla strada; Diaz Grey con gli occhi socchiusi e col bastone appeso al braccio, mentre si appoggiava al corrimano e così si lasciava guidare, risentì, con la stessa intensità di cinque anni prima, ma con una tenera curiosità che non aveva conosciuto prima, la tentazione del suicidio. Si calava nella penombra verso il vento e la solitudine delle strade, verso le abitudini, verso il pranzo da solo, verso la ripetizione di gesti e di frasi rivolti alla serva, verso i vecchi trucchi per mezzo dei quali riusciva a non pensarsi, a non affrontarsi.
Un mondo di vinti, di personaggi che interpretano una parte e mentono, anche a se stessi. Un mondo fatto di attese infinite, di disincanto, di parole che evocano immagini che evocano suggestioni…


Leggere Raccattacadaveri ed entrare nel suo mondo è stato per me un grande privilegio.

domenica 22 novembre 2015

Mircea Cărtărescu – Nostalgia


Cinque racconti nei quali troviamo alcune delle tematiche della produzione cartarescuana che saranno poi abbondantemente riprese e sviluppate nella trilogia di Abbacinante: il dualismo sogno/realtà, la solitudine, le ossessioni, il rifugio nella scrittura come strumento di difesa nei confronti del mondo, il viaggio verso l’assoluto e la ricerca di una “porta” che permetta di entrare e uscire a piacimento dal reale.
Il primo racconto, l’uomo della roulette, è una storia borgesiana nella quale la letteratura è utilizzata come “cavallo di Troia” per passare dalla realtà al sogno, la dimensione che l’autore predilige, il luogo dove l’impossibile diventa possibile e i personaggi non muoiono mai.
Nel secondo, il Mendebile, si parla di un ragazzino diverso da tutti gli altri (Mendebilul in rumeno è lo psicolabile, il debole di mente, ma anche l’escluso), un bambino dalla personalità magnetica in grado di conquistare gli altri mostrando loro le potenzialità della parola e della fantasia sull’azione. Il Mendebile è un suscitatore di sogni, una specie di illusionista in grado di mostrare punti di vista diversi da quelli considerati fino a quel momento, una specie di Prometeo che affascina e seduce gli altri fino a quando riesce a cavalcare il potere eversivo della parola, ma destinato a veder concludere la parabola del suo successo quando mostrerà di non essere immune al fascino di emozioni e passioni proprio come tutti.
I gemelli è il racconto di un rapporto a due che non riesce ad evolvere, un tira e molla continuo che attraversa il confine tra fisiologico e patologico trasformandosi in ossessione,. L’amore – dice l’autore – è al tempo stesso qualcosa di naturale e di inspiegabile e le dinamiche che scaturiscono da questa contraddizione sono al centro dell’indagine di Cărtărescu che viviseziona i sentimenti e i comportamenti del protagonista della storia come un pezzo anatomico passato al microscopio. Come proteggersi da una realtà che ci chiama con canto di sirena per farci cadere tra le sue spire? Smettendo di guardare la nostra immagine riflessa nello specchio (ancora Borges): l’unica maniera che abbiamo di sfuggire alle seduzioni del mondo materiale è quella di evitare di guardarlo, per non finire irrimediabilmente risucchiati al suo interno. Se non guardare il mondo è un modo per proteggere il nostro corpo, scrivere è la risposta che Cărtărescu propone per difendere la nostra mente, consapevole però che quella che sceglie di combattere è una lotta impari destinata alla sconfitta: il destino dell’uomo è quello di precipitare nel gorgo del mondo e ogni passo che egli compie per tirarsi fuori dalle sabbie mobili della realtà finisce per farlo scivolare ancora un po’ di più verso il fondo.
REM è una storia che definirei murakamiana con echi kafkiani (il punto di vista del narratore è quello di un insetto), una specie di cammino iniziatico verso il REM, origine e spiegazione di ogni cosa, l’uscita e l’ingresso, l’inizio e la fine. Una storia stranissima, che fa da contenitore e contenuto e che si avvita su se stessa con la forza di un vortice marino che ci attrae trascinandoci al suo interno.
Il tema delle ossessioni ritorna prepotente nell’architetto, l’ultimo racconto della raccolta, nel quale, appunto, un architetto attribuisce al clacson della sua automobile un significato che travalica quello consueto, stabilendo che sia lo strumento che essa utilizza per esprimere se stessa, per comunicare con l’esterno. Di qui una serie di conseguenze immaginifiche fino a un’antropizzazione dell’auto o a un’”oggetivizzazione” dell’uomo, al punto che i due diventano qualcosa di simbiotico, un unicum che pian piano perde in contatto con la realtà assurgendo a qualcosa di superiore, mistico, una specie di buco nero che finisce per inglobare tutto quello che incontra.